sabato 9 maggio 2015

Psicologia e dintorni...Hikikomori

Hikikomori (引きこもり? letteralmente "stare in disparte, isolarsi",[1] dalle parole hiku "tirare" e komoru "ritirarsi"[2]) è un termine giapponese usato per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento. Tali scelte sono causate da fattori personali e sociali di varia natura. Tra questi, la particolarità del contesto familiare in Giappone, caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da un'eccessiva protettività materna, la grande pressione della società giapponese verso autorealizzazione e successo personale, cui l'individuo viene sottoposto fin dall'adolescenza. Il termine hikikomori si riferisce sia al fenomeno sociale in generale, sia a coloro che appartengono a questo gruppo sociale.
Il percorso terapeutico, che può durare da pochi mesi a diversi anni, consiste nel trattare la condizione come un disturbo mentale (con sedute di psicoterapia e assunzione di psicofarmaci) oppure come problema di socializzazione, stabilendo un contatto con i soggetti colpiti e cercando di migliorarne la capacità di interagire. Il fenomeno, già presente in Giappone dalla seconda metà degli anni ottanta, ha incominciato a diffondersi negli anni duemila anche negli Stati Uniti e in Europa.
http://it.wikipedia.org/wiki/Hikikomori


http://www.iltuopsicologo.it/


             HIKIKOMORI: “LA STANZA DI DENTRO”

(a cura della Dott.ssa Francesca Lecce - Psicologa)

IO MI SENTO AL SICURO SOLO QUI'


Lo scopo di questo articolo consiste proprio nella spiegazione di tale affermazione, che sintetizza in poche righe il nucleo essenziale delle ricerche in letteratura che ho condotto in questi mesi: quello che comunichiamo è ciò che l’altro ha compreso e non quello che pensiamo di aver comunicato.
La “stanza segreta” della nuova generazione Giapponese è un fenomeno alquanto complesso, la sua manifestazione non si riduce soltanto a ciò che comunemente hanno definito come “ritiro sociale di adolescenti problematici”, ma si promuove come “la nuova comunicazione della generazione umana”. Termine che non si attribuisce automaticamente a tutta la realtà giovanile ma che rappresenta tutta l’inquietudine del mondo osservata dagli occhi di chi “fatica” a comunicare.
Tutti i mutamenti, tutti gli accadimenti tutte le devianze che gravitano intorno al termine “adolescenti problematici” vanno visti come l’emergere della ri-posizione di un soggetto uscito dall’età innocente. Gli elementi di crisi che definiscono ciascun soggetto adolescente mettono in luce, attraverso le sue specifiche manifestazioni, la struttura del soggetto al di là della cultura e delle epoche che necessariamente cambiano.
Oggi riti molto meno complessi e di poco valore simbolico segnerebbero il passaggio ad un’altra fase della vita. Tuttavia, quasi sempre, questi mutamenti non vanno di pari passo con l’emergenza pulsionale, una metamorfosi che con l’evidenza dei cambiamenti del corpo sessuato non è più ignorabile. In tutte le società il passaggio dalla famiglia (microcosmo) al mondo esterno (macrocosmo), dalla caduta dell’onnipotenza e della dipendenza infantile all’assunzione di una consapevolezza intesa come capacità di una iniziativa sempre più vasta, è valutata una fase molto complessa. Una fase più o meno lunga, di solitudine e di domande senza risposte, in cui affrontare i mutamenti della propria esistenza e della propria pulsionalità in relazione al sociale sino all’accettazione di un ruolo adulto. La separazione dalla madre, dal nucleo familiare, se non ancora più specificamente la mancanza delle iniziative dell’attaccamento (infantili e materne), la carenza del sottile gioco degli atti, l’assenza delle relazioni sincroniche e diacroniche e delle loro interpretazioni, è infatti sentito dall’adolescente come un lutto e come pericolo di morte.
Pertanto, l’abbandono dell’onnipotenza infantile è sentito come mancanza di appigli e come necessità di trovarne di nuovi in maniera autonoma e particolare. Una chiamata ineludibile, a cui non è possibile non rispondere.
Così i comportamenti “devianti” (come il fenomeno Hikikomori) evidenziano punti conflittuali rimossi e, celano, ciò che l’adolescente ricerca per affermare la sua individualità nel sociale e nel pulsionale. A tal riguardo credo che il caso Hikikomori vada  affrontato da diversi punti di vista.

Una comunicazione di tipo “selettivo”.
A mio avviso il primo punto da analizzare, dopo aver chiarito le problematiche relazionali che incontra e manifesta l’adolescente, riguarda indiscutibilmente la comunicazione (di tipo selettivo) e il messaggio che si trasmette tramite tale comunicazione. La comunicazione come l’altra faccia dello specchio rispetto all’apparente natura del fenomeno Hikikomori. Nessuno può negare che nella società Giapponese si assiste nel periodo contemporaneo, ad  una nazione forte sul piano industriale e finanziario che minaccia di surclassare quei paesi occidentali più avanzati che lo hanno sponsorizzato. Sarebbe sufficiente partire da questo spunto per argomentare alcune risposte al quesito di apertura di questa affermazione socio-culturale (Carbonaro, La Rosa, 1997). Ma prima di soffermarmi sul principale cardine del Giappone: il conformismo più spinto alle regole, sia nella scrittura che nelle consuetudini e, perdere il controllo, nel parlare su quanto il fenomeno Hikikomori sia influito dalla società Giapponese (società modernizzata, ricca e potente ma anche fragile e in crisi di identità, formale e impenetrabile) vorrei incentrare l’argomento non sull’espressione “consumo e lavoro ergo sono” ma sulla citazione di Gregory Bateson - la comunicazione si crea attraverso le incessanti alchimie e trasformazioni che si generano all’interno delle relazioni tra gli elementi che compongono il sistema; la comunicazione, dunque, nasce, e si sviluppa nel segno delle differenze e del cambiamento, in un universo di messaggi che acquisiscono un chiaro significato solamente se collocate nel loro contesto relazionale e ambientale-.
Se si tiene in considerazione la mente di ciascuno di noi si può notare come essa elabori tutto secondo il proprio vissuto e, quindi, come non sia altro che il prodotto del proprio vissuto. Questo concetto, conferma, come la comunicazione si può ricondurre ad un rapporto tra lessico e interazione sociale in chiave genetica ed evolutiva. Prendiamo ad esempio una parola ordinaria come “aiuto”, o “ mangiare”, o “allegro”, o “chiudere” e osserviamo come e cosa un adolescente può  suscitare al ricevente tramite la trasmissione del messaggio.

Immaginiamo che la parola dell’emittente sia “aiuto”. Senza particolare intonazione di voce.
Se si chiedesse, a questo punto al ricevente cosa  ha sentito, sicuramente ci direbbe di essere ricorso a delle situazioni immaginarie prima di rispondere a questo tipo di messaggio.
Ipotizziamo ora che lo stesso adolescente dica: “Aiuto!”. Usando un tono di voce spaventato.
Se si chiedesse, in questo caso, al ricevente cosa ha sentito sicuramente ci direbbe di essere ricorso a situazioni inventate più minuziose, più ricche, più vive.
Infine, immaginiamo, che l’adolescente pronunci: “Aiuto?”
Il ricevente, a tal riguardo, sicuramente ci direbbe di aver sentito una domanda.
Ciò che è sempre quasi presente nelle soluzioni trovate dal ricevente si svolgono in contesti interattivo-sociali. Questi contesti possono poi essere costituiti da gruppi composti da due soggetti, o essere più ampi (tre, quattro, più individui) e anche se la qualità e la quantità degli scambi interattivi varia in relazione a diverse variabili, una cosa è certa: il ricevente è sempre presente (Aprile, 1993). Dunque in sintesi:
  l’emittente ha comunicato un messaggio.il messaggio di qualunque natura sia (informazione, dato, notizia o semplice sensazione) è stato trasmesso.il codice (una lingua, un gesto, un grafico, un disegno) ha permesso che la comunicazione sia avvenuta.
  il ricevente (il soggetto o i soggetti) ha ricevuto il messaggio.

COMUNICAZIONE= TRASMISSIONE, PASSAGGIO DI INFORMAZIONE



.EMITTENTE
RICEVENTE

COMUNICAZIONE = RELAZIONE, COMPRENSIONE 

La comunicazione verbale sinteticamente è un processo attivo tipicamente umano e sociale di scambio e condivisione delle informazioni, delle idee, dei messaggi fra due o più soggetti. Il processo della comunicazione inizia quando un emittente concepisce un messaggio e lo trasmette, attraverso un mezzo o un canale specifico, al ricevente, il quale lo interpreta e rimanda, in qualche modo, un altro segnale, con cui rende noto che il messaggio è stato ricevuto e compreso. Questi processi di produzione/ricezione sono continui nella comunicazione: una delle sue caratteristiche è, infatti, quella di scambiare le posizioni all’infinito.
All’interno di ciascun processo comunicativo è possibile classificare una serie di “funzioni”. Lo studioso Roman Jakobson ne ha classificate sei:
  funzione espressiva o emotiva: il linguaggio consente di esprimere la propria personalità, i propri stati d’animo e sentimentifunzione conativa: attraverso il linguaggio si possono influenzare i comportamenti degli altri. Rientrano in tale categoria la richiesta d’aiuto, il suggerimento, la persuasione, il comandofunzione poetica: si riferisce all’organizzazione interna del messaggio e riguarda il modo in cui viene messo in pratica e strutturatofunzione referenziale: riguarda il rapporto tra il messaggio e la realtà esterna attraverso determinati strumenti linguisticifunzione fàtica: riguarda il mantenimento della comunicazione avviata
  funzione metalinguistica: è relativa alla presenza di elementi all’interno del messaggio che definiscono il codice stesso.
Dunque, la comunicazione è un aspetto essenziale della nostra esistenza. E sarebbe problematico cercare di mettere in dubbio la fondatezza di tale affermazione, in particolar modo nel caso specifico degli esseri umani: tutti noi comunichiamo costantemente con gli altri esseri viventi e con l’ambiente circostante. Fin dai primi giorni di vita ci troviamo immersi come soggetti attivi e dotati di capacità comunicative all’interno di una condizione relazionale che fa partecipe le nostre figure primarie d’attaccamento e, allo stesso tempo, siamo involontariamente coinvolti in un continuo processo di acquisizione delle “regole” della comunicazione. Se pensiamo che a partire dagli anni Ottanta gli studi condotti sulla relazione madre-bambino focalizzano l’attenzione sulle tendenze innate e sui problemi del primo anno di vita, anche in funzione di un eventuale intervento precoce per prevenire disturbi nella seconda infanzia e, collocano in posizione di centralità lo studio della relazione primaria. Emde, analizzando le modalità fondamentali dello sviluppo, prende in considerazione le “motivazioni di base” che sono innate nel bambino, che rintracciano la loro espressione evolutiva all’interno del rapporto, che permangono negli anni e dalle quali non può prescindere lo sviluppo. Particolare rilievo è dato dallo studioso alla “predisposizione alla socializzazione” che egli indica come “terza motivazione di base”: il bambino nasce preadattato ad una serie di interazioni con gli altri. A tal riguardo, Emde, mette in risalto la “natura diadica del sistema motivazionale: la predisposizione alla socializzazione, in quanto tendenza innata, è comune sia al bambino che al genitore”. il bambino pertanto in questa relazione costruisce non solo il Sé, ma anche i modelli relazionali. Per concludere, tutto il percorso evolutivo, comprendente talvolta anche disarmonie più o meno significative, è comunque influenzato sia dalle condizioni ambientali, in particolare del rapporto con la madre, che lo caratterizza attingendo alla sua sensibilità, ma anche alle personali conflittualità, sia dal patrimonio genetico che condiziona gli “schemi reattivi primari”
Dopo aver tentato di capire lo sviluppo delle sindromi relazionali e dopo aver cercato di centrare il significato della parola “comunicazione” e/o “relazione”, è necessario condurre in primo luogo la domanda “perchè si comunica” al fenomeno di inibizione sociale dei giovani Hikikomori.

L’impossibilità di non comunicare: qualsiasi comportamento, in situazione di reciprocità tra persone, è ipso facto una forma di comunicazione. Infatti qualunque sia l’atteggiamento assunto da qualsiasi individuo questo diventa immediatamente portatore di significato per altri ed ha dunque valore di messaggio. Anche la mancanza di reazione, i silenzi, e l’ozio sono forme di comunicazione, poiché portano con se un significato e un messaggio. Ad esempio, non è difficile che due perfetti estranei nella medesima sala d’attesa di un ambulatorio si ignorino completamente e apparentemente non comunichino. In realtà tale indifferenza reciproca costituisce uno scambio di comunicazione nell’ugual misura in cui può esserlo una discussione energica.  
In secondo luogo bisognerebbe chiedersi come si comunica quando si parla di comunicazione.

Ogni comunicazione comporta di fatto un aspetto di metacomunicazione che determina la relazione tra i comunicanti. Ad esempio, un adolescente che esprime un ordine:
- da oggi resterò chiuso nel mio mondo, vi proibisco di entrare nella mia stanza segreta!
Comunica, oltre al contenuto (la volontà che l’ascoltatore compia una determinata azione), anche la relazione che trascorre tra chi comunica e chi è oggetto della comunicazione. Ogni comunicazione oltre a trasmettere informazione, implica un impegno tra i comunicanti e definisce la natura della loro relazione.
La comunicazione sociale è sostenuta oggi anche da moderni strumenti, che consentono, di superare le barriere e i vincoli di tempo e di spazio e, fra i nuovi modi di comunicare, Internet è certamente uno dei mezzi che offre maggiori opportunità.
Sherry Turkle ha scritto un libro nel 1997 intitolato "Il secondo Io" ed analizzandone il significato potremmo capire come il mondo del web risulti essere una versione di se stessi, un vero sé. Proponendolo come essere onnisciente, nel senso che può fornire in pochi secondi così tante informazioni e così tanti contatti e relazioni, soffrendo di sintomi di ritorno nel momento in cui arriva l’ora di spegnerlo (e si esce da quel mondo). In tal modo con la nascita del trasmesso, lo scritto, nonostante sembrava essere destinato a una lenta ma inesorabile fine ha invece rilanciato una “nuova” lingua scritta, come dimostra il recente sviluppo, anche in Italia, dei siti internet e delle chat-line (Carrada, 2000). Caratteri veloci e brevi come quelli presenti nella comunicazione delle chats, che si svolgono in uno spazio puramente virtuale. Questa forma di trasmissione a distanza dello scritto è del resto l’unica che prevede necessariamente la compresenza dell’emittente e dei riceventi, che implica limiti temporali nella fase della sua pianificazione, che mostra una scrittura in continuo movimento (D’Achille, 2003).  Quindi  proprio perchè siamo bombardati da messaggi culturali che ci spingono ad utilizzare questa nuova comunicazione rivoluzionaria che bisognerebbe distaccarci dai contorni del fenomeno Hikikomori e cercare la risposta studiando il problema di questa comunicazione “falsata” tra i giovani del Sol Levante. L’Hikikomori non è una delle tante manifestazioni della crisi adolescenziale, che riguarda più di un milione di adolescenti che non riescono a vivere nella società  e, che,  pertanto si rinchiudono fra le mura della loro camera, rifiutando il contatto con il mondo esterno anche per anni. Il male oscuro di questi “adolescenti tartaruga” è di più. Questa fuga dal mondo li conduce ad “ammazzare” il tempo con internet, con i videogiochi, con la tv e con la musica. Tale “espatrio” volontario è inscindibilmente connesso alla fruizione delle nuove tecnologie: questi giovani si allontanano dalle relazioni reali per abbracciare quelle virtuali e il cyberspazio prende il posto della vita. Appare quindi indispensabile analizzare le modificazioni che si verificano nella mente umana in rapporto con la ormai totale diffusione della rete.
L’adolescente finisce con il rimanere intrappolato in quella rete dove l’unica via possibile è vivere in una sorta di alienazione tecnologica. Anche il corpo si imprigiona. Non è più rivolto al mondo esterno, ma suggellato dentro i propri confini, implacabili e ghiacciati. Non c’è più nessuno con cui parlare o a cui rivolgere un gesto, un contatto diretto. L’individuo non vuole perdere la propria “stanza segreta” e rinuncia al benessere sociale che sublima nel benessere virtuale. Navigare nella rete per questi adolescenti diventa il loro scopo di vita e non possono farne più a meno. L’abuso nell’utilizzo delle informazioni disponibili in rete, infatti, può portare ad un sovraccarico cognitivo che satura il cervello, riducendo l’attenzione razionale; contemporaneamente il conseguente isolamento sociale sostiene il ricorso ad Internet per cercare occasioni di socializzazione virtuale che possono sconvolgere i delicati equilibri dell’identità, creando la possibilità di sperimentare ruoli e parti del Sé altrimenti non sperimentabili nella vita reale che, tuttavia, accrescono il numero di ore trascorso on-line, con il risultato che si può finire incollati ad una sedia e ad un monitor per giornate intere, rinunciando a salutari e “reali” esperienze di vita. L’utilizzo della rete e delle varie applicazioni è in grado di determinare un ampliamento ed un’errata percezione dei confini del Sè. Presi dal vortice dei rapporti sociali virtuali, dividiamo disperatamente la nostra limitata attenzione, concedendo frammenti della nostra coscienza ad ogni cosa o persona che richieda il nostro tempo. Ma nel farlo mettiamo a rischio  la nostra persona  nel perdersi nella rete labirintica di connessioni mutevoli. D’altra parte  la carenza di una reale presenza fisica e l’impossibilità di poter avere accesso a tutta una serie di messaggi non verbali ai quali siamo abituati nelle relazioni interindividuali diminuisce la possibilità di accesso a tutta una serie di indicazioni basilari nell’interazione tra due individui. L’abuso di internet sarebbe determinato da un senso di vuoto, da un vissuto di solitudine e dalla difficoltà di investire la realtà of-line. In alcuni casi estremi come quelli dei ragazzi Hikikomori, la partecipazione alla realtà on line è finalizzata alla negazione di quella concreta, quotidiana, avvertita come intimidatoria. Lo dimostra (o lo induce a pensare) la discussione tra due ragazzi Hikikomori trovato su un Diario di Bordo in rete, di un isolatra Giapponese:
-  Tu ce l'hai una stanza segreta dentro di te?
Perché mi scrivi Cettina? Ti senti sola anche tu e contrariamente a me non hai la forza di rinunciare alla vita che il mondo ti propone?
Ci sono cose tremende intorno a te come qui? Ma qui il tremendo è invisibile e pulito come una stuoia nuova e non scorre sangue, nemmeno nelle vene.
Ho sentito che anche in Spagna è esplosa qualcosa di più di una bomba, una sorta di guerra di idee che ha fatto molte vittime.
Che cosa orribile! Tutti quegli omicidi senza che gli assassini guardassero negli occhi le loro vittime: da noi, nel nostro orrendo e sanguinoso passato, nessun guerriero avrebbe mai ucciso un nemico senza averlo prima guardato negli occhi. ...Ma poi, quegli uomini e donne erano forse nemici di qualcuno?
Non c'è onore nell'omicidio del terrorista. Forse, in nessun omicidio, malgrado la società lo codifichi entro qualsiasi sia l'idea che lo sorregge.
So che è da vigliacchi vivere chiusi in una stanza ma vivere in un mondo dove gli uomini uccidono i loro compagni di viaggio solo per dimostrare al mondo che esistono, mi sembra una cosa assurda, una cosa che il tempo cancellerà come il vento soffia via la sabbia dal mio davanzale. Verranno dimenticati gli assassini e di loro, dei loro gesti, delle loro idee, non resterà nulla. Tutto inutile! Perché combattere uccidendo quando invece dovremmo costruire? Hai idea Cettina, di quanti milioni di anni sono stati necessari perché cause del tutto naturali e coincidenze fortuite abbiano contribuito a costruire questo mondo così come tu lo vedi? C'è davvero da impazzire o da sentirsi al sicuro. Io mi sento al sicuro solo qui. Per ora. -
La realtà on line fornisce il vantaggio di dare gratificazioni immediate, per la sua disponibilità pressochè persistente. La comunicazione nelle chat o nei diari di bordo, è dominata dalla sensazione, spesso ingannevole, di essere capiti e di capire, di condividere le emozioni proprie e altrui. L’illusorietà, infatti molte volte si rende palese nel momento in cui si decide di abbandonare l’ambiente virtuale per quello reale. Spesso quello che sopraggiunge e che si tende a capire solo a posteriori è che la comunicazione, fino a quel momento è stata interiorizzata e rivolta in prevalenza a se stessi.  L’importanza di considerare il “disagio relazionale” in una prospettiva interattiva consiste pertanto anche nella possibilità concreta di accertare esplicitamente e di documentare problemi relazionali <<individuali ed intra-familiari>>  e di progettare un intervento preciso anche in casi che, pur senza sintomi o manifestazioni definiti dalla tradizionale nosografia neuropsichiatrica, destano preoccupazione.

Perchè i giovani rifiutano tutto d’un tratto il rapporto con gli altri?

Secondo un’indagine che sta portando avanti la Bbc il problema va affrontato da diversi punti di vista. C’è di mezzo infatti il sistema scolastico Nipponico, giudicato tra i più severi del mondo, ma anche l’incapacità delle nuove leve di sopportare le frustazioni, la forte competitività, gli “sfottò” ed il bullismo, anche essi fenomeni molto diffusi oggi nel Sol Levante. In pratica per tutta questa serie di circostanze, il giovane non trova per sopravvivere altra via di scampo se non quella di sviluppare nella propria mente un mondo nel quale non esistono angherie, dolori ed ostacoli alla realizzazione del proprio Io, ma che di fatto è solo il frutto della sua immaginazione.

CASI CLINICI (RACCONTATI IN UN ARTICOLO DEL NEW YORK TIME DEL 15 GENNAIO 2005):
  Una mattina, T. All’età di soli 15 anni, si chiuse alle spalle la porta della sua stanza e non vi uscì più per i successivi lunghi quattro anni. Non frequentò più la scuola non faceva più alcuna attività lavorativa, non aveva più alcun rapporto sociale con i propri amici. Visse, mese dopo mese, 24 ore su 2a in una stanza non più grande del suo letto. Trascorreva le sue giornante mangiando le pietanze che la madre gli preparava (lasciate all’esterno della propria camera da letto), dormendo, guardando giochi televisivi e ascoltando musica.
  Y.S., all’età di 14 anni, dopo anni di maltrattamento psicologico da parte dei suoi compagni di scuola, si era ritirato nella sua stanza e aveva continuato a guardare la televisione, a navigare su internet ed a costruire modellini di automobili per molti anni ancora. Circa metà della sua vita.
CASO CLINICO (RACCONTATO  IN UN ARTICOLO DEL GIORNALE  “IL FOGLIO” 18 FEBBRAIO 2006):
La camera di Asacho è completamente vuota. La luce le da fastidio. Non voleva diventare famosa. Ogni giorno stessa uniforme, ogni giorno la stessa classe, gli stessi compagni, le stesse persone, le stesse azioni. Sempre con la medesima divisa- lei odiava quella divisa-.
Continuava a fare le solite cose che facevano tutti. Semplicemente perchè le facevano tutti. E a tal riguardo, la sua ricorrente domanda era:
- perchè devo continuare a ripetere le cose che fanno tutti?
Dalle scale guarda la madre. Si allontana. Si prepara.
È in procinto di uscire. Asacho si veste, la solita divisa, il medesimo sorriso, la solita frase:
- tutto  bene, nessun problema.
Lei aveva la sua vita.
Aveva il suo computer.
La sua chat.
Il Dottor Saito nel 1995 non riusciva a comprendere. Nell’intervista rilasciata affrema:
- Non sapevo cosa fosse! Sembrava depressione, un disordine mentale, una forma di schizofrenia. Non capivo.
Ma negli ultimi dieci anni i casi  sono raddoppiati, un milione di persone, il 20% degli adolescenti del Giappone. Li hanno definiti” lost generation”, il “missing milion”. Una persona su dieci in Giappone è ammalata di Hikikomori. Il Dott. Saito ha creato la più importante clinica per curare i pazienti Hikikomori- la New Start.
In Italia, a Senigallia, c’è la Noston. Consulenza, diagnosi, terapie, incontri.
Sulle cause del fenomeno si fanno solo ipotesi.
L’Hikikomori sembra essere una sindrome culturale che si sviluppa in un paese specifico durante un particolare momento della sua storia. I giapponesi hanno cercato di ricondurre il fenomeno a qualunque cosa:
  Alle madri oppressiveAlle madri assentiAi padri troppo impegnati nell’ambito lavorativoAl bullismo scolasticoAll’economia in netta recessioneAlle pressioni accademiche
  Al mondo del web
Ma il tutto potrebbe anche essere collocato sullo sfondo di una società sociologicamente in crisi e che, maggiormente, si nutre di una cultura non “sempre sana”.
Il Dott. Saito, che ha trattato più di 1000 Hikikomori, attribuisce il disagio al contesto familiare e sociale, all’interdipendenza fra genitori e figli ed alle loro pressioni psicologiche. Ad esempio, se un figlio decide di non seguire un preciso percorso come il frequentare un’università d’elitè o un’azienda di prestigio, i genitori  vivono e fanno vivere ai propri figli tale situazione come un grande fallimento. Molti fra gli stessi pazienti  raccontano di anni scolastici da incubo, di episodi di bullismo, in cui venivano maltrattati per essere troppo esili o troppo “grassi” o addirittura per essere migliori di qualcun altro nello sport o nella musica.I sintomi
Oltre all’isolamento sociale, alla dipendenza da internet, questi adolescenti tartaruga, soffrono tipicamente di depressione e di comportamneti ossessivo compulsivi ma non è facile comprendere se questi siano una possibile conseguenza della reclusione forzata a cui si sottopongono o una concausa del loro chiudersi nella “stanza di dentro”. La clinica
Nell’articolo del NYT si descrive il programma “New Start” che offre un alloggio in comunità e un programma di formazione-lavoro. Gli operatori sono maggiormente donne, che lavorano anche per diversi mesi, per istaurare un legame che costituisca un un ponte stabile fra l’Hikikomori e il mondo esterno. L’operatrice, una volta a settimana si reca nella sua stanza per costruire un rapporto di fiducia aiutandolo in questo modo ad esternare quelle che definiamo emozioni fondamentali (tristezza, rabbia, paura, sorpresa, gioia). In seguito tenderà gradatamente di farlo integrare nel mondo esterno. Una volta raggiunto il traguardo, comincerà il programma New Start.
In qualche caso ci vogliono molti mesi, in qualche altro caso anche anni.

Conclusioni
Partendo dalla concezione di gruppo come “complesso sistema di dinamiche relazionali ed affettive che costituiscono la rete su cui si costruisce la vita del gruppo nei suoi aspetti anche operativi” credo, che, bisognerebbe aiutare questi adoloscenti con tecniche di socializzazione, dove l’apprendimento della socialità, ovvero lo sviluppo di doti essenziali per il vivere  sociale diviene un fattore “curativo” che agisce in tutti i gruppi terapeutici. Attraverso il feedback dei compagni, i pazienti potenzialmente possono acquisire informazioni rispetto ai loro comportamenti sociali disadattati, di cui spesso sono inconsapevoli ed imparare a modificarli.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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