“…il reale è caotico e perciò
inenarrabile”
D. Starnone
“Se faccio la fatica di scrivere, è
per trovare una storia. La verità dei fatti è importante, ma non è sufficiente.
La verità è puro disordine, non rispetta uno straccio di regola, è tutto il
contrario di un racconto.”. Così riflette Domenico Starnone nel suo romanzo
Spavento, descrivendo quello che è forse lo sforzo principale e più istintivo,
meno pensato, dell’io: dare un qualche tipo di coerenza al mondo.
Le narrazioni, come ho spesso scritto nei post sullo
Storytelling, sono un modo per raccogliere percezioni, uno strumento
irrinunciabile per cavarsela in una realtà che, senza di esse, risulterebbe
priva di senso e non gestibile, sconnessa, impraticabile. Un bravo scrittore sa
renderle avvincenti, sa catturare l’attenzione di chi legge e riesce ad accompagnarlo
nel proprio flusso di coscienza, portarlo a seguire prima una, poi un’altra
ed un’altra ancora delle “scene” che via via si svolgono nel mondo che il
racconto descrive.
Ma tutti noi siamo impegnati nella costruzione di una storia e,
anche se non ne usciranno libri, è su di essa che si basa la nostra lettura,
la mappa che usiamo per orientarci nella vita.
L’idea stessa di “vita” è una metafora: un viaggio che
immaginiamo coerente da un punto ad un altro con una direzione, un senso che
attribuiamo e che quando ci sembra “sensato” ci dà un’idea di controllo e di
padronanza. Il perturbante entra
a volte, sotto forma di sintomo, di scompiglio, di malattia e ci costringe a
cercare nuovi equilibri o a difendere la nostra idea di mondo aggrappandoci a
quei punti della mappa che riteniamo più stabili.
Più un paziente è grave più la sua storia non tiene. E’ vero per
i pazienti con una malattia fisica, quelli il cui corpo è minacciato nella
sopravvivenza più “concreta”: è come se il loro organismo non fosse più in
grado di trovare quella storia scontata e perlopiù inconscia che
chiamiamo salute, qualcosa nell’orchestra di enzimi, ormoni, organi,
segnali, difese, processi… salta e il corpo soffre.
Ed è vero per i pazienti psichici che, dallo schizofrenico
all’ansioso, soffrono in varia misura di una perdita di senso e di coerenza
soggettiva: sentono che la trama interna è perduta, qualcosa nel racconto
che rendeva agile e comprensibile il vivere, si inceppa e, ancora una
volta, la sofferenza avvisa, con lo sconforto, la paura, l’angoscia che… la
storia non tiene.
Se i sintomi fisici mettono alla prova il corpo e, di
conseguenza l’Io del paziente, quelli psichici procedono sull’altro versante e,
invalidando l’Io, affliggono la mente e spesso il corpo di… di chi?
Questo “chi” è, dal punto di vista psicologico, una pretesa:
un pre-tendere, nel senso di tendere preventivamente, descrivere partendo da
“ciò che si sa”, ciò che abbiamo imparato e che ci sembra uno strumento
irrinunciabile per stare al mondo. L’Io è, per definizione, superbo e
presuntuoso, non perché sia particolarmente stronzo (alcuni io lo sono,
dolorosamente, per sé e per gli altri), ma perché è una proprietà emergente:qualcosa
che prova a mettersi sopra e a presumere, svettare e guardare in avanti,
prevalere sul mondo e capirlo, possederlo, vantare diritti: il mio
corpo, il mio mondo, la mia mente.
Ho riso molto una volta insieme ad una paziente che, associando
varie considerazioni si chiedeva quale fosse la differenza fra il mio e il
suo Io. A chi appartiene l’io nell’allocuzione “Il mio Io”? Cosa prova ad
ergersi ancora al di sopra e a presumere di possedere/possedersi?
Sono descrizioni di descrizioni. Tutte storie: di fronte
all’inenarrabile un qualche tipo di osservatore tenta di ergersi per dirigersi
fra le cose e districarsi nella “realtà”. Realtà, un termine che, come diceva
Ronald Laing, non può che essere messo tra virgolette (lo so che abuso di
virgolette ma è quel che faccio tutto il giorno: aiuto le persone a mettere
tra parentesi, punteggiare per descrivere e ri-descrivere. In verità, qui…
mi trattengo).
Freud (e prima di lui tanti filosofi e pensatori) nel tentativo
di descrivere il funzionamento psichico capì che l’io non era che un pezzo
della scena interiore. Disse che era un servo al servizio di due padroni: l’es,
la parte istintuale, il serbatoio delle pulsioni che spinge a fare ciò
che ci piace e il Super-io che intima di fare ciò che è giusto; l’io
se ne sta in mezzo e si barcamena fra queste contrastanti richieste interiori e
quelle del mondo che non sono poche. Tutte storie: una descrizione più
complessa che approssima diversamente il territorio con il vantaggio di
inserire altri personaggi e rendere la storia più euristica, la mappa un po’
più efficace. Per orientarsi in qualcosa di troppo complesso e inenarrabile per
essere descritto da una mappa rudimentale, occorre uno strumento che
specifichi, innanzitutto, che, la mappa non è il territorio. Rendere
palese che “l’io non è padrone in casa propria” è stato un buon passo avanti:
ha reso chiaro ciò che l’artista, lo scrittore, il musicista e in generale chi
racconta storie, intuisce da sempre: prima di essere colui che racconta
l’io è il risultato delle storie che ascolta e di quelle che sta e si sta
raccontando.
La musa, l’ispirazione, il demone, l’angelo sono esempi di forze
che modellano in continuazione quel flusso di informazioni e di energia da cui
sgorga l’idea di un io coeso che padroneggia la mente, il corpo, la vita.
Occorre tenere presente questi altri attori e, insieme a loro,
gli altri perturbanti: i sintomi, i complessi, le sindromi. Non rende tutto
più chiaro ma dà spessore alla storia, rende più sfaccettata la realtà e,
anche se sembra togliere autonomia all’io, lo libera, in verità, dalla catena
della presunzione di dover descrivere e controllare tutto.
La storia si complica ma diventa
più bella, articolata, profonda.
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