domenica 1 marzo 2015

L’Io: una descrizione...di Mauro Pellegrini


…il reale è caotico e perciò inenarrabile”
D. Starnone

“Se faccio la fatica di scrivere, è per trovare una storia. La verità dei fatti è importante, ma non è sufficiente. La verità è puro disordine, non rispetta uno straccio di regola, è tutto il contrario di un racconto.”. Così riflette Domenico Starnone nel suo romanzo Spavento, descrivendo quello che è forse lo sforzo principale e più istintivo, meno pensato, dell’io: dare un qualche tipo di coerenza al mondo.
Le narrazioni, come ho spesso scritto nei post sullo Storytelling, sono un modo per raccogliere percezioni, uno strumento irrinunciabile per cavarsela in una realtà che, senza di esse, risulterebbe priva di senso e non gestibile, sconnessa, impraticabile. Un bravo scrittore sa renderle avvincenti, sa catturare l’attenzione di chi legge e riesce ad accompagnarlo nel proprio flusso di coscienza, portarlo a seguire prima una, poi un’altra ed un’altra ancora delle “scene” che via via si svolgono nel mondo che il racconto descrive.
Ma tutti noi siamo impegnati nella costruzione di una storia e, anche se non ne usciranno libri, è su di essa che si basa la nostra lettura, la mappa che usiamo per orientarci nella vita.
L’idea stessa di “vita” è una metafora: un viaggio che immaginiamo coerente da un punto ad un altro con una direzione, un senso che attribuiamo e che quando ci sembra “sensato” ci dà un’idea di controllo e di padronanza. Il perturbante entra a volte, sotto forma di sintomo, di scompiglio, di malattia e ci costringe a cercare nuovi equilibri o a difendere la nostra idea di mondo aggrappandoci a quei punti della mappa che riteniamo più stabili.
Più un paziente è grave più la sua storia non tiene. E’ vero per i pazienti con una malattia fisica, quelli il cui corpo è minacciato nella sopravvivenza più “concreta”: è come se il loro organismo non fosse più in grado di trovare quella storia scontata e perlopiù inconscia che chiamiamo salute, qualcosa nell’orchestra di enzimi, ormoni, organi, segnali, difese, processi… salta e il corpo soffre.
Ed è vero per i pazienti psichici che, dallo schizofrenico all’ansioso, soffrono in varia misura di una perdita di senso e di coerenza soggettiva: sentono che la trama interna è perduta, qualcosa nel racconto che rendeva agile e comprensibile il vivere, si inceppa e, ancora una volta, la sofferenza avvisa, con lo sconforto, la paura, l’angoscia che… la storia non tiene.
Se i sintomi fisici mettono alla prova il corpo e, di conseguenza l’Io del paziente, quelli psichici procedono sull’altro versante e, invalidando l’Io, affliggono la mente e spesso il corpo di… di chi?
Questo “chi” è, dal punto di vista psicologico, una pretesa: un pre-tendere, nel senso di tendere preventivamente, descrivere partendo da “ciò che si sa”, ciò che abbiamo imparato e che ci sembra uno strumento irrinunciabile per stare al mondo. L’Io è, per definizione, superbo e presuntuoso, non perché sia particolarmente stronzo (alcuni io lo sono, dolorosamente, per sé e per gli altri), ma perché è una proprietà emergente:qualcosa che prova a mettersi sopra e a presumere, svettare e guardare in avanti, prevalere sul mondo e capirlo, possederlo, vantare diritti: il mio corpo, il mio mondo, la mia mente.
Ho riso molto una volta insieme ad una paziente che, associando varie considerazioni si chiedeva quale fosse la differenza fra il mio e il suo Io. A chi appartiene l’io nell’allocuzione “Il mio Io”? Cosa prova ad ergersi ancora al di sopra e a presumere di possedere/possedersi?
Sono descrizioni di descrizioni. Tutte storie: di fronte all’inenarrabile un qualche tipo di osservatore tenta di ergersi per dirigersi fra le cose e districarsi nella “realtà”. Realtà, un termine che, come diceva Ronald Laing, non può che essere messo tra virgolette (lo so che abuso di virgolette ma è quel che faccio tutto il giorno: aiuto le persone a mettere tra parentesi, punteggiare per descrivere e ri-descrivere. In verità, qui… mi trattengo).
Freud (e prima di lui tanti filosofi e pensatori) nel tentativo di descrivere il funzionamento psichico capì che l’io non era che un pezzo della scena interiore. Disse che era un servo al servizio di due padroni: l’es, la parte istintuale, il serbatoio delle pulsioni che spinge a fare ciò che ci piace e il Super-io che intima di fare ciò che è giusto; l’io se ne sta in mezzo e si barcamena fra queste contrastanti richieste interiori e quelle del mondo che non sono poche. Tutte storie: una descrizione più complessa che approssima diversamente il territorio con il vantaggio di inserire altri personaggi e rendere la storia più euristica, la mappa un po’ più efficace. Per orientarsi in qualcosa di troppo complesso e inenarrabile per essere descritto da una mappa rudimentale, occorre uno strumento che specifichi, innanzitutto, che, la mappa non è il territorio. Rendere palese che “l’io non è padrone in casa propria” è stato un buon passo avanti: ha reso chiaro ciò che l’artista, lo scrittore, il musicista e in generale chi racconta storie, intuisce da sempre: prima di essere colui che racconta l’io è il risultato delle storie che ascolta e di quelle che sta e si sta raccontando.
La musa, l’ispirazione, il demone, l’angelo sono esempi di forze che modellano in continuazione quel flusso di informazioni e di energia da cui sgorga l’idea di un io coeso che padroneggia la mente, il corpo, la vita.
Occorre tenere presente questi altri attori e, insieme a loro, gli altri perturbanti: i sintomi, i complessi, le sindromi. Non rende tutto più chiaro ma dà spessore alla storia, rende più sfaccettata la realtà e, anche se sembra togliere autonomia all’io, lo libera, in verità, dalla catena della presunzione di dover descrivere e controllare tutto.

La storia si complica ma diventa più bella, articolata, profonda.


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