lunedì 30 marzo 2015

Chirone e l'archetipo del guaritore ferito

Autore: Besana Claudia 06 Febbraio 2014


"Non abbiate paura delle vostre ferite, 
dei vostri limiti, della vostra impotenza. 
Perché è con quel bagaglio che 
siete al servizio dei malati
 e non con le vostre presunte forze, 
con il vostro presunto sapere."
(Frank Ostaseski)


Una frase che rappresenta una verità su questo lavoro. Jung parlava dell'archetipo del guaritore ferito, di colui che tiene in sè due poli opposti: il guaritore e il ferito. E così viene alla luce la figura di Chirone: nella mitologia era un centauro figlio illegittimo di Crono e Fillira, immortale. Più saggio e benevolo di tutti i centauri fu grande esperto dell’arte medica e insegnante perfino di Asclepio, padre della medicina e di Eracle.
Fu proprio per mano di quest’ultimo che Chirone incontrò la sua fine: a seguito della sua terza fatica, quella della cattura del cinghiale di Erimanto, Eracle fece visita al centauro Folo il quale offrì del vino all’eroe aprendo la giara dei centauri che si arrabbiarono e si lanciarono contro Eracle che li respinse e ne uccise alcuni; i centauri, per difesa, si rifugiarono nella grotta di Chirone che, ignaro di ciò che stava succedendo, si fece incontro all’amico Eracle nell’istante esatto in cui questo scagliò una freccia che andò a colpire per errore il ginocchio del centauro. Questa ferira inguaribile provocò molto dolore, e a nulla servirono i propri poteri autocratici al punto che il centauro sarebbe stato costretto ad una vita di sofferenza a causa della sua immortalità. Zeus, però, mosso da compassione, permise a Chirone di donare la sua immortalità a Prometeo salvandolo e salvando con lui tutti gli uomini.
E’ proprio attraverso la sofferenza che Chirone impara l’arte della cura e a tenere sempre presente la propria ferita, che è simbolicamente lo spazio attraverso cui il dolore e la sofferenza possono entrare in lui.
Come Chirone, così il terapeuta può comprendere la sofferenza dell’altro solo riconoscendo e integrando la propria sofferenza, non come debolezza o fragilità, ma come forza e strumento per poter lasciare entrare ed entrare in contatto con l’altro.
Spesso sembra che il terapeuta sia entità astratta che ha in sé le tecniche e gli strumenti appresi teoricamente per poter guarire l’altro, che possiede la verità, immune dalla sofferenza, infallibile. In realtà un buon terapeuta è un uomo o una donna ferito/a, che è entrato in contatto con la propria sofferenza e che ci ha “fatto i conti”, che l’ha affrontata, l’ha integrata, e da questa ferita ha trovato la via per prendere contatto con le ferite altrui.

Io credo che questa riflessione sia fondamentale, mi accompagna da quando ho deciso di fare questo lavoro, a confronto con i miei limiti e la mia disabiltà, con il mio essere ferita e il mio desiderio di “essere guaritore”. Per il paziente non dev’essere importante sapere quali e quante sofferenze si celino dietro il proprio terapeuta, perché è giusto che, quello che non sia evidente, resti fuori dalla conoscenza, ma ciò che importa è sapere che anche il proprio terapeuta è una persona proprio come lui, non un essere altro, distante.

"Solo il guaritore ferito può guarire"
C. G. Jung

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