sabato 6 dicembre 2014

Psicologia e sperimentazione... l'esperimento di Stanford

L’esperimento di Stanford fu condotto nel 1971 da un team di ricercatori diretti dal Prof. P. Zimbardo della Stanford University. I risultati inattesi fecero sì che l’esperimento si interrompesse ben prima dei termini previsti.
Secondo Zinbardo gli individui di un gruppo coeso che rappresenta una folla, tendono a perdere l’identità personale, il senso di responsabilità e la consapevolezza manifestando così anche impulsi antisociali.
La sperimentazione fu condotta nel seminterrato dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Stanford dove fu riprodotto fedelmente un ambiente carcerario.
Degli studenti, circa 75, che risposero ad un annuncio apparso su un quotidiano che chiedeva volontari per una ricerca, ne furono scelti 24, maschi, apparentemente maturi ed equilibrati, lontani da comportamenti devianti, di ceto medio.
Ci si chiese anzitutto:
Cosa succede se si mette della brava gente in un posto "cattivo"? Riuscirà il bene a vincere sul male o, piuttosto, trionferà il male?
“La ricerca, la cui durata prevista era di due settimane, dovette essere interrotta dopo soli 6 giorni a causa del forte impatto che la situazione ebbe sugli studenti universitari che vi presero parte. In pochissimi giorni, infatti, le nostre guardie divennero sadiche mentre i nostri prigionieri mostrarono segni evidenti di depressione e stress.”

Gli studenti assunsero casualmente i ruoli di detenuti o di guardie. I prigionieri furono obbligati a indossare ampie divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, e fu loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi, erano dotate di manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine. Tale abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di de-individuazione.
Ognuno di loro entrò pienamente nel suo ruolo e dopo appena due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà che si era sviluppato fra essi. Le guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine a mani nude. A fatica le guardie e il direttore del carcere (lo stesso Zimbardo) riuscirono a contrastare un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti. Al quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, il loro rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori interruppero l’esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei carcerati, ma dall’altro, un certo disappunto da parte delle guardie.

“Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità contrapposte e tra loro ben separate, così come i buoni e i cattivi che riteniamo tali per una loro interna disposizione. Per effetto di questa comoda schematizzazione che ci rende innocenti a buon prezzo, noi, che ci pensiamo «buoni», escludiamo di poterci trasformare nel giro di poco tempo in carnefici crudeli, attori in prima persona di quelle atrocità che ci fanno inorridire quando le leggiamo nei resoconti di cronaca o le vediamo in tv.”

La prigione finta era divenuta una prigione vera e assunse una funzione di controllo sugli altri.
Le tesi alla base di questo esperimento vennero analizzate da Zimbardo in un suo saggio del 2007 (in Italia, pubblicato nel 2008) intitolato l’effetto Lucifero. Ci si chiese soprattutto come fu possibile che degli uomini intelligenti, mentalmente sani e assolutamente “normali” diventassero, in così poco tempo, dei perpetratori del male?

“Avevamo creato una situazione in cui i prigionieri, uno dopo l’altro, stavano mollando o comunque manifestando una serie di comportamenti patologici, mentre le guardie diventavano sempre più sadiche. Di queste ultime, nessuna si ritirò mentre lo studio era in corso, si presentò mai in ritardo, si assentò per malattia, andò via in anticipo o chiese un pagamento extra per il lavoro fuori orario.”

L’esperimento, come già detto, si concluse in anticipo. Le registrazioni video avevano mostrato l’intensificarsi degli abusi commessi dalle guardie ai danni dei prigionieri nel cuore della notte, quando credevano che l’esperimento fosse “spento” e che nessun ricercatore li stesse osservando. La noia li aveva condotti a compiere abusi sempre più ignobili e a carattere pornografico.
Christina Maslach, una dottoranda di Stanford che visitò la struttura e intervistò guardie e prigionieri, mostrò tutto il suo dissenso nel vedere questi ragazzi in fila per il bagno coi sacchetti in testa, con le gambe incatenate, con le mani l’uno sulla spalla dell’altro. Disse:
E’ terribile quello che state facendo!”.
Dopo soli sei giorni, quindi, quello che doveva essere uno studio simulato di due settimane sulla vita in prigione venne dichiarato concluso.
Ecco le dichiarazioni di uno dei finti detenuti:

“Cominciai a rendermi conto che stavo perdendo la mia identità, che la persona che chiamavo Clay, la persona che mi condusse in questo posto, la persona che si offrì volontaria per entrare in questo carcere – perché per me era un carcere e lo è ancora – era lontana da me, così lontana che alla fine non aveva più nulla a che fare con me, io ero il 416. Ero il mio numero. Non lo considero un esperimento o una simulazione ma una prigione gestita da psicologi invece che dallo stato”

Si riporta qui di seguito una dichiarazione rilasciata invece da un reale detenuto:
“Sono stato da poco liberato dopo trentasette mesi di cella di isolamento. Mi è stato imposto il silenzio assoluto e se appena sussurravo qualcosa all’uomo della cella accanto venivo picchiato dalle guardie, cosparso di una sostanza chimica, sbattuto in una cella ancora più piccola, denudato e costretto a dormire su un pavimento in cemento, senza coperte, senza lavabo e senza water… E’ giusto che i ladri vengano puniti, e non giustifico il fatto di rubare sebbene io stesso sia un ladro. Una volta libero, non credo che tornerò a rubare. Questo non vuol dire però che mi abbiano riabilitato. Adesso penso solo ad uccidere – uccidere quelli che mi hanno picchiato e trattato come se fossi un cane. 

Spero e prego per il bene della mia anima e per la libertà futura, spero di riuscire a sconfiggere l’amarezza e l’odio che giorno dopo giorno mi corrodono l’anima. Ma so che non sarà facile”.



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