La banalità del male
di Hannah Arendt
Hannah
Arendt continua a interrogare e scuotere la nostra
coscienza, illuminando a giorno gli anfratti più disturbanti del “progresso”.
Nata
in Germania nel 1906, ebrea naturalizzata tedesca, vittima, sulla
sua pelle, della discriminazione antisemita e dell’atroce distopia
nazista, Hannah Arendt è stata allieva di Edmund Husserl e Martin
Heidegger. Con quest’ultimo intrecciò una lunga e controversa liaison
sentimentale oltreché intellettuale, che le causò non poche critiche, non
ancora dissoltesi, vista l’adesione di Heidegger al partito nazista. Nel 1933
Arendt fu arrestata dalla Gestapo, e subito dopo riparò a Parigi. Nel
1937 la Germania le ritirò la cittadinanza. Nel 1940 venne internata nel
campo di Gurs dai nazisti, ormai padroni di una parte della Francia. Ma
riuscì a scappare, destinazione gli Stati Uniti. Nell’immediato dopoguerra il
suo rientro in Germania, al suo nuovo anno zero. Negli anni Cinquanta la Arendt
fu naturalizzata americana, e cominciò a insegnare nei più prestigiosi Campus.
Il
suo libro più conosciuto è senza dubbio “La banalità del male”.
Pubblicato nel 1963, sulla scia di una serie di suoi articoli usciti sul New
Yorker, il saggio prende le mosse dal processo ad Adolf Eichmann,
gerarca nazista catturato nel 1960 e processato e condannato a morte l’anno
seguente. Nel libro, come suggerisce il titolo stesso, la cronaca giudiziaria
lascia presto il passo a una lucida e terrificante disamina della natura umana,
del come spesso il male possa vestire abiti ordinari e mediocri.
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