Cattivi si diventa
Siamo tutti figli di Eichmann?
L’autore del
libro è titolare di un celebre esperimento realizzato a Stanford nel 1971.
Alcuni studenti accettarono di fare la parte delle guardie
e altri quella dei detenuti
di Umberto Galimberti (la Repubblica,
12.03.08)
Siamo soliti pensare che il bene e il male siano due entità
contrapposte e tra loro ben separate, così come i buoni e i cattivi che
riteniamo tali per una loro interna disposizione. Per effetto di questa comoda
schematizzazione che ci rende innocenti a buon prezzo, noi, che ci pensiamo
«buoni», escludiamo di poterci trasformare nel giro di poco tempo in carnefici
crudeli, attori in prima persona di quelle atrocità che ci fanno inorridire
quando le leggiamo nei resoconti di cronaca o le vediamo in tv.
Per rendercene conto, e lo dobbiamo fare per conoscere davvero noi
stessi, è sufficiente che leggiamo il libro di Philip Zimbardo, L’effetto
Lucifero (Raffaello Cortina, pagg. 650, euro 35). Lucifero, prima di
diventare Satana, il principe del male, era il portatore di luce, l’angelo
prediletto da Dio. Ciascuno di noi può trasformarsi da Lucifero in Satana, non
per predisposizione interna come crede la psicologia quando distingue il
normale dal patologico, al pari della religione quando distingue il buono dal
cattivo, ma per altri due fattori che sono il «sistema di appartenenza» e la
«situazione» in cui ci si viene a trovare.
Non erano dei criminali per natura Heinrich Himmler e Adolf Eichmann
quando portarono a compimento con abnegazione lo sterminio degli ebrei, ma dei
«burocrati» con uno spiccato senso del dovere al loro sistema di appartenenza
che era l’ideologia nazista. Lo stesso si può dire di Franz Stangl, direttore
del campo di concentramento di Treblinka che aveva il compito di eliminare
tremila deportati al giorno perché l’indomani ne giungevano altri tremila. «Il
metodo l’aveva ideato Wirt. E siccome funzionava, mio compito era di eseguirlo
alla perfezione», rispose a Gitta Sereny che in una serie di interviste (oggi
pubblicate da Adelphi col titolo In quelle tenebre) gli chiedeva che
cosa provava.
La stessa risposta la diede il pilota americano che sganciò la bomba
atomica su Hiroshima a Günther Anders che gli poneva analoga domanda: «Che cosa
provavo? Nothing. That was my job (Niente, quello era il mio lavoro)».
Quando la responsabilità si restringe e, da responsabilità nei confronti degli
effetti delle nostre azioni, si riduce a responsabilità nei soli confronti
degli ordini ricevuti, queste risposte sono corrette, così come ci sentiamo
tutti noi quando, negli apparati di appartenenza ci limitiamo a eseguire
perfettamente il nostro mansionario, i programmi ministeriali nelle scuole a
prescindere dalle condizioni culturali in cui si trovano i ragazzi che le frequentano,
gli interessi dell’azienda a prescindere dalle condizioni in cui si effettua il
lavoro (compresi i morti sul lavoro) e dai prodotti finali del lavoro (più o
meno corrispondenti a quello che la pubblicità vorrebbe farci credere).
Quando la responsabilità non si estende agli effetti delle nostre
azioni, ma si restringe alla semplice osservanza degli ordini che ci provengono
dagli apparati di appartenenza, allora, come recita il titolo di un libro di
Günther Anders, siamo tutti «figli di Eichmann» e come tali subiamo quello che
Philip Zimbardo chiama: «L’effetto Lucifero», dove persone perbene, per
effetto del «sistema di appartenenza» o per le «situazioni» in cui ci veniamo a
trovare, diventiamo, indipendentemente dalla nostra indole, degli oggettivi criminali,
capaci di compiere quelle azioni che, fuori dal sistema di appartenenza o dalla
situazione concreta, ci farebbero inorridire.
Philip Zimbardo è uno psicologo sociale dell’Università di Stanford
che nel 1971 tentò un curioso esperimento di «prigionia simulata». Con un
annuncio sul giornale scelse, tra le centinaia che si erano presentate,
ventiquattro persone che, per quindici dollari al giorno, accettassero di fare
le guardie e i detenuti in una prigione simulata nell’edificio dell’Università.
I prescelti erano i più stabili psicologicamente, senza trascorsi di
alcol e droga, senza pendenze penali, senza problemi medici o mentali. Insomma
ragazzi normali, bravi ragazzi si direbbe se l’aggettivo non fosse denso di
pregiudizi. A quelli incaricati di fare la guardia furono assegnati i compiti
in uso per gli arresti veri, con la sola avvertenza che dovevano evitare abusi
e violenze fisiche.
Dopo una settimana l’esperimento fu interrotto perché le guardie, che
avevano preso molto sul serio il loro ruolo, in un’istituzione altrettanto
seria come poteva essere l’università, per una prova seria quanto lo può essere
un esperimento scientifico, non per la loro «indole», ma per effetto del loro
«ruolo» e della «situazione» in cui si trovavano a operare, si abbandonarono
alle più feroci aggressioni fisiche e psichiche non dissimili, scrive Zimbardo,
dai modelli nazisti.
La constatazione ha consentito allo sperimentatore di concludere che
la pratica del male o, come lui la chiama: «l’effetto Lucifero», non è una prerogativa
di un’indole piuttosto che di un’altra (come ritiene la psicologia, che a sua
insaputa ha ereditato lo schema religioso che distingue i buoni dai cattivi),
ma è la prerogativa di tutti che, a partire da una «struttura di appartenenza»
(una fede, un’ideologia, un apparato aziendale) e da una «situazione concreta»
in cui ci si trova a operare (in un gioco vero o simulato di tutori dell’ordine
e criminali, o in una guerra che vede contrapposti in nostri ai nemici)
chiunque, anche il più buono fra noi è portato a compiere i crimini più
orrendi.
La conclusione è che il bene e il male non sono prerogative di alcuni
e non di altri, ma, compresenti in ciascuno di noi si scatenano
indifferentemente in tutti a partire dal «sistema di appartenenza» e dalla «situazione»
in cui ci si viene a trovare.
Inorridito da quanto aveva constatato Philip Zimbardo non riuscì a
scrivere il resoconto di quanto aveva visto negli anni immediatamente
successivi all’esperimento, ma solo quando, nel 2004, fu chiamato in qualità di
perito a dare una spiegazione del perché bravi ragazzi, ritenuti tali dopo
accurate verifiche, inviati come militari in Iraq, avessero potuto compiere nel
carcere di Abu Ghraib abusi così orrendi quali risultarono dalle registrazioni
che Zimbardo ebbe modo di visionare dove si vedevano scene ben più aberranti di
quelle che le televisioni di tutto il mondo hanno poi diffuso.
In gioco, scrive Zimbardo, non è tanto l’«indole» di questi militari,
quanto l’appartenenza al «sistema esercito» inviato per una «giusta causa»
(contro il terrorismo), in una «situazione» che nella fattispecie è di guerra.
Ma perché un uomo possa uccidere un altro uomo è necessario che lo
«de-umanizzi», che lo riduca a «cosa», in modo che non appaia più come un suo
simile, perché solo così può trovare la forza di togliergli la vita.
A ciò concorre il patriottismo, che spesso è solo una forma appena
velata di autovenerazione collettiva, perché esalta la nostra bontà, i nostri
ideali, la nostra clemenza e la perfidia di chi ci odia. Creando un quadro in
bianco e nero, la guerra sospende il pensiero, soprattutto il pensiero
autocritico, e, così mitizzata, diventa una divinità che, come ci hanno
insegnato gli antichi greci, per essere adorata esige sacrifici umani. Ma oltre
all’autovenerazione per noi stessi, la guerra ci impone di svilire il nemico,
per cui veneriamo e piangiamo i nostri morti e restiamo stranamente
indifferenti a quelli che ammazziamo noi. I nostri morti e i loro morti non
sono uguali. I nostri morti contano, i loro no.
Di fatto la guerra scatena la nostra latente necrofilia, non solo
perché ammazza, ma perché richiede a ciascun combattente una certa familiarità
con la propria morte. La necrofilia è fondamentale per il mestiere delle armi,
così come lo è per la formazione dei kamikaze. Essa getta in quello stato di
frenesia in cui tutte le vite umane, compresa la nostra, sembrano secondarie e
soprattutto insignificanti.
Oltre alla necrofilia, la guerra scatena la lussuria più sfrenata,
carica di un’energia sessuale cruda e intensa che ha il sapore della voluttà
autodistruttiva della guerra stessa. Perché in guerra gli esseri umani
diventano cose, cose da distruggere o da usare per gratificazioni carnali.
Quando la vita non vale niente, quando non si è sicuri di sopravvivere, quando
a governare gli uomini è la paura, si ha la sensazione che a disposizione
rimane solo la morte o il fugace piacere carnale.
Dopo la guerra c’è l’immane fatica per guarire le ferite che non sono
solo quelle fisiche. E c’è chi non ce la fa, e sono i più, perché tutto ciò che
era familiare diventa assurdamente estraneo, e il mondo, a cui si sognava di
tornare, appare alieno, insignificante al di là di ogni possibile comprensione.
L’accumulo di distruttività, vista e seminata, diventa autodistruttività che
non conosce limite.
A
questo punto vale ancora la contrapposizione tra il bene e il male? E davvero
noi possiamo dividerci in buoni e cattivi? O, come sostiene Zimbardo, la nostra
ferocia non è tanto da attribuire alla nostra indole, quanto piuttosto al
sistema di appartenenza e alla situazione concreta in cui ci si trova a
operare? Se così è, vero eroe non è chi compie le azioni più rischiose o più
feroci che i posteri magnificheranno, ma chi sa resistere al sistema di
appartenenza o alla situazione concreta che gli chiedono quelle azioni.
L’avvertimento di Zimbardo è ovviamente rivolto a tutti noi che, in un modo o
nell’altro, sempre ci troviamo in un qualche sistema di appartenenza o in
qualche situazione che ci chiede di scegliere se stare o non stare al gioco.
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