domenica 11 marzo 2012

Seneca "Lettere a Lucilio"


"Il saggio è autosufficiente". I più, caro Lucilio, interpretano male questa espressione: allontanano il saggio da tutto e lo costringono dentro il suo guscio. Bisogna allora chiarire il significato e i limiti di questa frase: il saggio è autosufficiente per vivere felice, non per vivere; a questo scopo gli occorrono, infatti, molti elementi, per vivere felice solo un animo onesto, fiero e noncurante della sorte. 14 Voglio ora indicarti anche la distinzione fatta da Crisippo. Egli dice che il saggio non sente la mancanza di niente e, tuttavia, ha bisogno di molte cose: "Lo sciocco, invece, non ha bisogno di niente, perché non sa servirsi di niente, ma sente la mancanza di tutto." Il saggio ha bisogno delle mani, degli occhi e di molte altre cose indispensabili alle attività di ogni giorno, ma di nessuna sente la mancanza; sentire la mancanza di qualcosa deriva dalla necessità, mentre al saggio niente è necessario. 15 Quindi, per quanto sia autosufficiente, ha bisogno di amici e desidera averne il più possibile, ma non per vivere felice: è felice anche senza amici. Il sommo bene, cioè la felicità, non cerca al di fuori mezzi per realizzarsi; è un bene interiore e nasce tutto da se stesso; diventa schiavo della sorte se ricerca una parte di sé all'esterno. 16 "Quale sarà la vita del saggio se, gettato in carcere o relegato in terra straniera o costretto a una lunga navigazione o sbattuto su una spiaggia deserta, rimane senza amici?" Sarà simile a quella di Giove, quando alla fine del mondo, scomparsi gli dèi in un tutt'uno e cessando per qualche tempo l'ordine naturale delle cose, si riposerà chiuso in sé abbandonandosi ai suoi pensieri. Il saggio fa qualcosa di simile: si ritira in sé, sta solo con se stesso. 17 Finché gli è possibile ordinare le sue faccende a suo piacere, è autosufficiente e prende moglie; è autosufficiente e genera figli; è autosufficiente e tuttavia non potrebbe vivere se dovesse vivere senza nessuno. All'amicizia non lo porta nessun interesse personale, ma una naturale inclinazione; come in altri sentimenti, anche nell'amicizia c'è un'innata attrattiva. Come esiste l'odio per la solitudine e la ricerca di associazione, come la natura lega uomo a uomo, così anche in questo sentimento c'è uno stimolo che ci spinge a ricercare le amicizie. 18 E tuttavia, pur amando molto gli amici, che mette sul suo stesso piano, o che spesso addirittura antepone, il saggio delimiterà in sé ogni bene e ripeterà le parole di quel famoso Stilbone, lo stesso che Epicuro critica nella sua lettera. Costui, dopo la caduta della sua città, in cui aveva perso moglie e figli, uscì da solo, e tuttavia sereno, dall'incendio generale; gli fu chiesto da Demetrio, che ebbe poi il soprannome di Poliorcete per le città da lui distrutte, se avesse perso qualcosa. "Tutti i miei beni," rispose, "li ho con me." Ecco un uomo forte e valoroso! Egli vinse il nemico vincitore. 19 "Non ho perso nulla," disse: e costrinse il nemico a dubitare della propria vittoria. "Tutti i miei beni li ho con me": senso di giustizia, virtù, saggezza e soprattutto l'intelligenza di non ritenere un bene ciò che può essere tolto. Ci meravigliamo vedendo certi animali che attraversano indenni il fuoco; quanto è più ammirevole quest'uomo che uscì illeso e indenne dalle armi, le rovine, le fiamme! Vedi quanto è più facile vincere tutto un popolo che un solo uomo? Sono parole uguali a quelle del filosofo stoico: anch'egli porta i suoi beni intatti attraverso la città in fiamme: è autosufficiente e in questi confini delimita la sua felicità. 20 Non pensare che solo noi pronunciamo nobili parole; lo stesso Epicuro, censore di Stilbone, proferì una frase simile, e tu prendila per buona, anche se per oggi ho già pagato il mio debito: "Se pure è padrone del mondo intero, è un infelice l'uomo che non giudica ingentissimi i propri beni." Oppure, se in questo modo ti sembra espresso meglio (bisogna badare più al significato che alle parole): "Chi non si ritiene molto felice, anche se è padrone del mondo, è un poveretto." 21 Perché tu sappia poi che questo è un concetto comune, appunto perché dettato dalla natura, leggerai nei versi di un poeta comico:

Non è felice chi non pensa di esserlo.

Filosofo - Scrittore


               
Lucio Anneo Seneca, filosofo e scrittore latino (Cordova ca. 4 a. C.-Roma 65 d. C.). Secondo figlio di Seneca il Vecchio e di Elvia, studiò a Roma, manifestando subito interesse per la poesia e l'eloquenza come per la filosofia e le scienze.

Ebbe a maestri gli stoici Attalo e Sozione e si diede anche a vita ascetica. Compì un viaggio in Egitto prima del 20 e tornò a Roma nel 31. Iniziò quindi la carriera politica, fu questore, entrò in Senato. Ma incorse nell'odio di Caligola e poi nell'ostilità di Claudio, allorché su istigazione della moglie di questi, Messalina, fu coinvolto in un processo di adulterio contro Giulia Livilla, sorella di Caligola, e relegato in Corsica. Seneca mal sopportò l'esilio, che durò dal 41 al 49. Aveva già perso un figlioletto appena nato e la prima moglie. Si diede così a scritti filosofici, riprendendo la forma della consolatio che aveva impiegato qualche anno prima rivolgendosi a Marcia figlia di Cremuzio Cordo, cui era morto un figlio. Indirizzò una Consolatio ad Helviam matrem, scrisse alcuni trattati e brevi poesie e la Consolatio ad Polybium, potente liberto di Claudio, per la perdita del fratello ma anche per chiedere la sua intercessione presso l'imperatore.

Il ritorno a Roma avvenne nel 49, scomparsa ormai Messalina, e per intervento di Agrippina Minore, seconda moglie di Claudio, che si appoggiò a Seneca per favorire la successione al trono del proprio figlio Nerone, a danno del figlio di Claudio e Messalina, Britannico. Nerone, dodicenne, fu affidato alle cure del filosofo; quando, nel 54, Claudio fu soppresso, Seneca si trovò a essere il consigliere del giovane sovrano, insieme ad Afranio Burro, altro insigne personaggio.

In quegli anni indirizzò a Nerone alcuni dei suoi maggiori trattati, propugnando una monarchia illuminata e conciliatrice dei vari organi e ceti dello Stato; altri ne scrisse su diversi temi etici. Ma ben presto la situazione si aggravò. Nerone compì una serie di delitti, fra cui l'uccisione di Britannico e della madre, che coinvolsero in vario modo anche Seneca. Più tardi avvenne il ripudio e poi l'uccisione di Ottavia. Seneca fu messo in cattiva luce presso l'imperatore; fu accusato di ammassare ricchezze e la sua influenza diminuì rapidamente, anche in seguito alla scomparsa di Burro, sostituito con Tigellino. All'incirca in quell'anno (62) il filosofo si ritirò a vita privata e attese ad altri suoi scritti. Nel 65, sospettato di avere preso parte alla congiura antineroniana dei Pisoni, venne accomunato nella loro condanna e ricevette l'ingiunzione di uccidersi: cosa che fece fermamente, dando ordine che gli venissero recise le vene e bevendo infine la cicuta; anche la seconda moglie, Pompea Paolina, cercò di imitarlo ma fu salvata.
Il giudizio sul personaggio di Seneca non è facile. Si riscontra da un lato l'entusiastica ammirazione per le sue qualità intellettuali, per la vasta umanità, per il suo atteggiamento verso la vita e l'uomo; d'altra parte si sottolinea la sua condotta tollerante, quando non addirittura ossequiente verso un tiranno sanguinario, l'avidità di ricchezze e di onori e insomma una discordanza profonda tra la sua predicazione morale e la sua condotta. Certo Seneca è tra le figure più interessanti dell'antichità. Appartenente alla "nuova stoà", di cui era stato fondatore Panezio, Seneca ha portato nella speculazione stoica il segno distintivo del suo carattere, sempre ondeggiante fra un pessimismo radicale e l'esigenza (mai realizzata) di mettersi - come autentico saggio stoico - al di sopra di ottimismo e pessimismo per dominare gli eventi: di qui l'inconciliabilità fra due tendenze opposte, l'una che lo vorrebbe portare all'umanitarismo e l'altra che lo farebbe volgere all'aristocraticismo.

Della stessa natura fu in lui l'incertezza fra un razionalismo, che chiudeva all'uomo ogni via mistica, e un irrazionalismo, che all'ascetismo tendeva con tormentato slancio. Le sue dure parole contro il corpo e la vita corporea come "peso e condanna dell'animo" sono una prova dell'ascetismo presente in lui come aspirazione e tale d'attribuire parvenza di vero alla favola della sua conversione al cristianesimo e addirittura a un suo carteggio con l'apostolo Paolo. Questo è almeno inverosimile perché la morale cristiana cerca la salvezza dell'anima, mentre quella stoica vuole raggiungere la serenità dello spirito. È però vero che nella ricerca etica di Seneca esiste un elemento nuovo, sconosciuto allo stoicismo anteriore: una religiosità che vorrebbe permeare di sé il razionalismo e che non potendo trovare un comune ubi consistam, s'avvolge in contraddizioni tipiche a ogni filosofia in crisi. E in crisi era infatti non solo Seneca, ma tutto lo stoicismo romano.
Seneca fu certo uno dei testimoni del turbamento delle coscienze e dell'evoluzione interiore della società nel periodo cruciale della crisi neroniana e uno degli anticipatori più precoci della grande crisi politica e morale che investì a poco a poco, a partire dal secolo seguente, tutto il mondo antico. Il suo stile è pure una novità nell'ampio e armonioso periodare latino: secondo un nuovo tipo di retorica e seguendo i diversi moti dell'animo, il suo discorso si svolge mobile, rapido, a brevi frasi illuminanti con frequenti sentenze e varietà di costrutti. Le sue opere giunte a noi (parecchie andarono perdute) sono: il gruppo dei cosiddetti Dialoghi, che comprende le tre Consolazioni e i seguenti trattati filosofici e morali: De providentia, dedicato a Lucilio, col concetto che la sofferenza del giusto è provvidenziale e solo apparente; De constantia sapientis, riguardante l'impassibilità di chi aderisce alla saggezza stoica; De ira, dedicato al fratello Novato, sulla natura, vanità e cura dell'ira; De vita beata, esposizione della teoria stoica della felicità, anch'essa dedicata al fratello; De otio, che spiega e giustifica il ritiro dello stoico dalla vita pubblica; De tranquillitate animi, che disputa sulle inquietudini dell'uomo in preda al vizio; De brevitate vitae, invito a impiegare intensamente il tempo della vita, che così sarà abbastanza lunga per ognuno di noi. Al di fuori dei Dialoghi stanno il De clementia, diretto probabilmente a Nerone all'inizio del suo regno, sull'opportunità per il governante di essere misericordioso; il De beneficiis, discorso non sistematico sulla generosità e sul bene da fare agli altri; le Naturales quaestiones, grosso trattato in 7 libri, scritto negli ultimi anni e dedicato a Lucilio, sulla geografia, astronomia e meteorologia; infine 124 lettere (Epistulae morales ad Lucilium), opera anch'essa tarda in cui Seneca indirizza all'amico Lucilio svariati consigli di vita pratica e di atteggiamenti interiori, come un direttore di coscienza che si rivolge al proprio discepolo: sono lo scritto più vivo e interessante di Seneca, sia per la varietà dei temi sia per l'immediatezza del discorso. Vivace la sua produzione poetica: oltre agli epigrammi, un Ludus de morte Claudii, o Apocolocynthosis, satira dell'imperatore scritta dopo la sua morte in versi e prosa, che narra parodisticamente la "zucchificazione" (apocolocynthósis) anziché la divinizzazione (apotheósis) del defunto imperatore; e 9 tragedie: Hercules furens, Thyestes, Phoenissae, Phaedra, Oedipus, Troades, Medea, Agamennon, Hercules Oetaeus. Queste ultime sono le uniche tragedie di tutta la letteratura latina a noi giunte per intero e vennero scritte soprattutto nella seconda metà della vita del loro autore. Trattano di preferenza i miti più foschi e cruenti del teatro greco, cui si ispirano, accentuandone ancora gli aspetti orridi, per cui andarono famose e vennero recitate o solo lette. È attribuita a Seneca anche una decima tragedia, Octavia, di incerto autore, che narra la fine della moglie di Nerone e presenta in scena, come personaggio, lo stesso Seneca. L'importanza di Seneca nella letteratura latina imperiale è enorme, per il nuovo indirizzo stilistico, per l'ampliamento delle indagini psicologiche da lui operato, e per l'apertura sociale. La sua fama fu ancora più grande nel Medioevo, ma soprattutto il barocco lo ammirò come maestro di stile.

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