sabato 1 marzo 2014

Psicologia e dintorni...Disturbo Psicosomatico


“Questo è il grande errore dei medici del nostro tempo:
 tenere separata l’anima dal corpo”.
Platone

La Medicina Psicosomatica studia i rapporti che intercorrono tra il nostro mondo interno e le reazioni corporee. Nelle reazioni psicosomatiche, in generale, manca l’operazione di elaborazione degli eventi che ci causano sofferenza e la partecipazione della intera personalità a questi possibili accadimenti della vita appare limitata. Manca la consapevolezza del collegamento tra gli eventi dolorosi della vita e gli effetti negativi che essi possono causare all’organismo.
Un esempio banale, utile per capire:
    “Mi è venuto un tremendo mal di testa perché ho lavorato troppo” – stress da super-lavoro –, dice una persona; “
    Mi è venuto un tremendo mal di testa e non lo so perché”, dice un’altra.
Quest’ultima persona dimostra di avere qualche difficoltà ad accedere alla comprensione del suo “star male” e potrebbe continuare a lavorare aggravando il suo sintomo, mentre la prima, consapevole della possibile origine del suo mal di testa, potrebbe scegliere di fermarsi di lavorare e magari concedersi dei momenti di pausa rispettosi del suo modo di essere e del suo livello di fatica.
Le persone che tendono a funzionare come la persona citata per seconda, possono essere candidate ad avere sintomi di natura psicosomatica, cioè hanno maggiore probabilità di sviluppare una sofferenza psicosomatica.
Il modello psicosomatologico di interpretazione della malattia e dello “star male”, ribalta, d’altra parte, lo schema classico il quale prevede la lesione dell’organo quale base del suo mal funzionamento, nello schema secondo cui il protrarsi di uno stress intenso può generare una disfunzione di quell’organo e, quindi, il suo mal funzionamento e, addirittura, se non si riescono a porre ripari in tempi normali, una sua lesione.
Ricerche
Molte ricerche hanno dimostrato che i condizionamenti psicologici e sociali sono una classe di fattori che si trovano presenti in tutte le malattie e in tutti i disturbi fisici anche se il loro peso può variare da disturbo a disturbo, da un individuo all’altro.
Dalla letteratura internazionale si ricava che il disturbo psicosomatico è caratteristico di quelle persone che presentano difficoltà nei processi di mentalizzazione, ossia di elaborazione psichica delle emozioni attraverso le operazioni del pensiero, sia intellettuale e cosciente sia immaginativo e fantastasmatico.

Inoltre, le caratteristiche della loro personalità sono incentrate su un’accentuazione del pensiero operativo, queste persone sono sempre rigidamente aderenti alla realtà concreta e difficilmente la loro vita è ricca di vita fantastica.
Teorie a confronto: Freud, Reich, Lowen et al.
Secondo S. Freud, la sofferenza psicosomatica e, in senso lato, il disturbo psichico, nascerebbe da un conflitto tra la soddisfazione di un desiderio e la constatazione della impossibilità o, quantomeno, della difficoltà nel realizzarlo.
Secondo un altro grande del pensiero psicoanalitico, W. Reich, tutti i processi vitali seguono i fenomeni di carica e scarica. Per cui, quando la scarica risulta impedita, l’organismo vive in uno stato di carica senza sfogo e se questa condizione diventa cronica, si forma una corazza caratteriale a livello psichico e una corazza muscolare a livello fisico, in tal modo l’organismo arriva a svolgere una operazione di controllo delle emozioni e una potente struttura di difesa da esse.
Mentre quindi Freud poneva attenzione soltanto alla produzione verbale dei suoi pazienti, Reich introdusse nella psicoanalisi anche l’osservazione del corpo, come l’espressione degli occhi e del viso, la qualità della voce e i vari tipi di tensione muscolare. Descrisse per primo quello che oggi noi chiamiamo il linguaggio del corpo.
Le teorie di Reich hanno prodotto lo sviluppo dell’analisi bioenergetica, metodica psicoterapeutica elaborata da A. Lowen.
Questo approccio, unico nel suo genere, considera la mente e il corpo un’unità funzionale, inscindibile, tanto che il suo intervento è costituito da una complessa combinazione di lavoro sul corpo e lavoro psicoanalitico.
Tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, Franz Alexander propose che gli stati conflittuali, attraverso la mediazione del sistema neurovegetativo, fossero implicati nelle cause di varie malattie psicosomatiche.
Un’altra teoria molto significativa è quella proposta dalla Dunbar. Ella sostenne che la struttura della personalità individuale può condizionare le difese corporee, predisponendo allo sviluppo di determinate malattie.
Nonostante le molte obiezioni, gli studi di questa autrice sollevarono un certo interesse nella comunità scientifica internazionale e favorirono altre ricerche, tra le quali quelle di Friedman e Rosenman, che portarono all’identificazione di un pattern di Comportamento definito di “tipo A”, oggi considerato ufficialmente un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari.

L’individuo di “tipo A” e malattie coronariche
    L’individuo “di tipo A” ha sempre fretta, avverte la pressione del tempo, è eccessivamente coinvolto nel lavoro, è ambizioso e competitivo, è impaziente e si annoia facilmente, è ostile ed irritabile, è ansioso ed impulsivo, ha uno stile di espressione a volte arrogante ed un linguaggio rapido e incalzante, ricerca il successo e la valorizzazione sociale, è sempre teso, impegnato senza tregua verso il raggiungimento di obiettivi.
Nel 1981 il “Comportamento di Tipo A” è stato riconosciuto ufficialmente come fattore di rischio nei confronti delle malattie coronariche, riconoscimento di portata storica per la psicosomatica, che venne condiviso anche dalla Organizzazione Mondiale della Sanità.
Vent’anni di studi ulteriori, tra il 1970 e il 1990, hanno chiarito che sensibile alle reazioni emozionali non è solo il sistema nervoso vegetativo ma anche, e notevolmente, il sistema endocrino, inaugurando il filone di ricerca della psiconeuroendocrinologia.
Mentre, a partire dagli anni ’80, anche il sistema apparentemente più lontano, il sistema immunitario, risultò avere connessioni con il sistema nervoso e molto sensibile allo stress.
Psiconeuroendocrinoimmunologia
Vengono così gettate le basi della neuroimmunomodulazione e nasce la psiconeuroendocrinoimmunologia. Com’è noto, animali stressati – ad esempio ripetutamente spaventati – producono meno anticorpi e spesso si ammalano con più facilità rispetto ad animali di controllo non stressati.
Lo stress può indurre aumentata mortalità in seguito all’esposizione ad agenti infettivi. Persone in lutto per la morte di un proprio caro possono risultare immunodepresse.
Sifneos, negli anni Sessanta, parlò di “alessitimia”, letteralmente “emozione senza lessico”; secondo questo autore le persone affette da disturbi psicosomatici avrebbero incapacità ad esprimere verbalmente le loro emozioni, la loro attenzione sarebbe interamente centrata sugli oggetti concreti e sulla realtà esterna tanto da essere “sbilanciate” anche sotto l’aspetto neuropsicologico, nel senso che predominerebbe, in queste persone, la neocorteccia a danno del sistema libico, mancando ogni integrazione tra componenti intellettive ed emozionali.
In Italia, il compianto Ferruccio Antonelli nel 1981 iniziò a parlare di “brositimia”, letteralmente “sentimento ingoiato”.
Secondo questo autore, le persone affette da disturbi di natura psicosomatica, presenterebbero difficoltà nel reagire alle avversità della vita, tanto che questo loro stile di vita risultò essere il principale responsabile delle loro sofferenze, la più chiara espressione della somatizzazione dell’ansia. “Mandare giù”, d’altra parte, ricorda il comportamento dello struzzo: non risolve i problemi ma li dirotta all’interno lasciandoli irrisolti.
Di Alfredo Ferrajoli



La Medicina e le Malattie Psicosomatiche

In ambito medico è ormai largamente condivisa l’idea che il benessere fisico abbia una sua influenza su sentimenti ed emozioni e che a loro volta questi ultimi abbiano una certa ripercussione sul corpo. Non a caso il vecchio concetto di malattia intesa come “effetto di una causa” è stato sostituito con una visione multifattoriale secondo la quale ogni evento (e quindi anche una affezione organica) è conseguente all’intrecciarsi di molti fattori, tra i quali sta assumendo sempre maggior importanza il fattore psicologico. Si ipotizza inoltre che quest’ultimo, a seconda della sua natura, possa agire favorendo l’insorgere di una malattia, o al contrario favorendone la guarigione.
Per tanto tempo, la medicina tradizionale si è avvicinata al paziente utilizzando il principio di causalità e cercando di spiegare le malattie fondandosi su dati obiettivi e correlabili fra loro in modo diretto, in modo schematico e classificatorio.
La tendenza attuale, non solo del medico che si occupa di psicosomatica, ma di ogni medico in generale, è quella di perseguire una visione unitaria del soggetto e della sua malattia, ricostruendo quel filo narrativo che dà significato alla sua vita e nella quale la patologia è venuta traumaticamente a inserirsi.
Questo cambiamento di paradigma è importante se si pensa che uno dei più assidui, benché spesso più delusi, frequentatori dell’ambulatorio del medico di famiglia è il paziente che lamenta sintomi somatici di cui non si riesce a individuare alcuna origine organica.
Frustranti per i medici, a volte non meno che per i malati, i disturbi psicosomatici costituiscono anche quantitativamente una casistica tutt’altro che trascurabile della medicina generale.
Un gruppo di ricercatori del Department of Public Health and Policy di Londra afferma che un quinto delle prime visite mediche è motivato da sintomi che non trovano spiegazione né risoluzione nell’approccio organicistico tradizionale e che mettono a dura prova, anche per anni, le capacità diagnostiche e le risorse relazionali del medico.
A metà degli anni Novanta un’indagine del Censis calcolava che un italiano su quattro va dal medico di base, per la prima volta, spinto da un malessere fisico che affonderebbe però le sue radici altrove: nello stress o in un disagio psicologico, esistenziale. Adesso la proporzione è cresciuta: uno ogni tre, dice chi lavora nel settore.
Nella trattatistica medica il termine psicosomatico era assente fino a circa un cinquantennio fa; oggi è presente ovunque: non c’è trattato che non vi dedichi un capitolo. Nell’ampia letteratura esistente questo termine viene utilizzato in contesti e con significati diversi: ma che cosa si intende veramente con esso?
Il termine “psicosomatico”, entrato ormai nel linguaggio comune, è di derivazione etimologica greca e risulta composto dalle due parole: “psiche” (da psychè - soffio vitale, anima) e “soma” (da soma-corpo).
In passato si parlava di psicosomatica riferendosi ad essa solo in relazione a quelle malattie organiche la cui causa era rimasta oscura e per le quali (quasi per esclusione) si pensava potesse esistere una “genesi psicologica”. Oggi al contrario si parla non solo di psicosomatica, ma di “un’ottica psicosomatica” corrispondente ad una concezione della medicina che guarda all’uomo come ad un tutto unitario, dove la malattia si manifesta a livello organico come sintomo e a livello psicologico come disagio e che presta attenzione non solo alla manifestazione fisiologica della malattia, ma anche all’aspetto emotivo che l’accompagna. Secondo quest’ottica è possibile distinguere malattie per le quali i fattori biologici, tossico-infettivi, traumatici o genetici hanno un ruolo preponderante e malattie per le quali i fattori psico-sociali, sotto forma di emozioni e di conflitti attuali o remoti, sono determinanti. In questo senso l’unità psicosomatica dell’uomo non viene persa di vista e i sintomi o i fenomeni patologici vengono indagati in modo complementare da un punto di vista psicologico e fisiologico.

Evoluzione storica
La psicosomatica nasce verso la fine del diciannovesimo secolo in relazione ad un profondo mutamento di paradigma nella rappresentazione del mondo che si è venuto a produrre nella coscienza umana: il passaggio dalla dimensione fisica newtoniana, il mondo degli oggetti, a quella della relatività speciale, il mondo degli eventi.
Dalla concezione dell’uomo come macchina biologica predeterminata costituita da componenti la cui minima alterazione viene considerata un’anomalia di funzionamento rispetto all’espletamento di un programma dato, considerato come immutabile, si è passati gradualmente ad una visione olistica e dinamica della realtà.
Gli studiosi che progressivamente hanno iniziato a riconoscere una sinergia evidente e un rapporto causa-effetto bidirezionale tra psiche e soma, sono riusciti anche a sottolineare che esistono malattie psichiche, parzialmente tali, a metà tra psichico e somatico, prevalentemente organiche e totalmente tali. Quasi tutta la patologia umana è psicosomatica o somatopsichica.
Gia nell’antica Grecia esistevano due tendenze (che poi ritroveremo sempre nel dibattito mente-corpo): da una parte, la Scuola Ippocratica che assumeva i concetti più dinamici, umorali e psichici (diciamo più “psicosomatici”), dall’altra, la Scuola di Cnido che era ad orientamento meccanicistico e organicistico.
Ippocrate, Platone e Aristotele avevano capito che esistevano delle malattie ex emozione; in realtà la malattia ex emozione è nota da secoli. Già un proverbio di Solomone diceva che il “cuore allegro è un’ottima medicina e uno spirito abbattuto essicca le ossa”. Ai discepoli di Crotone, Pitagora insegnava che “i grandi turbamenti passionali e forti patemi d’animo possono essere la causa di molti malanni fisici”.
Ma è appunto Ippocrate che introduce meglio il concetto dei rapporti tra psiche e soma quando, nel suo libro, Sulla Natura dell’uomo propone la teoria dei quattro umori: sanguigno, flemmatico, bilioso (collerico), melanconico: è il primo esempio di una tipologia psicosomatica.
Ippocrate è psicosomatologo anche sul piano pratico quando capisce che lo strano malessere di Perdicca, figlio e successore di Alessandro il Macedone, dipende dal suo amore per Fila, già concubina del padre e della volontà di rispettarla per non profanare le memorie del suo grande genitore. Platone è l’autore di una grande frase rimasta famosa e sempre attuale:
“Questo è il grande errore dei medici del nostro tempo: tenere separata l’anima dal corpo”.
La civiltà romana si allinea con quella greca, specie con Virgilio ( Spiritus intus alit, totamque infusa per artus mens agitat malem et magno se corpore miscet ) e poi con Giovenale ( Orandum est ut sit mens sana in corpore sano ).Per Asclepiade l’anima ha atomi leggeri per cui entra in tutti gli organi; Cornelio Celso conta la serenità come cura. Nel Medioevo la Scuola Salernitana suggerisce che ognuno può essere medico di se stesso purché si conceda letizia d’animo, giusto riposo e sobrietà di cibi.
La corrente degli Scolastici sentenzia: “Anima humana est tota in toto corpore et in qualibet eius partes”.
Il discorso viene ripreso a grandi linee nel 1700. Baglini sottolinea l’importanza patogena delle passioni dell’animo. Lancisi aggiunge che tali passioni possono portare persino alla morte. Ravazzini, fondatore della medicina del lavoro, intuisce che “gli abitanti delle città e gli amanti delle lettere sono abitualmente deboli di stomaco”.
Nell’800 l’ipotesi psicosomatica è accantonata per l’esplosione della medicina organicistica: al microscopio le “passioni non si vedono”, ma le vedono i medici di famiglia, che comunque tengono aperto il discorso. Nonostante ciò è proprio all’interno di questo secolo che vengono collocati alcuni contributi definiti come antesignani della Medicina Psicosomatica.
Infatti il filosofo J. Stuart Mill (1806 -1873) sosteneva che “la mente non è un’entità autonoma, ma solo una funzione a base somatica e quindi è meccanica e totalmente interpretabile secondo gli stessi processi che spiegano le altre funzioni del corpo. Nessuna incompatibilità tra mente e corpo, la psiche è una qualità funzionale del corpo stesso. Di conseguenza ogni aspetto del sentire e della condotta della persona è osservabile e comprensibile a partire dall’analisi del funzionamento del corpo o del sistema nervoso”.
Sempre in questo periodo, secondo alcuni studiosi, viene utilizzato per la prima volta il termine “psicosomatico”: siamo nel 1818, nel corso della medicina romantica ed Heinrot (poeta, poi diventato professore di psichiatria a Lipsia) sosteneva che le passioni sessuali esercitavano una notevole influenza su malattie quali tubercolosi, epilessia e cancro. Egli elaborò il concetto di “conflitto interno” quale causa eziopatogenetica di malattie mentali (e non), sostenendo essere il peccato la causa principale dei disturbi di un individuo in quanto i peccati commessi scuotono il senso morale creando un conflitto.
Heinrot, però, considerava le malattie psichiche e fisiche come il risultato di una diretta espressione della colpa dell’uomo e non in senso psicodinamico. Solo a partire dagli anni ‘30 la psicosomatica incomincerà ad essere studiata secondo questo orientamento.
Anche se le interazioni psicofisiche si conoscevano da tempo è alla psicoanalisi che dobbiamo un notevole contributo alla nascita della psicosomatica, da quando Freud introduce la nozione di inconscio nella scienza medica (“i processi psichici riposano sull’organismo”) e distingue nel sintomo un aspetto psicologico (che considera suo campo di studio) ed uno organico (che non può affrontare).
Freud, ricorda come tutto lo psichico si sviluppi in costante riferimento all’esperienza somatica. Nonostante la sua posizione in proposito non sia chiara, evidentemente oberato dall’immane compito di difendere la psicoanalisi dagli attacchi forsennati cui venne sottoposta fin dal suo esordio, Freud probabilmente ritenne di non dare ulteriore scandalo andando a scuotere ulteriormente le fondamenta dell’organicismo medico. Egli nel 1923 scrisse a Viktor von Weizsäcker dicendosi pienamente consapevole dell’esistenza di fattori psicogeni nelle malattie aggiungendo, però, che avrebbe preferito vedere i suoi allievi limitarsi, a scopo di apprendistato, alla ricerca nel campo delle nevrosi.
Invece fu proprio uno dei suoi allievi più stretti, Felix Deutsch, che coniò nel 1922 il termine medicina psicosomatica attribuendo ad esso una connotazione psicodinamica.
Deutsch, dopo molti sforzi e studi per ampliare il concetto di conversione isterica, scriveva che questi processi si potevano trovare anche in malattie caratterizzate da disturbi non solo funzionali ma fondamentalmente materiali e organici.
Ritornando a Freud, se si ricerca nella sua Opera Omnia gli unici riferimenti a materiale che oggigiorno definiremmo come inerente alla psicosomatica li troviamo a proposito dell’epilessia e dei disturbi psicogeni della vista. Scrivendo dell’epilessia Freud è già assolutamente certo di un passaggio diretto psiche-soma e prefigura tutto lo svolgersi successivo dell’elaborazione psicosomatica: “...La reazione epilettica come possiamo definire questo quadro nel suo insieme, si pone senza dubbio al servizio della nevrosi, la cui essenza consiste nell’eliminare per via somatica masse di eccitamento che il soggetto non riesce a padroneggiare psichicamente”.
Freud spiega il perché del “salto dallo psichico al somatico”e il fisiologo americano Cannon comincia a spiegarne il come, seguito da Mc Clean e Moruzzi.
Seguendo un’impostazione di tipo più fisiologico, Cannon ritiene che le malattie psicosomatiche siano dovute allo stress, ossia a risposte emozionali troppo intense o troppo a lungo mantenute che mettono in moto risposte fisiologiche o psicologiche il cui scopo è quello di attenuare lo stress. Il comportamento messo in atto può essere di “attacco” di “fuga” secondo Cannon, o di “adattamento” secondo Selye. Quando gli sforzi del soggetto falliscono perché lo stress supera la capacità di risposta, allora si è esposti ad una vulnerabilità nei confronti della malattia dovuta ad un abbassamento delle difese dell’organismo.
Sempre nei primi del novecento, in Italia, D’Antona usa per primo il termine “rapporti psicosomatici”; il chirurgo Schiassi sostiene, nel suo libro “Mens agitat molem” la psicogenesi dell’ulcera; Girolami scrive un saggio sulle morbosità psichiche che determinano alterazioni somatiche; Pende critica l’eccessivo organicismo del medico e si dichiara convinto che l’anima agisce sul corpo e dell’anima, soprattutto la parte inconscia che è in diretto rapporto con i fondamentali bisogni fisiologici dell’individuo.
La malattia psicosomatica incomincia ad assumere sempre più la connotazione di malattia ex emozione e attira l’attenzione di varie categorie di scienziati: diventa oggetto di studio e di ricerche, diventa scienza nel senso pieno della parola.
Nel secondo dopoguerra la medicina psicosomatica si sviluppa con l’aspirazione a definire un nuovo corpo della medicina, pertinente a un gruppo di malattie con una chiara correlazione tra fattore psichico e il disturbo somatico. Si delinea così, soprattutto negli Stati Uniti, una corrente nosografia che raccoglie un gruppo di patologie “specificamente psicosomatiche” tra cui l’asma bronchiale, l’ulcera peptidica, l’artrite reumatica, l’ipertensione arteriosa. Dunbar rappresenta un pioniere nella ricerca in questo campo e nei suoi lavori ( Psycosomatic diagnosis – 1948) si propone di istituire un collegamento tra profili di personalità e malattie psicosomatiche servendosi di questionari, test proiettivi e scale psicometriche.
E’ stato riscontrato che, in effetti, esistono caratteristiche comuni a tutti i coronaropatici ,a tutti i cancerosi, così come sembrano simili tra loro gli ulcerosi, i colitici, i collezionatori di incidenti (accident proneness). La Dunbar ha stilato una serie di profili caratterologici riconosciuti costanti tra gruppi di pazienti affetti da una stessa malattia. La psicosomatosi sarebbe dunque una sorta di predisposizione che particolari eventi possono slatentizzare e trasformare in malattia.
Poco dopo escono, sempre in America i primi volumi dei vari “padri” della psicosomatica scientifica: Alexander, Hall, Halliday, Hamilton, Weiss ed English, Wittkower, Wolff.
Alexander nel 1946 parlava di “specificità di conflitto”. Egli sosteneva che come il riso è la risposta alla gioia e il pianto al dolore, così l’ipertensione lo è alla collera e alla paura, l’ipersecrezione gastrica all’emergenza, l’asma all’impulso inconscio e represso di gridare per chiedere l’aiuto della madre, e così via. Nasce il linguaggio simbolico degli organi.
Nel 1952 Alexander approfondisce il lavoro fatto in precedenza dalla Dunbar ed elabora assieme ad altri (Schur e Benedekt), per quanto concerne la specificità delle malattie psicosomatiche maggiori, un sistema coerente che istituisce un parallelismo tra conflitti intrapsichici specifici (in termini psicoanalitici) ed alterazioni psicologiche.
Secondo Alexander le malattie psicosomatiche derivano da innervazioni anomale, legate ad un’alterata distribuzione del sistema neurovegetativo, il quale induce alla “lotta” o alla “fuga” in situazioni conflittuali o durante il riposo. Pertanto in caso di atteggiamenti cronici di rivalità, aggressività, ostilità, il sistema simpatico naradrenergico è sottoposto alla pressione di emozioni represse, dell’aggressività e della competitività e vive in un regime di eccitazione naradrenergico. Quando le tendenze di attacco e fuga sono bloccate, ne deriva uno sconvolgimento neurovegetativo interno che rischia di cronicizzare sviluppando la patologia psicosomatica.
In pratica, Alexander sosteneva che stati emozionali conflittuali fossero implicati nell’eziopatogenesi di varie malattie psicosomatiche attraverso la mediazione del sistema neurovegetativo (SNV).
Secondo la sua ottica, i due diversi compartimenti del SNV, l’ortosimpatico e il parasimpatico, sono implicati in malattie diverse, ad esempio il parasimpatico nell’ulcera peptica e l’ortosimpatico nell’ipertensione essenziale.
Tuttora molte delle sue intuizioni restano valide, anche se necessariamente rivedute e aggiornate.
Attualmente, il fatto che stimoli emozionali possano produrre modificazioni della frequenza o dell’attività cardiaca, della pressione arteriosa o della vasomotilità, dell’attività elettrodermica, della pupilla o della secrezione e motilità gastrointestinale e di organi sessuali è chiaramente riconosciuto e accettato.
Gli studi successivi, in particolare quelli svoltisi tra il 1970 e il 1990, hanno chiarito che sensibile alle reazioni emozionali non è solo il sistema nervoso vegetativo ma anche, e notevolmente, il sistema endocrino: praticamente tutti gli ormoni (ACTH, cortisolo, GH, prolattina, LH, testosterone e altri ormoni sessuali) rispondono a sollecitazioni emozionali, mentre i neuropeptidi appaiono sempre più come il punto di contatto tra cervello e organismo, tra mente e corpo.

Grazie a questi studi è nata la psiconeuroendrocrinologia che ha ampliato le conoscenze sviluppate da Selye negli anni’ 40 con gli studi sullo stress.

L’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene, attraverso il CRF (Fattore per il Rilascio della Corticotropina- CorticoTropin Releasing Factor-, l’ormone adrenocorticotropo (ACTH) e il cortisolo, resta sempre il più importante nella risposta dell’individuo ad agenti stressanti sia fisici che psicologici. CRF ed ACTH possiedono inoltre importanti azioni a livello centrale. Il CRF ha numerose azioni comportamentali, come l’ACTH.
Si è visto in molti esperimenti che il cortisolo ed ACTH si elevano nello stress ma si riducono nel corso di un trattamento di rilassamento con biofeedback.
Il sistema ipotalamo-midollosurrenale è il secondo sistema per importanza. Agisce molto prontamente: nell’arco di uno, due minuti, dopo uno stimolo emozionale, sono rilevabili nel sangue elevate concentrazioni di catecolamine.

L’asse ipotalamo-ipofisi-GH è altrettanto importante: fondamentale effetto psicosomatico è il cosiddetto nanismo iposomatotropico reversibile, in bambini istituzionalizzati, dove il ritardo della crescita staturale è secondario alla mancanza di GH, il quale viene nuovamente secreto in seguito a contatto affettivo.
L’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi è molto sensibile a stimoli dell’area sessuale: LH e testosterone nell’uomo aumentano in seguito a stimoli visivi di natura sessuale (a volte anche un colloquio), mentre si riducono in seguito a situazioni di stress dove il soggetto percepisce una minaccia a sé.
L’asse ipotalamo-ipofisi-prolattina non è implicato come si credeva un tempo solo nell’allattamento, ma è attivato nelle condizioni di stress sia nell’uomo che nella donna. Molti disturbi (amenorree, dismenorree) su base psicogena sono probabilmente mediate da anomale elevazioni della prolattina stress-indotte.
Un’altra area in attivo sviluppo e che completa il quadro delle connessioni tra vita psichica e somatica sono i neuropeptidi; ne sono stati riconosciuti oltre 40. Presenti nel cervello e in vari distretti ed organi periferici, molti di essi (ad esempio il CRF, i peptidi oppioidi endogeni come le endorfine e le enkefaline, l’LH-RH, il TRH, i peptidi gastrointestinali, il neuropeptide Y, fino ai peptidi immunomodulanti), hanno importanti azioni di modulazione delle funzioni nervose e metaboliche. Pressoché tutti estremamente sensibili a stimoli e situazioni di stress emozionale, rappresentano un ulteriore importante strumento per comprendere le interazioni mente-corpo sia nel causare che nel guarire un disturbo psicosomatico.
Negli anni ‘80, poi, le scoperte sono proseguite: anche il sistema apparentemente più lontano, il sistema immunitario, risulta connesso con il sistema nervoso e risulta anche essere molto sensibile allo stress.
Com’è noto, animali stressati (ad esempio ripetutamente spaventati) producono meno anticorpi e spesso si ammalano con più facilità rispetto ad animali di controllo non stressati. Lo stress può indurre aumentata mortalità in seguito all’esposizione ad agenti infettivi. La NASA ha studiato le modificazioni del sistema immunitario negli astronauti sottoposti al forte stress psicofisico del lancio e del rientro.
Persone in lutto per la morte di un proprio caro risultano immunodepresse. La connessione tra cervello e sistema immunitario è assicurata da molte vie. I linfociti hanno recettori per la maggior parte dei neuropeptidi ed ormoni dello stress, anzi essi stessi producono ACTH ed endorfine. Vengono così gettate le basi della neuroimmunomodulazione ed è nata la psiconeuroimmunologia.
Ritornando agli studi di Alexander, egli assieme ad altri studiosi (French e Pollock) ha limitato il campo della psicosomatica ad un certo numero di malattie in cui sia evidente l’associazione a certe tipologie caratteriali o costellazioni emozionali. In parole povere i pazienti che sviluppano le cosiddette malattie psicosomatiche propriamente dette avrebbero delle stigmate di personalità ben definite.

Harold Wolff e collaboratori nel 1953 mettono in dubbio la specificità del conflitto di personalità asserendo l’esistenza di una risposta funzionale dell’individuo: sarebbero gli avvenimenti dell’esistenza e non già il profilo psicologico ad influire sulle risposte patologiche dell’individuo. In pratica, individui che siano stati colpiti da disgrazie difficilmente sopportabili corrono maggiori rischi di ammalarsi.
Negli anni ‘50 si sviluppa in Europa la psicosomatica scientifica con i testi di Aboulker, Antonelli, Boss, Pierloot, Carballo, Witbrecht e si sofferma negli anni ‘60 con i contributi di Balint, Bonneton, Bugart, Delay, Jores, Marty, Tzanck.
Questi europei costituiscono la seconda generazione della psicosomatica scientifica a cui si associano gli americani Cobb, Grinker, Lief, Murray, Seguin.
Importante é stato il contributo di Balint che ha enfatizzato l’interazione medico-malato valorizzando l’utilizzo, da parte del medico, della sua stessa personalità nel rapporto col paziente.
Tra gli europei Boss, seguendo l’ipotesi dell’analisi esistenziale secondo cui lo psichico esprime la modalità con cui un corpo è nel mondo, ritiene che la malattia esprima o l’unica modalità con cui il corpo si apre e si relaziona al mondo, o le modalità escluse, che non esprimendosi in un vissuto globale si annunciano patologicamente. Da questo punto di vista le regioni del corpo colpite dalla malattia appartengono alla relazione con il mondo patologicamente interrotta o esasperata. Ciò che determina la malattia corporea non è quindi una somatogenesi o una psicogenesi o una interazione tra le due, ma è un alterazione del rapporto tra il soggetto e il mondo.
Nel 1953 Grinker, occupandosi degli sudi sulla psicosomatica, perviene una definizione molto attuale e complessa del termine “psicosomatico”. Egli afferma che la psicosomatica è “un approccio che ingloba nella totalità alcuni dei processi integrati di transazione fra più sistemi: somatico, psichico, sociale e culturale. Infatti, secondo Grinker, la nozione di “psicosomatica” non si riferisce né alla fisiologia o alla patofisiologia, né alla psicologia o alla psicopatologia, ma a un concetto di processo fra i sistemi viventi e alla loro elaborazione sociale e culturale.
Nel 1966 Meissner e Minuchin introducono il “Modello familiare sistemico”. Secondo questo modello, il paziente psicosomatico avrebbe un’immaturità proporzionale al suo grado di coinvolgimento emotivo nelle interazioni familiari, ed una instabilità emozionale che è condizionata dalla instabilità delle relazioni tra i membri della famiglia; perciò una disorganizzazione nel gruppo familiare rompe l’equilibrio del paziente e produce in lui uno “scompenso somatico”. Questo disturbo rischia poi di essere cronicizzato per essere utilizzato come comunicazione all’interno della famiglia. Secondo gli autori l’unica soluzione efficace possibile è ottenibile con una psicoterapia familiare.

Gran parte della pediatria psicosomatica si spiega con la triangolazione di un conflitto tra i genitori ai danni del membro più debole della famiglia che diventa vittima del conflitto e portatore del sintomo. Mai come nel bambino ogni evento morboso è “psicosomatico”.
La visione genetica della psicosomatica permette una stimolante chiave di lettura. Nel bambino la comunicazione inizia dai messaggi corporei motorio-sensoriali per giungere a quelli verbali-affettivi, trasformazione che è mediata dalla funzione materna. Nei casi di fallimento dei processi introiettivi, il disturbo psicosomatico, negli aspetti genetici e relazionali, è interpretabile come ritorno ad un’espressività corporea di un disagio o di una sofferenza che non è possibile esprimere mentalmente. Questa impostazione ha ricadute nell’affrontare i trattamenti terapeutici sia dei bambini che degli adulti.
Nel 1967 Schmale e Engel propongono il modello teorico psicosomatico del “Giving-up given-up complex”. Il modello si riferisce al tipico quadro del paziente che, in conseguenza di gravi perdite o di eventi che lo schiacciano inducendolo alla resa, percepisce se stesso come ormai incapace di ogni controllo su di sé o sull’ambiente, oscillando tra il sentimento di abbandono, con il senso di mancanza di qualunque possibilità di aiuto dal mondo (helplessness), e il sentimento di disperazione per cui tutto è ormai inutile (hopelessness), niente è più possibile, una frattura incolmabile separa il passato dal futuro.
Si prevedono tre sbocchi possibili a questo “given-up complex”: o qualcosa cambia nell’ambiente o nell’individuo e questi recupera la sua normalità, oppure intervengono modificazioni psicopatologiche e il soggetto si ammala psichiatricamente assumendo comportamenti devianti, oppure egli sviluppa una malattia somatica. Ne deriva la considerazione che ogni grave evento stressante (p.es. un lutto) costituisce un notevole fattore di rischio, almeno per alcuni mesi, esaltando la vulnerabilità ad ammalarsi.
Qualche anno dopo Bahnson (1969) introduce il modello psicosomatico della “Complementarità psicofisiologica”. In esso si sostiene che lo stress provoca una regressione che può essere comportamentale o somatica a seconda di come vengono utilizzate le difese del soggetto: nel primo caso prevalgono le difese proiettive e di spostamento che coinvolgono il livello dei rapporti interpersonali e l’esito è la nevrosi e persino la psicosi; nel secondo prevalgono le difese di tipo rimozione-diniego (repression-denial) che indirizzano all’interno del corpo la scarica della regressione, con esito in isteria, psicosomatosi, malattie organiche, cancro.
Nel modello di Bahnson il cancro appare come alternativa complementare alla psicosi, mentre la malattia psicosomatica sembra essere, insieme, un’alternativa ad ogni patologia di tipo mentale e una seconda linea di difesa (dopo la nevrosi) contro la neoplasia.
Questa teoria rinnova l’invito a rispettare il sintomo e suggerisce, all’intervento psicoterapico, di puntare alla mobilizzazione di meccanismi difensivi più economici.
L’alternativa di Bahnson è confermata dalla rarità di disturbi psicosomatici negli psicotici.

Tra il 1975 e il 1977, Nemiah introduce alcune considerazioni sulla eziologia delle malattie psicosomatiche contrarie a quelle ipotizzate qualche anno prima da Cannon. Egli, partendo dalla constatazione che il paziente psicosomatico presenta un’incapacità di descrivere con precisione i propri sintomi, un’incapacità ad individuare sensazioni affettive e distinguerle tra loro, un’inadeguatezza tra esplosioni emozionali e corrispettivi stati affettivi interni, rigidità, distacco e disarticolazione nella postura e nelle mimica, ha ipotizzato che a causa di fattori genetici o di difetti dello sviluppo esisterebbe una carenza di connessioni neuronali tra le aree del sistema limbico, deputate alla rielaborazione delle pulsioni e degli affetti, e le aree corticali, sede delle rappresentazioni consce, dei sentimenti e delle fantasie. Ne consegue che le stimolazioni delle pulsioni non vengono elaborate a livello corticale, ma deviate sull’ipotalamo che genera stimolazioni troppo intense e prolungate a carico del sistema vegetativo.
In seguito Nemiah assieme a Sifneos, sulla base delle osservazioni cliniche di pazienti che soffrivano di disturbi psicosomatici introdussero il termine alessitimia (alexithymia), definito operativamente a seguito della XI Conferenza Europea sulle Ricerche Psicosomatiche, nel 1976.
Alessitimia letteralmente significa “non avere le parole per le emozioni”. Tale patologia si manifesta nella difficoltà a identificare e descrivere i propri sentimenti e a discriminare tra stati emotivi e sensazioni corporee. I soggetti alessitimici sono incapaci di riconoscere i motivi che li spingono ad esprimere determinate emozioni; hanno difficoltà a mettersi nei panni degli altri e mancano di empatia. La loro vita immaginativa è ridotta o addirittura assente (testimoniato, ad esempio, dall’assenza di materiale onirico) mancano della capacità di introspezione, il loro stile cognitivo è legato allo stimolo (tipo di pensiero operatorio caratterizzato da una totale adesione alla concretezza dei dati) e orientato all’esterno e mostrano un adattamento alla realtà sociale di tipo conformistico.
Diversi fattori socioculturali e neurobiologici sono in gioco nell’etiologia dell’alessitimia; i teorici della psicoanalisi hanno in particolare sottolineato il ruolo dei problemi che si verificano nelle prime fasi dello sviluppo.
I soggetti alessitimici tendono a stabilire delle relazioni di marcata dipendenza e con alta interscambialità; in alternativa, preferiscono restare da soli o evitare del tutto gli altri. L’alessitimia è stata associata ad uno stile di attaccamento insicuro evitante caratterizzato da una ricerca ossessiva di cure.
Sempre negli stessi anni Marty (1971), partendo dall’osservazione della povertà di elaborazione psichica dei malati psicosomatici elabora la teoria del “Pensiero operatorio” (pensée operatoire). Egli ascrive la comparsa di una malattia psicosomatica ad un fallimento dei processi di mentalizzazione (elaborazione psichica dell’emozione attraverso il pensiero, sia nel suo aspetto intellettuale cosciente, sia in quello immaginativo del fantasma).
Secondo questa teoria, il paziente psicosomatico è incapace di elaborare i conflitti a livello mentale, è privo di “vita fantasmatica”, carente di sogni, incapace di stabilire un transfert; ha un pensiero pragmatico, rivolto esclusivamente al presente, alla realtà concreta, senza rapporti con fantasie inconsce; sembra più lo spettatore che il protagonista della sua vita. L’incapacità a gestire i conflitti, non potendosi legare in formazioni nevrotiche, tende a scaricarsi primitivamente e distruttivamente a livello somatico portando alla formazione del sintomo.
Lo spunto pratico che deriva dai modelli dell’alessitimia e del pensiero operativo consiste nel considerare il paziente psicosomatico molto diverso da un comune nevrotico e quindi nel trattarlo con mezzi più adeguati quali il counseling, la behavior therapy, il training autogeno, l’ipnosi, la psicoterapia di sostegno, privilegiando queste tecniche ad ogni psicoterapia dinamica.
Invece Levi, (1972), riallacciandosi storicamente alle ricerche di Cannon (1929), Wolff (1950) e Selye (1957) introduce il “Modello Psicosociale”. Secondo questo modello gli “stimoli psicosociali” incidono sul “programma psicobiologico” dell’individuo (e cioè il suo patrimonio genetico e di esperienze infantili) e possono provocare dei “precursori di malattia” (che, alla lunga, portano alla malattia somatica) attraverso una serie di variabili interagenti che altro non sono che le varie alterazioni specifiche, a carico di organi e funzioni, conseguenti alla aspecificità dello stress.
Il modello psicosociale di Levi offre una visione nuova della psicosomatica, non più limitata nella prospettiva della reazione individuale alle emozioni ma vista in individui immersi nella loro realtà sociale ed ambientale . Ciò ha dato vita, tra l’altro, alla branca psicosomatica della medicina del lavoro. Nel 1979 Kobasa introduce il Modello “Hardiness”. Questo modello sostiene che individui con “bassa hardiness” sono i più vulnerabili alle psicosomatosi da eventi stressanti.
Hardiness letteralmente significa ardìre, vigore, resistenza. E’ alla base del coping che significa fronteggiare, lottare con successo. Una valida rielaborazione cognitiva può ridimensionare l’evento stressante ed evitare che esso destabilizzi l’omeostasi e faccia ammalare. Componenti dell’hardiness sono il commitment (impegno, autostima, coinvolgersi attivamente in ciò che si fa o che interessa), il control (controllo delle proprie capacità di adattamento), il challenge (sfida: la normalità sta nel cambiamento più che nella stabilità; l’evento stressante è una possibilità di crescita più che una minaccia alla sicurezza).Questo modello sostiene che individui con “bassa hardiness” sono i più vulnerabili alle psicosomatosi da eventi stressanti.
Nel 1980 Pancheri tenta una sintesi tra i vari modelli proposti per spiegare le malattie psicosomatiche; in questo modo perviene al “Modello psicosomatico”. Secondo questo modello, ogni stimolo, sia esso sociale e/o individuale, produce modificazioni psicologiche e biologiche determinate dal programma psicobiologico dell’individuo, con esito in patologia mentale oppure somatica. Il passaggio dallo stimolo alla malattia avviene attraverso cinque fasi: 1) imprinting o registrazione nella memoria emozionale, a livello limbico-ipotalamico, di stress infantili; 2) strutturazione di uno stile personale di risposta (somatica o comportamentale) agli stress; 3) riattivazione emozionale in presenza di nuovi stimoli, reali o simbolici; 4) precursori della malattia (disfunzione); 5) malattia psicosomatica.

Questo modello ha il suo interesse nel fatto che copre vari livelli di analisi della psicosomatosi (livello psicosociale, psicologico, biologico, clinico) indicando le potenzialità operative della medicina psicosomatica lungo l’intero iter della malattia, dalla prevenzione alla terapia.

L’anno dopo al modello di Pancheri, Antonelli introduce il termine “Brositimia”. Letteralmente significa sentimento ingoiato, dal greco brozo - ingoio (da cui brosis - cibo). Si riferisce ad una frequente espressione dei malati psicosomatici: “io sono nervoso dentro, sicché neanche sembro nervoso. Io non reagisco, non strillo, io mando giù". Secondo Antonelli questo stile di vita è il principale responsabile delle loro sofferenze, la più chiara espressione della somatizzazione dell’ansia Il “mandare giù” ricorda la tecnica dello struzzo: non risolve i problemi ma li dirotta all’interno lasciandoli insoluti. E così l’ansia, sofferenza dello spirito, si aggiunge alla somatizzazione, sofferenza del corpo.

Qualche anno più tardi (1987) Frigoli e collaboratori introducono l’ermeneutica funzionale come metodo di interpretazione dei correlati fra psiche, bios e sistema ecologico. In quest’ottica definita “Eco-Biopsicologia” l’analogia e il simbolo vengono utilizzati come strumento operativo per porre in relazione i codici semeiologici delle infinite forme del mondo vivente (aspetto ecologico) con gli analoghi linguaggi del corpo umano (che nella sua ontogenesi riassume la filogenesi del mondo biologico) per poi ritrovare tale relazione tra “mondo” e bios umano, negli aspetti psicologici e culturali dello stesso, grazie ai miti, alla storia delle religioni, e alle immagini collettive dell’umanità (aspetto psicologico). Si creano così i presupposti per una “fisiologia psicosomatica simbolica”.

Recentemente (1999) Wilma Bucci ha proposto la “Teoria del codice multiplo”. Wilma Bucci è docente e direttore di ricerca presso il Derner Institute della Adelphi University di New York. E’ una psicoanalista che potremmo inquadrare all’interno di quel composito e variegato movimento internazionale della sperimentazione clinica e della ricerca empirica e teorica denominato “integrazione psicoterapeutica”.

Il suo modello costituisce un approfondimento della differenziazione freudiana del processo primario e secondario; deriva dai modelli cognitivi attuali ma va anche oltre poiché pone l’accento sul ruolo delle emozioni nella cognizione umana e sugli aspetti complessi della traduzione delle esperienze emotive nelle forme verbali.

Nella teoria del codice multiplo vengono differenziate tre modalità fondamentali in cui gli esseri umani elaborano le informazioni, comprese quelle emotive, e formano rappresentazioni interne: il modo subsimbolico non-verbale, il modo simbolico non-verbale ed il modo simbolico verbale. L’elaborazione subsimbolica riguarda tutti quegli stimoli (dai sentimenti alle informazioni motorie e sensoriali) non-verbali che vengono processati “in parallelo”: ad esempio, riconoscere le emozioni nell’espressione facciale altrui o comporre un brano musicale o riconoscere una voce familiare nella confusione di una festa.

L’elaborazione simbolica non-verbale riguarda invece quelle immagini mentali (un volto, una musica, un’espressione) che, pur presenti alla coscienza, non possono essere tradotte in parole.

La modalità simbolica verbale, infine, riguarda quel potentissimo strumento mentale mediante il quale l’individuo comunica il proprio mondo interno agli altri e conoscenza e cultura vengono trasmesse da un individuo ad un altro.

Nella teoria del codice multiplo i tre sistemi sono governati da principi differenti ma sono anche ovviamente connessi: Bucci definisce “processo referenziale” tale complessa connessione che va in senso bidirezionale dalle emozioni alle parole e viceversa .

Questa teoria ci interessa perché Bucci illustra la possibilità di applicarla al processo di somatizzazione.

Il processo di malattia somatica appare come una dissociazione fra i pattern sensoriali e motori di espressione delle emozioni e le parole, intese come rappresentazioni simboliche degli oggetti di cui facciamo esperienza a livello subsimbolico.

Inoltre questo modello per molti versi si avvicina al costrutto di alessitimia in precedenza esposto.

Infatti se la traduzione di alessitimia può essere “emozioni senza parole”, il modello di somatizzazione secondo il codice multiplo della Bucci può diventare “stati somatici senza simboli”.

Le entità mediche tradizionalmente classificate come psicosomatiche (asma, ulcera, colite ulcerosa, ipertensione, artrite) possono ora esser considerate come disposte lungo un continuum con i sintomi di conversione. Tali disturbi somatici riflettono dissociazioni più gravi all’interno degli schemi non-verbali, caratterizzate da livelli più elevati di attivazione fisiologica degli schemi emotivi che occupano gli stessi canali di elaborazione specifici per modalità attivati dagli eventi fisici. Sebbene l’attivazione non abbia apparenti connessioni simboliche, i contenuti dello schema influenzano anche la forma specifica di disabilità che ne risulta.

In questo senso, il lavoro della Bucci si colloca nel movimento contemporaneo della psicosomatica (su cui convergono linee di ricerca diverse, dalla psicoanalisi alle neuroscienze alle teorie cognitiviste) che mira a ripensare le malattie oltre la vetusta dicotomia mente/corpo o malattie organiche e malattie psichiche.

Medicina psicosomatica
La medicina psicosomatica può essere definita come lo studio dei rapporti tra psiche e corpo, studio reso possibile dal presupposto che fatti psichici influenzano la fisiopatologia e, viceversa, che questa produce risonanze emotive (fatti somatopsichici); reso scientifico per l’applicazione dei concetti della psicologia dinamica alla clinica medica, reso pratico dall’applicazione delle tecniche psicodiagnostiche e specialmente psicoterapiche nella medicina tradizionale.

La medicina psicosomatica non è esattamente una specialità definita della medicina tradizionale, nel senso che non è oggetto di corsi di specializzazione post-universitari. È, piuttosto, una sempre più diffusa specialità trasversale, che può intervenire nella diagnosi e nella terapia delle più diverse patologie, anche di notevole gravità.

Quindi lo spazio della Medicina Psicosomatica non è ai margini delle singole specializzazioni della scienza medica, ma bensì le permea tutte, capillarmente e universalmente. Le interferenze dello psichico sul somatico (e viceversa), infatti, sono tali e tante da influire significativamente su tutti i livelli dell’arte medica: prevenzione, terapia, riabilitazione. Le dinamiche della soggettività (e cioè lo psichico) si costituiscono dentro precisi orizzonti socioculturali (condizioni materiali e relazionali di esistenza, convenzioni istituzionali, sistemi di valori e di mete culturalmente elaborati, ecc.) che si configurano in modo diverso nei vari contesti e appaiono oggi quasi ovunque in rapido cambiamento.

Ciò avvicina la psicosomatica all’antropologia medica in quanto disciplina che esamina il versante socioculturale dei processi di salute/malattia, le risposte conoscitive e operative che vi fanno riscontro nei vari contesti, lo spessore culturale dei soggettivi vissuti della patologia. La medicina psicosomatica può essere intesa anche come una corrente di pensiero che ha come obiettivi quelli di:
riumanizzare il rapporto medico-paziente affinché il progresso tecnologico sempre più sofisticato e la proliferazione di specializzazioni sempre più dettagliate non facciano dimenticare o trascurare l’Uomo che vive, con il suo carico di esperienze ed emozioni, dietro le cifre e i referti di una cartella clinica;
recuperare lo stile di un’arte sanitaria centrata più sul malato che sulla malattia;
restituire la giusta e opportuna dignità sia a chi soffre sia a chi cura;
integrare, tra i fattori di rischio delle malattie fisiche, le variabili di personalità, gli stili di vita, i modelli comportamentali, le relazioni interpersonali.
Malattie psicosomatiche
Nel 1940, in seguito a numerose osservazioni delle ripercussioni esercitate dallo stato emozionale del paziente sulle manifestazioni patologiche, inizia l’identificazione di una serie di malattie psicosomatiche, ovvero patologie nelle quali un problema psicologico si manifesta attraverso sintomi fisici, altrimenti non spiegabili. Prima di descrivere le malattie mi sembra utile presentare la distinzione che viene fatta tra reazioni e malattie psicosomatiche.

Per quanto riguarda le reazioni psicosomatiche esse, pur non organizzandosi in vere e proprie malattie, si esprimono attraverso il corpo, coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress.

Le reazioni psicosomatiche, definite da alcuni anche come manifestazione psicosomatica di primo ordine, sono fenomeni a corto circuito, transitori, ai limiti della patologia, determinati da un evento-stimolo, che hanno un contenuto emotivo in rapporto di derivazione comprensibile con l’avvenimento causale e che seguono cronologicamente l’evento, cessando con la cessazione di questo. Nelle reazioni psicosomatiche manca una elaborazione intrapsichica dell’evento e la partecipazione della personalità è limitata.

Esempio tipico è la reazione di spavento-paura (spavento è la percezione sensoriale improvvisa di minaccia, paura è la comprensione del pericolo corso o incombente): tachicardia, iperpnea (aumento degli atti respiratori), ipertensione, sudore freddo, tremore, svenimento, rossore o pallore del viso e contemporanee iperemia (aumento di sangue in un determinato distretto del corpo) o ischemia (mancanza di sangue in un organo o parte di esso) della mucosa del colon, “pugno sullo stomaco”. La reazione psicosomatica può essere immediata ma anche ritardata.

A molti life events stressanti la reazione si manifesta dopo un periodo di latenza: “quando credevo di aver superato l’evento ho cominciato a sentirmi male”. Sembra che la somatizzazione possa realizzarsi solo dopo che si siano affrontati i problemi più urgenti e concreti creati dall’evento. Frequente reazione psicosomatica è la sindrome di insicurezza organica per mancato recupero dopo un trattamento (chirurgico o con antibiotici) che troppo in fretta restituisce alle società un soggetto che non sta ancora bene.

Gli stimoli fisici o psichici possono provocare delle reazioni psicosomatiche. Per esempio consideriamo un soggetto adulto, fisicamente sano ed emozionalmente equilibrato a cui gli si iniettano due soluzioni: la prima è una soluzione salina isotonica iniettata in vena che non produce nessuna reazione; la seconda iniezione endovena contiene la stessa soluzione salina e in più un milligrammo di adrenalina. Pochi secondi dopo egli diventa pallido, il suo battito cardiaco aumenta notevolmente di frequenza; può anche avere tremore, provare una sensazione di oppressione precordiale e un senso di angoscia. Le sue reazioni emotive agli stimoli esterni possono diventare sensibilmente intensificate e in questo modo una notizia che prima gli destava soltanto interesse può scuoterlo notevolmente. Qualcosa di simile può succedergli con un ricordo, per esempio, di una figlia malata.

Cosa è successo? Possiamo dire che l’adrenalina, iniettata in dosi notevolmente al di sopra di quella che normalmente si trova in circolo, ha provocato un’intensa e complessa reazione caratterizzata da fenomeni puramente somatici, quali il pallore e la tachicardia e da fenomeni cosiddetti emozionali in cui si osservano aspetti fisici (lacrime) e psichici, quali la preoccupazione intensa per la figlia malata.

Siamo dunque di fronte a una somatogenesi (in questo caso fisiogenesi) di una reazione psicosomatica. Somatogenesi dove con la parola “somato” ci si riferisce solo ed esclusivamente allo stimolo; la reazione è, invece, in questo caso, allo stesso tempo fisico e psichico.

Il termine psicosomatico nel senso di malattia o sindrome psicosomatica è utlizzato prevalentemente per quei casi nei quali il bilanciamento delle risposte alle situazioni nei campi psichico e somatico pende decisamente per il secondo.

E’ quando i sintomi fisici e psichici vengono riconosciuti come parte integrante del quadro patologico e non come una reazione dell’individuo alle malattie stesse. Il passaggio da reazione a malattia è determinato dalla cronicizzazione sia dello stimolo emotivo (che, da “evento”, diventa “situazione”) sia della correlata risposta dell’organismo: ciò da vita, appunto, alle così dette psicosomatosi o malattie psicosomatiche o nevrosi d’organo.

Esempio: la fisiologica reazione ipertensiva da tamponamento si risolve spontaneamente in pochi minuti, ma se un soggetto è metaforicamente “tamponato” di continuo da una insopportabile situazione di disagio, sul lavoro o in famiglia, sarà in perenne allarme, e la sua pressione arteriosa si stabilizzerà pericolosamente su livelli elevati determinando una ipertensione arteriosa psicosomatica. Nella malattia psicosomatica la situazione-stimolo subisce un’elaborazione intrapsichica (meccanismo che la vecchia terminologia psichiatrica italiana definiva psicogenetico in contrapposizione a quello psicogeno del corto circuito) che chiama in causa la personalità. Da qui il valore della personalità premorbosa come “precursore” di malattia e quindi il significato degli interventi preventivi e psicoterapici per modificare le abitudini di vita.

Agli inizi della Medicina Psicosomatica si sono definite “psicosomatiche” alcune malattie nelle quali i fattori emozionali apparivano etiologicamente prevalenti o precipitanti: coronaropatie, ipertensione arteriosa, asma, colite, alopecia atopica, dismenorrea, ecc. Ma poi il concetto di psicogenesi è stato ridimensionato poiché molte ricerche hanno dimostrato che le variabili psicologiche e sociali sono una classe di fattori eziologici in tutte le malattie, anche se il loro peso relativo può variare da malattia a malattia, da un individuo all’altro e da un episodio all’altro della stessa malattia nella stessa persona. In effetti, forse, oggi non è più in uso (né corretto) parlare di malattie psicosomatiche. In tutte le malattie esiste potenzialmente una componente psicosomatica per la quale si richiede un approccio di tipo psicosomatico. Per indicare la presenza di una significativa componente nella patogenesi di una malattia è preferibile parlare di psicosomatosi.

Altro ridimensionamento riguarda il termine “nevrosi d’organo”. I più recenti studi di psicoanalisi hanno individuato nei pazienti psicosomatici un disturbo primitivo di personalità molto più vicino al disturbo borderline che alla nevrosi. In conclusione si può affermare che le malattie somatiche sono quelle che più strettamente realizzano uno dei meccanismi difensivi più arcaici con cui si attua una espressione diretta del disagio psichico attraverso il corpo. In queste malattie l’ansia, la sofferenza, le emozioni troppo dolorose per poter essere vissute e sentite, trovano una via di scarico immediata nel soma (il disturbo); non sono presenti espressioni simboliche capaci di mentalizzare il disagio psicologico e le emozioni, pur essendo presenti, non vengono percepite.

I più vari e tipici malati psicosomatici sono coloro che hanno lesioni corporee mentre non provano o non riescono a simbolizzare (alessitimia) sofferenze psichiche. Per esempio in etologia lo studio del comportamento animale ha evidenziato la possibilità che intensi stimoli emotivi provochino lesioni come ulcere, coliti, ecc. Sono interessanti le osservazioni sulla comparsa di lesioni corporee in animali impossibilitati a realizzare comportamenti adeguati alle situazioni.

L’impossibilità di ritirasi dopo un combattimento con un conspecifico, oppure il dover assistere, nel caso di un babbuino maschio dominante rinchiuso in gabbia, agli accoppiamenti da parte di individui di rango inferiore sembrano dar luogo a gravi lesioni organiche ed anche alla morte.

L’etologia utilizza concetti dinamici e fruisce utilmente del modello energetico; avvalora quindi la concezione di base dell’approccio psicosomatico nella “psiche” e nel “soma” siano comunicanti, interscambiabili, bilanciati. Più esattamente che essi possano svolgersi nell’ambito dei sistemi integrativi cerebrali sotto forma di affetti e cognizioni, oppure che si espandono nel resto dell’organismo come fenomeni vegetativi, secretivi, ormonali.

La malattia psicosomatica ha un’eziologia conflittuale: è l’elaborazione intrapsichica di una situazione-stimolo che agisce in senso psicogeno. E’ un complesso meccanismo difensivo ricco di significato psicologico e sostenuto spesso da una personalità nevrotica. Tra le malattie psicosomatiche si distinguono: quelle sine materia o “funzionali”, tra le quali la nevrosi cardiaca, la nevrosi gastrica, la colite spastica; le malattie psicosomatiche propriamente dette o “nevrosi d’organo” o “psicosomatosi” tra le quali infarto, ulcera, colite ulcerosa, ipertensione.

Caratteristiche comuni delle psicosomatosi
La malattia psicosomatica ha quattro caratteristiche fondamentali. La prima è la “vulnerabilità nevrotica”: un evento traumatizzante può provocare una psicosomatosi solo perché esso evoca un trauma primario relegato nell’infanzia. Ad esempio un licenziamento può provocare un’ulcera solo in soggetti che hanno già vissuto il dramma dell’abbandono di una figura chiave rassicurante. Per rispondere a un concetto espresso da Flescher, la psiche è come un cristallo che, se percosso, si sfalda in frammenti secondo piani conformi alla sua struttura e lungo incrinature già esistenti.

La seconda caratteristica riguarda la “cronicizzazione” sia dello stimolo emotivo che della risposta organica. Il già citato tamponamento, per esempio, produce ipertensione: è una difesa biologica che permette all’individuo di affrontare la lotta.

La terza caratteristica è “l’eziologia plurifattoriale”. Holliday spiega il problema in questo modo: ascoltate questo frammento di conversazione. Un conoscente dice a un signore: che cosa ha da piangere il suo bambino? La madre risponde: “Oh piange per ogni piccolezza, è proprio un bambino!”; il fratello spiega: “ ha visto un gatto e si è spaventato”; il conoscente di rimando: “Va bene, ad ogni modo deve avere dei polmoni robusti”. Queste frasi rappresentano tre punti di vista differenti: quello individuale (è ancora un bambino), quello ambientale (un gatto ha provocato lo spavento), quello fisiologico (deve avere dei polmoni robusti). Una medesima causa agisce dunque su tre campi. Il fenomeno del pianto in quel soggetto evidentemente non sarebbe mai comparso se il soggetto stesso, primo non fosse stato un bambino, secondo non avesse incontrato il gatto, terzo non avesse avuto dei buoni polmoni. Questa teoria dette del “quanto dell’uno e quanto dell’altro”, garantisce la serietà psicosomatica, che non ha certo la pretesa di volere assorbire, né vuole correre il rischio di correggere il secolare errore di aver trascurato la psiche commettendo quello, ancora più grave, di passare all’eccesso opposto e cioè di trascurare il corpo. Cioè se esiste “qualche” ulcera psicosomatica, ciò non significa che l’ulcera sia sempre psicosomatica.

La quarta caratteristica è la “somatizzazione”, ossia il passaggio o meglio il “salto”, come aveva detto Freud, dallo psichico al somatico.


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