Jung, Leonardo e le immagini dell’inconscio
Leonardo suggeriva ai suoi allievi di guardare le macchie sui
muri, le venature dei marmi, le nuvole, la cenere, per scorgervi paesaggi ed
animali, cose inusitate e mostruose, com'era solito fare lui stesso,
abbandonandosi alla potenza evocatrice delle “cose confuse”, perché “nelle cose
confuse l’ingegno si desta a nuove invenzioni”.
Nel tedesco corrente gelassenheit significa “calma”,
“tranquillità”. La pregnanza storica del termine ha le sue origini nella
tradizione mistica (da Meister Eckhart, il mistico domenicano vissuto tra
l’undicesimo e il dodicesimo secolo), in cui indicava il sich lassen, la
dedizione e il completo abbandono a Dio.
L’esistenzialismo ricondusse il verbo alla radice di lassen,
“lasciare”, “lasciar essere”, alludendo ad un rapporto con le cose che le
rispetta nel loro disvelarsi. Jung arrivò ad intendere tale abbandono come
l’attingere del singolo alla forza o volontà “superiore” che è possibile
scoprire attraverso la funzione trascendente.
Nella weltanshaung junghiana infatti, l’abbandono insito nel
geshehenlassen (“lasciar accadere”) assume una valenza-chiave: lasciare che
tutto avvenga e tuttavia conservare intatta una vigilanza etica ed
intellettuale sono le condizioni dell’individuazione, di una prova totale di sé
stessi ...
Da note biografiche apprendiamo che Jung maturò personalmente
tale concetto in seguito ad un momento che molti conoscono: l’assenza di
riferimenti.
Al termine di un periodo di enorme sofferenza (1912-1919) ci
rende partecipi della sua estenuante esperienza personale: “Mi sentivo
letteralmente sospeso. Temevo di perdere il controllo di me stesso e di
divenire preda dell’inconscio, e quale psichiatra sapevo fin troppo bene che
cosa ciò volesse dire. Le tempeste si susseguivano, e, che potessi sopportarle,
era solo questione di forza bruta”.
Invece di riagganciarsi a idee o ad una situazione sociale,
Jung decise di “lasciar accadere”, di abbandonarsi (dal francese à ban donner:
mettere a disposizione di chiunque) (mettre à bandon - « laisser au pouvoir de » NdC), di mettersi
a disposizione delle immagini interiori che l’inconscio gli forniva. Possiamo
supporre che in un simile contesto non basti scartare le resistenze e lasciar
accadere, e che sia necessario un doppio ancoraggio. Da una parte la cura del
corpo, la regolarità dell’attività professionale, dall’altra lo sforzo costante
per obbligare le emozioni a prendere forma. “Perché altrimenti – scrive –
correvo il rischio che fossero esse ad impadronirsi di me. Vivevo in uno stato
di continua tensione, e spesso mi sentivo come se mi cadessero addosso enormi
macigni.
Dopo sei anni al limite della dissociazione, cominciarono a
presentarsi forme nuove”. Jung le dipinse senza sapere che cosa fossero.
Notò che l’oscurità interiore si dissipava e che si stabiliva
da sé una solidità: “Quando cominciai a disegnare i mandala vidi che tutto,
tutte le strade che avevo seguito, tutti i passi intrapresi, riportavano ad un
solo punto, cioè nel mezzo. Mi fu sempre più chiaro che il mandala è il centro
(…). Cominciai a capire che lo scopo dello sviluppo psichico è il Sé”.
E nel passaggio dalla pittura all’idea si creò lo spazio che
gli consentì l’elaborazione. Jung considerò il simbolismo del mandala come una
fenomenologia del Sè e definirà l’archetipo del Sè come la totalità della
psiche, l’integrazione compiuta tra conscio e inconscio, quello stato psichico
che scaturisce dal superamento della dissociazione, dei poli conflittuali, il
centro. Quindi, alcuni anni dopo chiamò funzione trascendente la cooperazione
tra dati consci e dati inconsci, di immagini ed idee, al fine dell’integrazione
di contenuti precedentemente non noti.
Probabilmente anche basandosi sulle esperienze personali
descritte postulò che le strade per conoscere l’inconscio fossero
sostanzialmente due: una procede nella direzione della raffigurazione (la cui
manifestazione più immediata è l’attività onirica e quelle più “mediate”, se
così si può dire, sono, nella psicologia analitica, l’immaginazione attiva e la
sandplay), l’altra della comprensione. Ed affermò: “Le due strade sembrano
essere l’una il principio regolatore dell’altra, entrambe sono legate da un
rapporto di compensazione. La raffigurazione estetica ha bisogno della
comprensione del significato, e la comprensione ha bisogno della figurazione
estetica”. Le due tendenze s’integrano in quella che appunto denominò funzione
trascendente. Piace a questo punto ricordare l’esortazione di Hillman sul “fare
anima”, cioè: “fare anima attraverso l’immaginazione delle parole”. Bisogna
notare che la capacità di abbandonarsi consapevolmente alle proprie immagini
interiori, in una condizione di sospensione della quotidianità, non è solo
foriera di insight rispetto agli strati profondi della psiche. Tale stato di
liminalità è, infatti, anche fonte di intuizioni ed ispirazioni che consentono
di allentare la struttura normativa personale e sociale, di affrontare gli
ostacoli incontrati dalla mente conscia, e talora di superarli col sorgere di
modelli e simboli nuovi.
Riflettendoci, è strano che le origini oniriche del pensiero
moderno non siano altro che una nota in calce alla storia: mentre le idee più
utili di Cartesio furono accolte a braccia aperte, la reazione alla loro
origine fu violentemente negativa. Cartesio stesso fece notare la profonda
importanza sia delle sue immagini oniriche, sia dei suoi calcoli e operazioni
logiche per costruire il suo metodo. Ma pochi dei suoi contemporanei vollero
accettare l’anomalia della conoscenza fondata sul sogno e, di conseguenza,
sulle immagini. La conoscenza degli archetipi della mente (i mandala dipinti da
Jung e quelli della tradizione alchemica ed orientale raffigurano l’archetipo
del Sé) è in effetti difficile a chi crede nella sola forza denotativa delle
parole: una definizione solitamente indica il punto di intersezione di una
tassonomia, mentre un archetipo è ciò che proietta la tassonomia stessa.
Il logos dell’anima predilige il linguaggio immaginale
dell’intuizione e dell’evocazione, così come si manifesta nella durata di una
psicoterapia analitica. L’individuazione degli archetipi è più agevole quando
una parte della psiche si traspone in simboli e, in definitiva, in immagini,
come avviene normalmente in sogno. Di tale trasposizione è inoltre capace il
poeta, il pittore, lo scultore, un mimo sacro, o il danzatore che traccia
spirali attorno al cuore, mostrando la vita che ne procede come un filo dal
gomitolo…
Tratto dal sito del Prof. Gabriele La Porta
(www.gabrielelaporta.wordpress.com)
Dr Max
Lanzaro is an Italian Psychiatrist currently based in London, Verona and Naples;
he has worked as a Consultant in Italy (Naples, Milan) and in the UK (London,
Exeter)
Bibliografia:
C.G. Jung. La vita simbolica. Biblioteca Bollati Boringhieri,
E.G. Humbert. L’uomo alle prese con l’inconscio. Riflessioni
sull'approccio junghiano
Reale B. Le macchie di Leonardo.
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