sabato 14 settembre 2013

Autori e dintorni...Wilfred Bion



Accogliere pensieri senza pensatore

di Claudio Neri



La parola “pensiero” è impiegata solitamente per designare una costruzione o espressione elaborata e organizzata. Bion la utilizza, invece, per indicare pensieri, fantasie, emozioni, affetti e perfino azioni che vanno nella direzione della consapevolezza, della responsabilità e della relazionalità.

Anche i “Pensieri senza pensatore” vanno in questa direzione e la raggiungono quando un pensatore li accoglie, ne diviene consapevole, se ne rende responsabile e li porta in una relazione di coppia o di gruppo.

In questo articolo, l’idea di “Pensieri senza pensatore” è esaminata dal punto di vista dell’analista e del terapista di gruppo. L’analista e del terapista di gruppo come possono accogliere e facilitare l’accoglimento dei pensieri e sentimenti non pensati che affollano la stanza d’analisi.
   


Bion aprì il workshop, tenuto a Roma il 15 luglio 1977, con queste parole:



«Comincerò pensando che quando ci sono molti individui, ci sono anche molti pensieri senza pensatore; e che questi pensieri senza pensatore sono, così, nell’aria da qualche parte.»



I “pensieri senza pensatore” sono pensieri - ma anche sentimenti - che ancora non hanno trovato accoglienza nella mente degli individui e che attendono qualcuno che dia loro forma ed espressione. Essi possono essere pensati, ma anche rimanere in stand by fino a quando si presenteranno le condizioni perché qualcuno li ospiti e dia loro una forma comunicabile. Bion proseguì in questo modo:



«Spero che qualcuno si possa sentire preparato ad alloggiare questi pensieri o nella propria mente o nella propria personalità. Mi rendo conto che questa è una grossa richiesta, perché questi pensieri senza pensatori, pensieri vagabondi, sono anche potenzialmente pensieri selvaggi […].

A noi tutti piace che i nostri pensieri siano addomesticati, ci piace che siano pensieri civilizzati, ben addomesticati, ci piace che siano pensieri razionali.

Ciononostante, spero che possiate osare di dare a questi pensieri, per quanto irrazionali, un qualche tipo di alloggio temporaneo. E che poi li vestiate con parole adatte perché possano esprimersi pubblicamente e possa essere data loro la possibilità di mostrarsi anche se sembra che non siano molto bene attrezzati.» (1977-1983, p. 61 dell’edizione italiana).



1977

Ascoltando Bion, pensai che ci stava proponendo un radicale cambiamento di prospettiva: considerare che non fossimo noi (gli individui) a produrre i pensieri e le fantasie, ma che questi potessero intercettare la nostra mente, superando la barriera emotiva ed intellettuale, che noi stessi e la società frapponevano al loro accesso.

Proponendoci di ospitare i “pensieri senza pensatore”, Bion non ci proponeva di svelare un significato latente, ma di dare inizio ad una catena di trasformazioni, che si sarebbe messa in moto nel momento in cui un “pensiero senza pensatore” fosse stato accolto. In tale prospettiva, la distinzione tra Inconscio, Preconscio e Coscienza non era rilevante. I pensieri senza pensatore potevano essere inconsci, preconsci ed anche pensieri coscienti che nessuno aveva ancora veramente pensato

La catena di trasformazioni avviata dall’accoglimento di un pensiero senza pensatore avrebbe riguardato sia il pensiero, sia chi lo avesse ospitato. La teoria di Bion, infatti, postula che la mente e la personalità si siano sviluppate e continuino a svilupparsi per rispondere alla sollecitazione dei pensieri senza pensatore; più precisamente, per rispondere alla necessità di trasformarli.

La funzione (pensare) crea la struttura (l’apparato per pensare i pensieri), non viceversa. È un’ipotesi originale ed interessante, sia dal punto di vista della teoria, sia da quello della pratica clinica.

Pensai che - per rispondere alla sua sollecitazione - io e gli altri partecipanti al workshop dovessimo semplicemente essere coraggiosi; dovessimo dare voce alle nostre fantasie anche a quelle più bizzarre, alle nostre teorie più ardite (Neri 1999).



2011

Riflettendo sulle parole di Bion - a distanza di anni - ho collegato la sua proposta con un’indicazione tecnica che mi era stata suggerita da Adda Corti (1976) e che lei stessa aveva tratto dal rapporto con Melanie Klein ed Hanna Segal.

Adda Corti - in polemica con una deriva intellettualistica, volta a costruire complicate ipotesi a proposito della lontana storia infantile dei pazienti - mi aveva segnalato l’importanza di accogliere ed interpretare, momento per momento, ciò che emergeva nella seduta e nel transfert.

Il campo, la “stanza” cui Bion fa riferimento, non sono limitati da coordinate spazio‑temporali e non coincidono con la gamma di pensieri , sentimenti e fantasie che danno sostanza al transfert. I pensieri senza pensatore - sebbene possano incrociare, in un dato momento e luogo, la mente o la personalità degli individui - appartengono ad una dimensione illimitata ed infinita. Essi non hanno ancora forma. Nonostante questa differenza, le analogie tra la proposta di Bion e ciò che suggeriscono Melanie Klein e gli altri psicoanalisti della sua scuola sono grandi.

Riflettendo sui Seminari italiani, ho anche capito meglio ed in modo diverso il senso della richiesta di “accogliere i pensieri senza pensatore” che Bion ci aveva rivolto in quanto partecipanti al workshop. Allora, nel 1977, la avevo intesa come invito ad associare liberamente e lasciare emergere tutto ciò che si presentava alla nostra mente. Adesso mi sembra invece chiaro che Bion avesse fatto appello al nostro coraggio, ma contemporaneamente anche al nostro senso di responsabilità ed alla nostra capacità di essere disciplinati.

I partecipanti al workshop erano tutti psicoanalisti o psicoterapisti di gruppo. La proposta di Bion conteneva qualcosa che aveva a che fare con lo specifico della loro professione. Bion, inoltre, ci raccomandava di imparare ad affrontare il rischio associato al fatto di accogliere pensieri non ancora pensati. Da questo, dipende la messa in opera di una parte ragguardevole delle potenzialità terapeutiche e di sviluppo proprie della relazione analitica.

Bion, inoltre, ci raccomandava di portare attenzione - sia durante il seminario, sia successivamente con i nostri pazienti - non soltanto alle persone ed alle relazioni che stabilivano con noi, non soltanto alle loro fantasie, bisogni ed aspirazioni, ma anche e soprattutto a ciò a cui queste persone erano sottoposte, ciò da cui erano bombardate ed a cui dovevano rispondere, sviluppando una capacità di pensare o al contrario rimanendo sopraffatte e paralizzate. Svilupperò questo punto nel prossimo paragrafo che è dedicato al rapporto tra i concetti di “Pensieri senza pensatore” e di “O”.



“O”

Se provo ad immaginare quale potrebbe essere dove si trovano i “Pensieri senza pensatore” mi viene immediatamente da collocarli nell’aria, in qualche posto che è sopra la mia testa. Se immagino, invece, una possibile collocazione di “O” si presenta spontaneamente l’idea di una dimensione che sia al di là (o al di sotto) della realtà che percepisco con i sensi. Questa differente collocazione contribuisce a farci apparire questi due concetti diversi tra loro. La differenza però è - in larga misura - un artefatto, che dipende dalla forza del lingua. le espressioni che usiamo per designare le nostre esperienze ed i nostri concetti tendono infatti orientano il modo ed il “luogo” in cui li percepiamo (Sapir 1921 e Worf 1939).

A mio avviso, invece, le idee di “Pensieri senza pensatore” e di “O” hanno molto in comune. Bion, infatti, conferisce ai “Pensieri senza pensatore” molte caratteristiche, che aveva descritto in suoi precedenti scritti attribuendole ad “O”.

Descriverò brevemente i concetto di “O” e di “evoluzione in O” perché questo può fare comprendere meglio alcuni aspetti dei “Pensieri senza pensatore”.

Il concetto di “O” può essere riportato alla idea di “Cosa in sé” di Kant. “O” si distingue però dalla “Cosa in sé” perché evolve e la sua evoluzione influenza i soggetti che si pongono all’unisono con essa (Dazzi 1987).

Per la sua caratteristica evolutiva, “O” può essere avvicinato al concetto di “Fantasia inconscia” di Suzan Isaacs (1948).

Suzan Isaacs considera la Fantasia inconscia come una rappresentazione psichica delle pulsioni. Considererò qui soltanto la libido tralasciando di parlare della pulsione di morte. Secondo Suzan Isaacs, la libido - nonostante le sue origini e funzioni siano radicate nel corpo - è attiva sin dall’inizio della vita anche nella psiche. Più precisamente, la libido prende la forma di una Fantasia inconscia relativa al mettere in atto qualche tipo di attività orale, anale o genitale con l’oggetto (il seno, la madre, la coppia dei genitori). Partendo dalla prima Fantasia inconscia - che è anche una rappresentazione grezza delle pulsioni - la psiche del bambino progressivamente può dare un ordine a se stessa, attraverso successive fantasie e meccanismi di proiezione, introiezione, scissione e denegazione. In tal modo, la psiche stessa riceve sollievo, rispetto ad esperienze estremamente primitive di terrore e conflitto.

La caratteristica evolutiva permette di avvicinare “O” - oltre che alla Fantasia inconscia - anche all’idea di Archetipi. Jung (1940) descrive gli Archetipi come «forze vitali psichiche che pretendono di essere prese sul serio; e anzi, nella maniera più singolare, provvedono anche a farsi valere». L’avvicinamento tra O ed Archetipi mi permette anche di iniziare a dire qualcosa a proposito del tema centrale dell’articolo: “Accogliere i Pensieri senza pensatore”. Jacobi (1970), infatti, mette in luce quanto sia importante per la crescita della personalità dell’individuo affrontare la fatica psichica di accogliere «contenuti che prorompono […] dal centro più profondo e più oscuro, mai raggiungibile dalla luce della coscienza.» Questa affermazione è per gli Archetipi, ma anche per O e per i Pensieri senza pensatore.



Evoluzione in O e Trasformazione in K

Bion afferma che O non può essere conosciuto; può soltanto “essere evoluto”. Coniando questa espressione (“essere evoluto”), Bion vuole sottolineare la possibilità che la evoluzione di O e quella di chi si è posto all’unisono con O avvenga senza la necessità che O sia stato fatto oggetto di conoscenza. Anzi un’attività conoscitiva (Trasformazione in K ovvero Trasformazione in Knowledge) non è vantaggiosa, ma di ostacolo per la Evoluzione in O.

Bion afferma, inoltre, che O non può essere “contenuto” nella mente dell’individuo. L’individuo può soltanto “mettersi all’unisono” con O. Con questa affermazione Bion vuole mettere in evidenza la qualità di essere in continua espansione che è propria di O.

L’idea relativa al “mettersi all’unisono con O” è un creativo risultato della lettura che Bion ha fatto dei testi di grandi mistici medioevali come Juan de la Cruz e Meister Eckart. Eckhart - ad esempio - usa la metafora del fuoco per indicare il rapporto che si può stabilire tra Anima e Dio. Quando il fuoco [Dio, l’amore di Dio] è generato all’interno stesso del legno [l’Anima], il fuoco gli trasmette la propria natura e la propria essenza, ed il legno, da sé, diviene sempre più simile al fuoco.

Vorrei notare infine che mettersi all’unisono con O - come mettersi in contatto con tutte le grandi forze vitali - può avere un esito creativo, ma anche distruttivo.



Disposizione a stella

Io ho dato una mia personale lettura di questo concetto di Bion. Considero O non soltanto come la Realtà ultima, ma anche come un Punto focale attivo in seduta. L’analista e l’analizzando, il terapista ed i membri del gruppo - regolando opportunamente il loro assetto mentale - possono mettersi all’unisono con O (con il Punto focale evolutivo) e seguirne la evoluzione. In modo analogo, l’analista e l’analizzando, il terapista ed i membri del gruppo possono ospitare “Pensieri senza pensatore” promuovendone la trasformazione ed a loro volta venendo trasformati per il fatto di averli accolti, prendendosene la responsabilità.

L’idea di O e quella di Pensieri senza pensatore, inoltre, sono alla base di un mio particolare approccio tecnico e di una specifica modalità di ascolto, che ho chiamato “Disposizione a stella”.



«Questa modalità di ascolto […] consiste nel percepire e organizzare mentalmente i dati che emergono dagli interventi dei membri del gruppo, e più in generale da ciò che accade in seduta, valorizzando la categoria “spazio”, piuttosto che quella “tempo”, come avviene invece quando il terapista segue le catene associative, disponendo gli interventi lungo un filo sequenziale.

La Disposizione a stella - utilizzando lo spazio come [categoria] organizzativa essenziale - permette al terapista di cogliere gli elementi della seduta nella loro sincronicità.

Permanendo a lungo in questa disposizione di ricezione [ed adottando l’assetto mentale che Bion (1970) ha definito “senza memoria, senza desiderio e senza comprensione”], ad un certo momento l’analista [potrà percepire] la presenza di un “nucleo centrale”. Quando egli avrà individuato tale nucleo, tenderà spontaneamente a vedere i singoli elementi della seduta - frasi, sogni, emozioni - in relazione con esso (Disposizione a stella).

Debbo aggiungere che parlare di un solo nucleo centrale non rende completamente ciò che desidero comunicare. [Vi sono infatti più nuclei centrali disposti a diversi livelli.

Più precisamente, quando le associazioni dei partecipanti si condensano dando l’impressione che siano il frutto di un’attività del gruppo come un tutto (Foulkes in un suo scritto del 1948 parla di “Eventi di gruppo condivisi”) si possono individuare non uno, ma due nuclei disposti a livelli diversi.

Il nucleo che corrisponde al primo livello è rappresentato da una fantasia o da una serie di fantasie presenti in seduta e che, essendo vicine al livello preconscio, trovano facilmente connessioni con il Tema della seduta (ciò di cui si parla).

Queste fantasie “di primo livello” e il Tema della seduta possono essere elaborati attraverso un processo conoscitivo, (quello che Bion, chiama “trasformazione in K”).

Il nucleo che corrisponde al secondo livello (O, il punto focale attivo, l’attrattore o propulsore), più che ad un nucleo, corrisponde ad una galassia di fantasie dotate di una potente forza, ma ancora prive di forma e non ben definite (possiamo identificare queste fantasie come “Pensieri senza pensatore”).

È impossibile conoscere direttamente questo nucleo privo di forma, tuttavia esso evolve. Bion (1970) - come ho già detto - parla di “Evoluzione in O”, cioè dell’evoluzione di ciò che è ignoto.

Nel corso della seduta, il terapista può mettersi all’unisono con questo punto focale attivo; facendo così il terapista segue e in un certo senso promuove il suo prendere forma nel gruppo. O inizia a manifestarsi, i Pensieri senza pensatore possono essere accolti da qualcuno dei membri o dal “gruppo come insieme pensante”.]

La funzione dell’analista, in questo caso, non implica […] dare un’interpretazione, ma appunto “Mettersi all’unisono con O”, favorendo così il fatto che i partecipanti, a loro volta, si mettano all’unisono con il nucleo in evoluzione.

Ritengo che la partecipazione dei membri del gruppo all’evoluzione di O e all’emergenza di queste fantasie in un’area che potrà in seguito essere affrontata in modo conoscitivo, sia altrettanto ricca di potenzialità terapeutiche rispetto alla comprensione promossa attraverso l’interpretazione (Neri 1998).»



Responsabilità per il pensiero

Prima di parlare della rilevanza clinica dell’accogliere i “Pensieri senza pensatore” è necessario che chiarisca cosa vuol dire prendersi la responsabilità di un pensiero.

Accogliere un Pensiero senza pensatore, infatti, non vuole dire soltanto metterlo in parole ed esprimerlo. Non corrisponde alla messa in opera di complesse operazioni concettuali, matematiche o logiche. Significa invece - anche e soprattutto - farsi responsabile delle immagini, scenari, effetti e contenuti evocati in sé e negli altri da questo pensiero.

Una prima difficoltà dell’accogliere e prendersi responsabilità dei Pensieri senza pensatore dipende dalla loro natura non-socializzata e violenta. Bion segnala questa caratteristica, quando dice:



«Mi rendo conto [che l’invito a dare alloggio a questi pensieri] è una grossa richiesta, perché questi pensieri senza pensatore, pensieri vagabondi, sono anche potenzialmente pensieri selvaggi […].» (p. 61 dell’edizione italiana).



La loro natura selvaggia dipende dal fatto che ogni pensiero nuovo ed originale contiene sempre qualcosa di trasformativo, ed anche qualcosa di violento e sovversivo rispetto allo status quo. Isahia Berlin (1997) scrive:



«Più di cent’anni fa, il poeta tedesco Heine ammonì […] a non sottovalutare il potere delle idee: i contenuti filosofici coltivati nella quiete dello studio di un professore possono distruggere una civiltà.»



Berlin fa riferimento soprattutto alle idee di Marx ed alla rivoluzione bolscevica di cui aveva sperimentato dolorosamente gli effetti sulla propria vita e su quella dei suoi familiari.

Thomas Mann (1953, p. 587-8) riprende le considerazioni di Heinrich Heine, riportandole non a Marx, ma a Nietzsche ed al Nazismo. Egli afferma che i pensieri di Nietzsche contengono una qualità selvaggia, che Nietzsche non si è assunto l’onere di pensare, ed aggiunge alcune acute importanti osservazioni a proposito della responsabilità del pensare.



«Nietzsche […] fu sul piano personale una natura […] delicata, complicata, capace di una profonda sofferenza, alieno da ogni brutalità […]. Ma in un’eroica contraddizione con se stesso, egli diede vita ad una dottrina rabbiosamente antiumana, i cui concetti favoriti furono la potenza, l’istinto, il dinamismo, il superuomo, l’ingenua crudeltà, la “bestia bionda”, l’amorale forza vitale trionfante […]».

«C’è qualcuno che può dubitare che Nietzsche non si rivolterebbe nella tomba se sapesse che cosa è stato fatto [dai nazisti] della sua volontà di potenza […]»?

«Ma la sua dottrina fu un poema imbevuto di ebbrezza romantica, creando il quale egli non si interrogò mai su quali effetti avrebbero avuto in termini di realizzazione politica i suoi pensieri, e la sua opera grandiosamente tragica ha sciaguratamente contribuito al tramonto [della] “libertà tedesca” [...]».



Thomas Mann (1953, pp. 585-6) mette in luce il fatto che la caratteristica selvaggia del pensiero può derivare dalla mancanza dell’esercizio di una specifica funzione trasformatrice: il prendersi responsabilità del pensiero. Prendersi responsabilità del pensiero è nutrire una certa benevolenza nei confronti della vita e degli uomini.



«[Il pensiero ha una responsabilità] nei confronti della vita […]. [… Intendo parlare] [… della sua] responsabilità nei confronti della vita degli uomini e nei confronti delle conseguenze del pensiero [stesso] sulla vita e sulla realtà […].» 



Bion per parte sua distingue il pensiero inteso come intelligenza e capacità tecnologica dal pensiero che è caratterizzato dalla responsabilità di pensare. È solo quest’ultimo che porta ad un autentico sviluppo della personalità umana.

Accogliere un Pensiero senza pensatore non è dunque separabile dal prendersene la responsabilità. Accogliere un Pensiero senza pensatore è parte di un processo più generale volto a stabilire una nuova forma di legame e solidarietà tra diversi aspetti del Sé, tra sé stesso e le altre persone, tra sé ed il mondo.









Accogliere i Pensieri senza pensatore

Come si realizza nella clinica l’accoglimento di un Pensiero senza pensatore? Quali resistenze mette in moto? Quali percorsi apre?

Proverò a rispondere, presentando una breve sequenza tratta da una terapia di coppia (Lupinacci 2009).

Una moglie ed un marito - ambedue tra i quaranta ed i cinquant’anni - vanno dal terapista per la loro seduta settimanale. La moglie (la più esuberante dei due, la ribelle) racconta un sogno che contiene un pensiero di rivolta rispetto alla famiglia di origine e di possibilità di concedersi un piacere fuori dell’ordinario. È un pensiero che il marito (rigido, ligio al dovere, dipendente dalla famiglia) non avrebbe osato mai formulare, neanche in sogno.

In generale, le differenze rispetto ai limiti ed alle convenzioni sono fonte di tensione tra loro. Questa volta però, quando il pensiero impensabile, il Pensiero senza pensatore viene formulato da lei, improvvisamente lui esclama: “Magari potessi io!”

Il sogno della moglie (che è anche una prima forma di accoglimento del “Pensiero senza pensatore”) ha colto precisamente ed inaspettatamente un momento di disponibilità del marito (una seconda forma di accoglimento).

C’è poi un seguito, più complesso e difficile da comprendere: la moglie incredibilmente si indigna, lo rimprovera.

Ma il terapista ricorda bene come la signora - che si lamenta sempre della distanza e scarsa vivacità del marito - non permetta però che i rari momenti nei quali lui si libera dai suoi schemi e le si avvicina siano goduti da entrambi. La moglie lo riporta (e riporta la coppia) ad un altro legame che esiste tra loro. Marito e moglie sono legati da un profondo problema comune: l’ostilità e l’invidia per il piacere; ed in particolare per il piacere di coppia (nella reciprocità).

Il terapista riflette sul fatto che portare l’attenzione soltanto sull’intervento della moglie e sulla tendenza a ripristinare un penoso status quo potrebbe essere vissuto dalla signora ed anche dal marito come colpevolizzante.

Egli cerca allora di guardare la situazione da una diversa angolatura. Se la raffigura in questo modo: “O, un Pensiero senza pensatore in evoluzione ha preso contatto con un sistema relazionale di esseri umani in rapporto fra di loro. L’avvicinamento ad O ha generato la possibilità di nuove aperture, ma anche terrore e senso di persecuzione.” Un suo intervento dovrebbe dunque parlare non soltanto della attivazione di resistenze al cambiamento, ma anche dei sentimenti contradditori di speranza e timore suscitati dalla prospettiva di un cambiamento.

Il terapista avverte però che qualcosa di essenziale manca ancora, perché egli possa intervenire non soltanto indicando contenuti utili e corretti, ma anche con il tono e nel modo giusto. Egli si chiede: “Che cosa proverei se dovessi mettere in campo un aspetto di me stesso più appassionato? Cosa succederebbe se la barriera tra due aspetti diversi del mio Sé diventasse più permeabile, aprendo la possibilità di un contatto e di una sovrapposizione tra di loro? Come mi sentirei se mi coinvolgessi maggiormente nelle fantasie, pensieri e sentimenti teneri e violenti di questa coppia?”

Il risultato di queste riflessioni non è consistito nella formulazione di una singola interpretazione, ma nell’avvio di una nuova e diversa fase del lavoro della coppia e del terapista.



Conclusione

Terminerò con un’immagine:



«Un maestro Sufi, un mistico si stava avvicinando a Damasco, che era al tempo la più colta e ricca delle città. I sapienti che già vivevano a Damasco gli mandarono incontro una delegazione che portava un bicchiere d’acqua colmo sino all’orlo. Il messaggio era chiaro: “A Damasco siamo già tanti, forse troppi, non vi è posto per te e per il tuo sapere.” Il Sufi estrasse una rosa che portava sempre nel risvolto del mantello e la mise nel bicchiere, senza fare cadere una singola goccia. Anzi, sembrava che nel bicchiere vi fosse più spazio (Corrao 1974).»



Il troppo pieno di inibizioni e malcontento che a volte intasa il campo della relazione di una coppia o di un gruppo analitico non può essere risolto, togliendo o assorbendo qualcosa, ma piuttosto aggiungendo qualcosa.

Il troppo pieno di sentimenti infelici, che talora occupa quasi completamente il tempo delle sedute di un’analisi, può corrispondere ad un blocco del paziente, che non mette in gioco un aspetto del suo Sé più aperto e vivace. È possibile però che il paziente non lo metta in gioco e che dunque questo aspetto del Sé resti inibito o dissociato, perché l’analista per parte sua fa altrettanto. Tiene la rosa riposta e ben protetta dentro il risvolto del suo mantello; tiene da parte un aspetto più appassionato e determinato della sua personalità (Bromberg 2006).

Questo è il Pensiero senza pensatore al quale - attraverso la lunga narrazione che avete ascoltato - ho cercato di dare un alloggio di parole.