lunedì 3 giugno 2013

Da Treccani.it


Oggetto transizionale

L'oggetto transizionale secondo il pediatra e psicoanalista inglese Donald W. Winnicott, che coniò l’espressione nel 1951, l’o. t. è un oggetto materiale capace di soddisfare, nel lattante, la rappresentazione di un qualcosa relativo al possesso e all’unione con la madre. Un paradosso – specificherà Winnicott – perché esso non appartiene né alla realtà interna né al mondo esterno ed è stato nello stesso tempo creato e trovato dal bambino. Precursore del simbolo (), lo. t. viene, dunque, a dare forma a quell’area d’illusione () che congiunge madre e bambino. Così, orsacchiotti, fazzoletti, copertine, come pure un angolo di tessuto, un nastro o un filo di lana, o ancora una particolare sensibilità a suoni, luci o immagini, compaiono nella vita del bambino (tra i tre e i dodici mesi) proprio nel momento in cui l’illusione d’essere tutt’uno con la mamma inizia a sgretolarsi e il piccolo sente incombere una minaccia di rottura. Morbidi e soffici, impregnati di odori inconfondibili che appartengono tanto alla mamma quanto al bambino, ripetutamente sfiorati, stretti e succhiati dal bebé, essi permettono al lattante di sopportare il proprio stato di separatezza, facilitando l’angoscioso e inevitabile passaggio dal me al non-me, dal mondo interno al mondo esterno, attraverso l’invenzione di una zona intermedia, di margine, tra il dentro e il fuori, tra me e l’altro.

L’oggetto transizionale, un’idea innovativa. Prima che Winnicott introducesse le concettualizzazio­ni relative a fenomeni e oggetti transizionali, nella letteratura psicoanalitica non c’era alcun esplicito riferimento a un possibile spazio tra ‘interno’ ed ‘esterno’. Sigmund Freud aveva descritto la sequenza evolutiva dal principio di piacere ( piacere/dispiacere, principio di) al principio di realtà delineando in tal maniera il percorso che ogni bambino deve compiere, mentre Melanie Klein aveva posto l’accento sul mondo interno e sulle fantasie che lo alimentano, trascurando l’impatto del mondo esterno sulla percezione del bambino. Winnicott era arrivato invece alla messa a fuoco di una terza area (molti peraltro sono i termini usati da Winnicott per riferirsi a questa dimensione; terza area, area intermedia, spazio potenziale, luogo di riposo, sede dell’esperienza culturale) a partire dal fatto che egli vedeva un legame tra l’uso del pugno, delle dita e del pollice, da parte di un neonato, e l’uso, da parte del bambino più grande, dell’orsacchiotto o di un giocattolo morbido. Scrive Winnicott nel suo saggio Oggetti transizionali e fenomeni transizionali (1951): «Ho introdotto i termini di oggetto transizionale e fenomeno transizionale per designare l’area intermedia di esperienza tra il pollice e l’orsacchiotto, l’erotismo orale e la vera relazione d’oggetto». Seppure posto all’origine del gioco e collocato, nel pensiero winnicottiano, alla radice del simbolismo e della creatività, l’elemento fondamentale dell’o. t. non è il suo valore simbolico, ma la sua esistenza reale. Tant’è che quando il bambino si stringe al suo orsetto oppure si accarezza il viso con la copertina sa benissimo che questi oggetti non sono la mamma, anche se egli, paradossalmente, li utilizza considerandoli mamma.

L’oggetto transizionale come primo possesso del bambino. Orsacchiotti e copertine, come mostra emblematicamente il celebre Linus, si trovano così ad assumere un significato affettivo molto intenso, diventando una parte quasi inseparabile del bambino e andando a costituire il primo possesso di qualche cosa che non è l’Io (not me possession). Si tratta di oggetti intermedi, oggetti ‘non me’, sebbene percepiti ancora come parte di me, ma non in quanto oggetti interni, bensì in quanto possessi. In questo senso i lavori di Eugenio e Renata Gaddini sugli oggetti precursori sono molto utili perché servono a differenziare dall’o. t. altri fenomeni e oggetti molto comuni che, pur avendo la capacità di consolare il bambino – per es. il succhiotto, la lingua, il dito, i capelli o le orecchie tanto del bambino quanto della madre –, o sono proposti dalla madre oppure non sono separati dal bambino o scoperti o ‘inventati’ da lui. Passaporto dalla solitudine, ogni o. t. è investito da un legame di assoluto possesso da parte del bambino, che potrà coccolarlo, strapazzarlo, stropicciarlo sino a mutilarlo, lasciando che diventi pure sporco e maleodorante. Molti genitori sono consapevoli che lavando o riaggiustando uno di questi oggetti introdurrebbero una rottura nella continuità dell’esperienza del bambino che potrebbe, addirittura, distruggere il significato e l’importanza che lo stesso oggetto riveste per lui.



Donald_Winnicott


Il gioco nell'area transizionale

[...]
La psicoterapia ho luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. la psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme[...]Se il terapeuta non è in grado di giocare, allora non è in grado di fare il suo lavoro. Se il paziente non è in grado di farlo, bisogna creare le condiziioni adatte per aiutare a farlo. La ragione per cui giocare è essenziale, è perchè proprio mentre gioca il paziente è creativo [...]; è in grado di far uso dell'intera personalità ed è solo nell'essere creativo che il paziente scopre il proprio sé (Winnicott, 1971, pp. 79, 102).

L’uso che il bambino fa del suo oggetto transizionale, rappresenta infatti, per Winnicott, il “primo uso che fa il bambino di un simbolo” e la sua “prima esperienza di gioco” . Il gioco, dunque, risiede in questa stessa area transizionale, che è in contrasto sia con l’interno che con l’esterno,  nella quale soggettivo e oggettivo sono indistinti, che nasce dal rapporto di fiducia del bambino nei confronti della madre e che dà origine alla “idea del magico”: “in questa area di gioco il bambino raccoglie oggetti o fenomeni dal mondo esterno e li usa al servizio di qualche elemento che deriva dalla realtà interna o personale. Senza allucinare, il bambino mette fuori un elemento del potenziale onirico e vive con questo elemento in un selezionato contesto di frammenti della realtà esterna” .
Il gioco è, per Winnicott, sempre un’esperienza creativa e la capacità di giocare in maniera creativa permette al soggetto di esprimere l’intero potenziale della propria personalità, “grazie alla sospensione del giudizio di verità sul mondo, a una tregua dal faticoso e doloroso processo di distinzione tra sé, i propri desideri, e la realtà, le sue frustrazioni” . In questo modo, attraverso un atteggiamento ludico verso il mondo, e solo qui, in questa terza area neutra e intermedia tra il soggettivo e l’oggettivo, può comparire l’atto creativo, che permette al soggetto di trovare se stesso, di essere a contatto con il nucleo del proprio Sé.
La creatività non consiste, secondo il grande psicanalista, nei prodotti dei lavori artistici, siano essi quadri o sinfonie o anche manicaretti culinari, che sono meglio definibili come “creazioni”, ma è invece costituita dalla “maniera che ha l’individuo di incontrarsi con la realtà esterna”: essa “è universale, appartiene al fatto di essere vivi” e “si può considerare come una cosa in sé, qualcosa che…è necessario se l’artista deve produrre un lavoro d’arte, ma anche qualcosa che è presente quando chicchessia…guarda in maniera sana una qualunque cosa o fa una qualunque cosa deliberatamente”. L’impulso creativo è presente alla stessa maniera, egli afferma con parole meravigliose, nel “bambino ritardato che è contento di respirare” come  “nell’architetto che improvvisamente sa che cosa è che lui desidera costruire”. La creatività non può essere mai del tutto annullata, anche nei casi più estremi di false personalità, tuttavia può restare nascosta e questo viene a determinare la differenza tra il “vivere creativamente e il semplice vivere” .
L’intera vita culturale dell’essere umano origina anch’essa nello spazio potenziale che congiungeva originariamente madre e bambino e si pone in una posizione di diretta continuità con il giocare in modo creativo; afferma Winnicott: “l’esperienza culturale comincia con il vivere in modo creativo, ciò che in primo luogo si manifesta nel gioco” .
Il destino dello spazio potenziale tra madre e bambino, che nasce nei primi stadi dell’esistenza dell’individuo, in rapporto alla fiducia del lattante nell’attendibilità della figura materna, determina la “qualità” del gioco e dell’esperienza culturale di ogni essere umano. Dice Winnicott: “se la madre è in grado di fornire le condizioni opportune, ogni dettaglio della vita del bambino è un esempio di vivere creativo. Ogni oggetto è un oggetto “trovato”. Data l’opportunità il bambino comincia a vivere creativamente, e ad usare oggetti reali, per essere creativo in essi e con essi. Se al bambino non viene data questa opportunità allora non vi è alcun territorio in cui il bambino possa avere gioco o possa fare l’esperienza culturale: ne deriva che non si stabilisce alcun legame con l’eredità culturale, e non vi sarà alcun contributo al patrimonio culturale. Il “bambino in carenza” è notoriamente irrequieto ed incapace di giocare, ed ha un impoverimento della capacità di fare esperienze nel campo culturale”. La mancanza di attendibilità della figura materna determina “una perdita dell’area di gioco e la perdita del simbolo significativo” ; questo significa che il bambino potrà riempire, se le circostanze sono favorevoli, lo spazio potenziale con i prodotti della sua immaginazione, mentre, se le circostanze sono sfavorevoli, l’uso creativo degli oggetti viene a mancare e un falso sé compiacente si sostituisce al vero sé che possiede il potenziale per tale uso.
Lo spazio potenziale, la “terza area del vivere umano…che non si trova né dentro l’individuo né fuori, nel mondi della realtà condivisa“  viene ad essere, per Winnicott, il “filo rosso” che lega gioco ed esperienza culturale e determina la qualità di entrambi.
Se il bambino può godere, nel momento in cui la madre inizia a separarsi da lui, di cure sensibili da parte della stessa, avrà un’area di gioco immensa, una sterminata distesa di illusione da riempire, durante tutta la sua vita, con il gioco creativo che porterà poi alla esperienza culturale. Giocare è “una maniera particolare di agire, una maniera di trattare la realtà in forma soggettiva” , è possibilità unica di essere creativi, ossia di utilizzare l’intero potenziale della propria personalità, di venire a contatto col proprio vero Sé, di compiere con consapevolezza il viaggio della vita, senza mai adattarsi passivamente ad essa.
La creatività è uno stato di vitalità esistenziale, comune ad ogni essere umano, sia esso bambino o adolescente o adulto, ed è per questo che meravigliosamente, per Winnicott, il gioco, intendendo con esso un atteggiamento ludico e creativo verso il mondo, non ha età: “io considero alla stessa stregua il modo di godere altamente sofisticato della persona adulta rispetto alla vita, o alla bellezza o all’astratta inventiva umana, e il gesto creativo di un bambino, che tende la mano alla bocca della madre, e che tocca i suoi denti, e la vede creativamente. Per me, il giocare porta in maniera naturale all’esperienza culturale e invero ne costituisce le fondamenta” .
Il bambino e l’adulto, che vivono creativamente, giocano entrambi, riempiendo con i prodotti della propria immaginazione e con l’uso dei simboli, lo spazio tra sé e l’ambiente (in origine l’oggetto); il gioco del bambino e la vita culturale dell’adulto nascono nella stessa area e allo sviluppo di quest’ultima è legato il loro stesso destino o, meglio, la loro qualità.


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