Lasciata la casa paterna, Siddhartha visse per
anni nelle foreste, praticando forme estreme di ascetismo. Era questa una nobile e antica tradizione di
ricerca spirituale: per ottenere la liberazione dalla ruota karmica, che ci
tiene vincolati all'esistenza condizionata, e prigionieri della sofferenza,
occorre andare al di là di ogni attaccamento, e questo era appunto il senso delle pratiche ascetiche degli
eremiti della foresta. Siddhartha, si
dedicò dunque con estremo rigore a queste pratiche, digiunando, dormendo sulla
nuda terra, meditando incessantemente, fino a ridursi allo stremo delle forze e
a un soffio dalla morte. Invano,
malgrado tutti i suoi sforzi, la porta della liberazione restava ostinatamente
chiusa. Finché giunse a perdere ogni
speranza. Capace appena di trascinarsi,
si sedette ai piedi di un albero. Tutto
era vano. Cessato ogni sforzo, caduto
anche il desiderio della liberazione, si abbandonò semplicemente al puro
'esserci'. Senza più cercare nulla,
senza più sperare nulla, senza più desiderare nulla, Siddhartha semplicemente
restò seduto ai piedi dell'albero. Era la notte della prima luna piena di
primavera. Una giovane contadina,
scambiando quella figura per un dio, gli portò delle offerte di cibo. Poiché il suo digiuno non aveva più ragione
di essere, Siddhartha mangiò, possiamo immaginare con un sano appetito. E restò seduto. In quell'abbandono una pace sconosciuta lo
avvolse. La sua coscienza divenne un
lago limpido e immobile, uno specchio vuoto.
E quando la stella del mattino sorse sopra l'orizzonte egli non c'era
più. La fiamma dell'esistenza separata
si era spenta in lui. Ciò che pulsava in
lui era il cuore dell'esistenza stessa. 1 suoi occhi erano diventati finestre
sull'infinito. Non c'era più in lui
alcuna resistenza all'infinita danza della vita/morte/vita. Nulla che si ponesse come separato rispetto
al tutto
Nessun commento:
Posta un commento