venerdì 24 aprile 2015

Forme vitali...

di Mauro Pellegrini


Il Vuoto: un antipasto

… tutti i luoghi comunicano con tutti i luoghi
istantaneamente, il senso di isolamento lo si prova
soltanto durante il tragitto da un luogo all’altro,
cioè quando non si è in nessun luogo”

(Se una notte d’inverno un viaggiatore)

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa sul vuoto, sul senso di vuoto e sul significato che questo stato d’animo ha in psicologia e in psicopatologia. E’ un argomento che mi interessa fin da quando ero ragazzo e mi imbatto quotidianamente in sintomi che con il vuoto hanno a che fare; alcuni miei pazienti soffrono di un senso di vuoto che non riescono a sopportare, altri patiscono le soluzioni che hanno adottato per “riempirlo”. Ho deciso quindi che, sì, ero contento di dire la mia sul soggetto e, come sempre mi succede quando decido di affrontare questa specifica questione, mi sono ritrovato vuoto e senza niente da dire.
Ci sono abituato! Capita spesso davanti al “foglio bianco”… che è un vuoto, appunto. Ma ancor di più quando il tema è proprio questo buco che risucchia e che svuota le idee rendendole inadatte, poca cosa di fronte all’abisso, un aeroplanino che non attraverserà lo spazio troppo grande che si apre quando si prova ad affrontare, tutto insieme, ciò che la natura aborrisce: quell’assenza che è mancanza di rifugio e di sostegno, panico e strana attrazione, soglia e inguardabile oltre.
Prendo rifugio, quindi. Inizierò con piccole cose e con il pratico principio che intima di non tentare di mangiare il bue tutto in un boccone ma un pezzo per volta, un primo pezzettino di vuoto.
Parto, insomma, dal rifugio (la casa, il veicolo, l’ hortus reclusus – posto protetto e fertile in cui “posso stare”) e dal viaggio (un non luogo con la promessa di un altro luogo) da cui la frase dell’incipit dove Calvino accenna allo spostamento da un punto all’altro, non tanto nello spazio quanto nell’idea, nella mente.
Perché siamo sempre da qualche parte se non nel momento in cui “spaesiamo” smettendo di sentirci a casa o a nostro agio e perdendoci… dove?
Chi ha letto i miei primi post sa quanta enfasi metta su quella che Hillman definisce la domanda psicologica per eccellenza: non “chi sono” o “cosa sono” ma Dove sono?
Qual è la scena in cui sono immerso? Che contesto creo insieme alle persone con cui mi relaziono? Quale spazio, luogo, situazione sto “abitando”?
La mia tesi qui (e per il momento, in questo primo flusso di libere associazioni) è che il senso di vuoto derivi non da un “vuoto oggettivo” quanto da un fallimento della capacità di raccogliersi.
Sentite Hillman: “Man mano che conosco i miei sogni, conosco meglio il mio mondo interno, divento amico dei miei sogni. In altre parole la profonda connessione con l’inconscio porta nuovamente ad un senso dell’anima , all’esperienza di un vuoto interiore, un luogo dove i significati sono a casa.” e sentite Winnicott: “Un bambino che può perdersi nel gioco sapendo che il genitore è presente ma non interferirà, è un bambino che permette al proprio Io di dissolversi nel momento in cui si trova in un buon contatto.” Entrambi parlano di un vuoto buono: il vuoto raccolto nell’intimo di Hillman e il vuoto protetto del bambino di Winnicott hanno in comune una caratteristica che li rende non solo non-spaventosi ma addirittura terapeutici: il Contatto.

Il contatto con l’inconscio e il contatto con un genitore che favorisce la libertà sono strumenti per… il viaggio. Grazie a questo contatto Hillman può diventare amico dei suoi sogni e il bambino può giocare. Sogno e gioco sono veicoli per attraversare spazi che, senza queste risorse, diventano troppo vuoti e spaventosi. La notte sarebbe insonne e intollerabile senza il primo e la vita insostenibile e mortalmente noiosa senza il secondo.
Sto dicendo che esistono vuoti utili, piacevoli e curativi e che il senso di vuoto deriva da un cattivo uso di questi spazi interni. Non ci si può raccogliere in “un pieno”: un genitore ansioso che interferisce con il bambino giocando al suo posto e riempiendogli ogni vuoto è una cattiva guida perché non espone il figlio a quel tanto di vuoto che serve per nutrire la fantasia; su un altro piano, un eccesso di coscienza diventa un ostacolo al sognatore, il tentativo di controllare ogni particolare e di essere sempre presenti impedisce la connessione profonda con l’inconscio di cui parla Hillman.
Più che riempire dovremmo quindi saper svuotare: lasciare quel tanto di spazio che serve per diventare abbastanza forti per affrontare un po’ di vuoto alla volta. In questo senso il contrario di vuoto non è pieno ma luogo: uno spazio che non è più alieno perché Psiche lo ha potuto visitare.
Ci sono delle prime possibili esplorazioni. Si può provare a non riempire: non fare subito la solita, azione meccanica che scatta appena il vuoto si presenta. E si può ascoltare il vuoto e “cercare un contatto”: chi ha avuto dei “bravi genitori” troverà, in quei momenti, una sorta di sponda, l’equivalente interiore della guida di cui si parla in tanti miti e in tanti racconti. Chi ha avuto genitori troppo immersi nel “pieno della vita” o troppo afflitti dal vuoto farà sempre un po’ più di fatica. Dovrà chiedersi più frequentemente dove sono? e sviluppare anticorpi efficaci contro certi sintomi che rendono il vuoto poco piacevole. E’ con queste persone che chi fa il mio lavoro cerca di preparare “veicoli adatti”.

Con questo l’antipasto è finito. Nei prossimi post altri pezzi di vuoto…


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