Tratto da L'INATTUALE
http://www.inattuale.paolocalabro.info/2013/03/le-sorgenti-del-male.html
Ho sempre
vissuto intellettualmente al di sopra dei miei mezzi.
Maurice Bellet
Unde
malum? si domandavano gli antichi. Noi, a distanza di
millenni, pur non usando più il latino, continuiamo a domandarci: Da dove
proviene il male? Non siamo riusciti a trovare una risposta esauriente; ecco
perché oggi il celeberrimo sociologo Zygmunt Bauman, del quale abbiamo
spesso parlato, prova a scandagliare la questione dal punto di vista delle
scienze sociali, nel suo ultimo Le sorgenti del male (ed.
Erickson; traduzione e cura di Riccardo Mazzeo).
Bauman,
pur interessato da sempre ai problemi della morale, parte da un presupposto
antecedente alla morale: il male non discende da una lacuna nella moralità
individuale, ma dal modo di concepire e utilizzare la ragione nel mondo
moderno. Il male oggi non proviene dall’immoralità e nemmeno
dall’irrazionalità: ma proprio, incredibilmente, da quella razionalità tipica
dell’Occidente, la cui punta di diamante è la tecnologia.
«La
ragione è una stazione di servizio in cui ci si rifornisce di potere».
Z. Bauman,
Le sorgenti del male
L’autore
parte da una considerazione ampiamente condivisa, per la quale il secolo scorso
ci ha mostrato inequivocabilmente (nelle analisi di tanta filosofia incentrata
sull’esperienza dei totalitarismi, a partire da Hannah Arendt) che il male
non ha un’origine “disposizionale” (cioè relativa a certe caratteristiche
intrinseche agli individui) bensì “situazionale” (cioè riconducibile più
alle circostanze che ai singoli, per cui è tanto più vero che “è l’occasione a
fare l’uomo ladro”, non tanto la sua predisposizione al furto, perché il male è
banale fino al punto da ritrovarsi in insospettabili e per altri versi eccellenti
padri di famiglia).
Qui
interviene l’opera della ragione, quella «stazione di servizio in cui ci si
rifornisce di potere». La ragione reca il potere di controllare gli altri e il
mondo intero tramite la conoscenza e la tecnologia. È infatti più facile
piegare il Giappone a Nagasaki, se si dispone della bomba atomica; ed è più
facile convincere qualcuno a sganciare la bomba, se si sa come manipolarne la
coscienza (fornendogli giustificazioni morali, attenuandone il senso di
colpa, ecc.). La nostra epoca è stata maestra in questa operazione di
de-moralizzazione delle azioni: il suo capolavoro è stato trasformare la guerra
in una mera questione di pulsanti da premere a distanza, in modo che il
carnefice nemmeno percepisca la sofferenza delle sue vittime, ignaro degli
stessi effetti delle sue azioni (capolavoro culminante nella tecnologia dei
droni: migliaia di persone muoiono e sembra che non sia colpa di nessuno, o
forse solo delle macchine).
Bauman,
che spinge tra l’altro la sua tesi nel bel mezzo di considerazioni sulla
matematica del teorema del limite centrale e della “razionalità” economica (per la
quale, una volta prodotte le armi, il “buon senso economico” impone di
utilizzarle, invece di lasciarle marcire nei depositi), conclude che il male
del mondo oggi non è causato da un deficit di ragionevolezza (come vorrebbe una
certa morale intellettualistica ormai datata), bensì al contrario un’ipertrofia
della ragione umana, resa insensibile alla sofferenza e all’empatia. L’unica
via d’uscita dalla nostra razionalità incapace di vedere oltre l’angusto
orizzonte della convenienza (anche a prezzo della vita degli altri), è quella
dell’immaginazione: solo la fantasia può condurre l’umanità fuori dalla macabra
ingiunzione del “bisogna” (spesso tradotto nei termini del “bisogna uccidere”).
La lezione del nostro tempo è che andare al di là della ragione non è affatto
una rinuncia, ma un’aspirazione. Non si vive di sola ragione. Di ragione,
spesso, si muore.
(«Il
Caffè», 22 marzo 2013)
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