domenica 26 gennaio 2014

Psicologia e dintorni...


MENTALIZZAZIONE E DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ

L’essenza della mentalizzazione è tenere a mente la mente, considerare gli stati mentali propri e degli altri, comprendere i fraintendimenti, vedere se stessi dall’esterno e gli altri dall’interno; è caratteristica fondamentale di una salute mentale ed emotiva matura, di particolare valore nel facilitare e promuovere le transazioni interpersonali efficaci. Implica la capacità di riconoscere e sintonizzare i propri pensieri e sentimenti.

Il successo della mentalizzazione include una capacità di cura e di perdono che vale per se stessi quanto per gli altri, e fa la differenza nelle decisioni, deliberate o subliminali, che prendiamo quotidianamente in merito a ciò che diciamo o facciamo (Allen, Fonagy e Bateman 2010).
Esprime una funzione della corteccia prefrontale e rappresenta una folk psychology che ogni individuo utilizza per attribuire un significato all’interazione con gli altri e a se stesso. I soggetti con Disturbo Borderline di Personalità (BPD) hanno difficoltà a mentalizzare, in particolare nelle situazioni interpersonali e nelle relazioni intime. In un contesto interattivo, l’uomo è esposto a stati di iperarousal e ha bisogno di qualcosa che lo protegga da effetti soverchianti; in quei momenti, la mentalizzazione realizza la funzione di ammortizzatore. Per i soggetti borderline l’iperarousal induce una disconnessione a livello della corteccia prefrontale e innesca meccanismi di attacco-fuga e di freezing, piuttosto che la mentalizzazione (Bateman e Fonagy 2006).
Partendo dal presupposto che la costruzione della capacità di mentalizzare si basa sulla possibilità di pensare lo stato mentale del proprio oggetto primario, è fondamentale che l’atteggiamento prevalente dell’oggetto primario verso il sé del bambino sia sufficientemente pensante, premuroso e positivo.
Quando eventi traumatici spingono il bambino a ignorare difensivamente le sue percezioni relative a pensieri e sentimenti dell’oggetto primario, la mentalizzazione viene inibita. Alla base del funzionamento borderline potrebbero esserci molti fattori, tra cui determinanti di natura biologica e genetica, l’inaccessibilità dell’oggetto materno o anche un fallimento materno più precoce.
Qualunque sia la causa principale, la comprensione teorica e clinica del soggetto con BPD non può prescindere dall’evidenza empirica di relazioni d’attaccamento danneggiate, di esperienze traumatiche di abuso e trascuratezza, di deficit del sistema di regolazione delle emozioni, di fallimenti nello sviluppo della capacità di mentalizzare. Riappropriarsi della mentalizzazione è il primo e più significativo risultato del processo analitico (Fonagy e Target 2001).
Il trattamento basato sulla mentalizzazione (MBT), ideato e sviluppato da Anthony Bateman e Peter Fonagy, offre una cornice all’interno della quale diversi modelli possano trovare posto, sempre che  l’obiettivo sia quello di aumentare la mentalizzazione. Si tratta di una terapia dinamica che utilizza la relazione e il processo terapeutico come meccanismi chiave per il cambiamento. I terapeuti devono fare del loro meglio per costruire e ricostruire un’immagine del paziente nella propria mente; devono, inoltre, capire se stessi e approcciare la terapia con una certa dose di umiltà.
Una posizione di ignoranza è essenziale. Paziente e terapeuta condividono i loro punti di vista, senza rivendicare chi ha ragione. Non c’è alcuna certezza nel trattamento del BPD; la flessibilità e la capacità di tollerare l’incoerenza sono tra le caratteristiche più importanti che un terapeuta deve possedere per realizzare un trattamento efficace (Bateman e Fonagy 2010).
Non c’è incertezza sul fatto che sia i bambini sia chi si prende cura di loro possano compromettere la relazione d’attacamento; questo non si traduce in un’attribuzione di colpa agli uni o agli altri, mentre l’influenza delle figure di attaccamento primario nello sviluppo psicologico riveste una particolare importanza in termini di strategie preventive.
Ciascuno porta quote sconosciute di rischio ereditario per una serie di condizioni, dall’ipertensione al diabete alla depressione alla schizofrenia; la sfida futura sarà comprendere meglio e identificare questi fattori di rischio genetici e il loro rapporto con l’esperienza di sviluppo come elementi critici che influenzano la struttura finale e il funzionamento del cervello adulto (Allen e Fonagy 2008)

Valentina De Felice.

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