Compiacere: effetti collaterali
di
drdedalo
“Non è una questione di virtù quanto
della scelta di impegnarmi a modificare
o a tenere a freno la mia particolare modalità
predefinita,
che è per forza di cose profondamente e letteralmente
egocentrica e vede e interpreta tutto attraverso la
lente dell’io”
D.F.Wallace
Diceva lo scrittore John Updike, parlando dello scrivere e di
ciò che aiuta o non aiuta uno scrittore nel suo lavoro: “La celebrità, anche
quella di tipo più modesto che arriva a noi scrittori, accresce inutilmente la
nostra auto-coscienza. La celebrità è una maschera che divora il viso. Non
appena qualcuno diventa conscio di essere “un qualcuno”, di essere guardato e
ascoltato con un interesse particolare, il flusso delle idee si ferma, ed egli,
nella sua sovraeccitazione, diventa cieco e sordo. Si può o vedere o essere
visti.”
Si può vedere o essere visti: succede, nel corpo (e,
contemporaneamente, nella mente) che tutta una quantità di stimoli vengano
mancati, non visti e non percepiti; succede che possibili intuizioni, sfuggano,
sottotraccia, sotto al livello in cui stiamo quando siamo sovraccaricati da un
intasamento che Updike, ad esempio, attribuisce alla fama e che D.F. Wallace
attribuiva al bisogno di piacere a tutti o a “quasi tutti”.
L’eccesso di autocoscienza è, spesso, nient’altro che questa
scarica di contenuti acquisiti che occupa così tanto la psiche da impedirle di
ascoltare e ascoltarsi.
Decido di scrivere un post e si affollano mille idee su cosa
potrebbe piacere a quella determinata persona, cosa voglio dire a quell’altra o
come potrebbe un certo paziente leggere le cose che scrivo: “Penserà che le ho
scritte per lui… che voglio dirgli qualcosa… lui capirà così ma un altro che
non mi conosce potrebbe invece dare un’interpretazione del tutto diversa… posso
scrivere in modo che tutti capiscano?”.
No, naturalmente! Spesso la presunzione di essere capiti non
è che un modo di imbarcarsi nell’impossibile compito di essere onniscienti:
sapere cosa gli altri pensano e sentono, sapere come prendono le cose che
porgiamo loro.
Un delirio, insomma, e un’accozzaglia di sintomi che
accompagnano “l’onniscienza”: il dolore di non sapere cosa l’altro pensa
veramente, la gelosia per l’impossibilità di verificare i sentimenti: mi vorrà
davvero bene? È davvero ammirazione o sta solo facendo così per farmi piacere?
Leggerà ancora dopo aver letto questo?
Capita a chi scrive ma anche a chiunque si esprima con lo
scopo di comunicare almeno un po’ e di non limitarsi a quei convenevoli che
fanno sempre piacere. E non occorre essere nevrotici per imbattersi in questi
ed altri sintomi connessi alla comunicazione e allo sforzo di “raggiungere
l’altro”; e non basta una laurea in psicoterapia per affrancarsi dal rischio di
sentirsi continuamente guardati.
Chi ci guarda è quasi sempre supposto, inventato, allucinato:
è “il mio pubblico”, l’idea che mi sono fatto di quella determinata persona, la
mia rappresentazione interna dell’altro. E’ interno: spesso la sovrapposizione
di ricordi, di paure e preoccupazioni, di aspettative e desideri. Ed è sfuggente,
nello stesso modo in cui lo sono stati gli interlocutori con i quali la nostra
comunicazione non è andata a buon segno.
Ci portiamo dietro (e dentro) un cumulo di fallimenti: volte
in cui siamo stati fraintesi, feriti, non capiti… memorie implicite, perlopiù:
non tanto il chiaro ricordo di quella volta in cui volevo dire una cosa e ne è
stata capita un’altra, quanto la sensazione che tanto non capirà, che mi sto
imbarcando in una fatica di Sisifo… spiegherò inutilmente e con sforzo per
ritrovarmi al punto di partenza.
Ed è come se le memorie implicite si personificassero:
diventano un osservatore interno con cui facciamo i conti, un super-io a volte,
(quanti capiranno qui il termine super-io? dovrò spiegarlo? divento noioso?).
Questo osservatore interno diventa l’artefice del sovraffollamento della
coscienza e, allo stesso tempo, il suo desertificatore: un tiranno impalpabile
ma efficiente che prende con la fava del giudizio due piccioni: quello
dell’occupazione abusiva della psiche da parte di osservatori non comprensivi e
quello della solitudine del povero io incompreso.
La ricettività è invalidata da questo parametro con cui ci
sembra di poter/dover misurare il nostro stato interno e la qualità delle
nostre relazioni: siccome mi aspetto qualcosa, un riconoscimento, un plauso o
almeno un cenno di consenso e siccome questo qualcosa non arriva comincio a
sentirmi frustrato e a mettere in moto tutta una quantità di pensiero che mira
a propiziare l’interlocutore.
Solo che l’interlocutore non è fuori! Non è la persona con
cui potrei avere a che fare ma, piuttosto, ciò che suppongo che lui sia e ciò
che suppongo che lui abbia.
Ha ragione lo psicoterapeuta Adam Phillips quando, parlando
della frustrazione, dice: “Cosa significa sentirsi frustrati? Sentirsi ingannati
perché, si presume, gli altri abbiano qualcosa che vogliamo (ed è in loro
potere concedercelo).”
Ma non è detto; non è detto che ce l’abbiano e non è detto
che possano o vogliano darcelo e, soprattutto, la nostra attenzione, così presa
dal desiderio e così inconsapevolmente condizionata dalle aspettative, non si
rivolge a loro ma al frustratore interno: la personificazione dei nostri
desideri frustrati, il cumulo di memorie e di aspettative che condiziona la
nostra sensibilità.
Ecco perché Bion suggeriva ai terapeuti di sforzarsi per
essere il più possibile in una posizione “senza memoria e senza desiderio”:
chiedeva, almeno a loro, di non caricare con le proprie aspettative e con le
proprie idee precostituite la psiche del paziente; spiegava che lo stesso
desiderio di guarire il paziente può diventare una richiesta: già lui vuole
guarire, già il mondo gli chiede di essere normale, già una quantità di
richieste interne lo tengono stretto in un mondo di aspettative frustrate.
Rendere consapevole questo continuo lavoro sotterraneo del
desiderio è un compito fondamentale per chiunque voglia liberarsi almeno un po’
dal giogo della brama di fama, consenso, interesse, amore…
Non c’è niente di male nel desiderio se non il suo delirio di
onnipotenza: il suo spingere verso l’oggetto anche quando l’oggetto non è lì,
soprattutto quando l’oggetto non è lì o quando c’è ma, offuscato dalla luce del
desiderio, scompare nel confronto con…, scolora nel contrasto, non viene colto,
sentito, riconosciuto.
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