martedì 10 dicembre 2013

Da "Cronache del Labirinto"



Compiacere: effetti collaterali
di drdedalo

“Non è una questione di virtù quanto
della scelta di impegnarmi a modificare
o a tenere a freno la mia particolare modalità predefinita,
che è per forza di cose profondamente e letteralmente
egocentrica e vede e interpreta tutto attraverso la lente dell’io”
D.F.Wallace

Diceva lo scrittore John Updike, parlando dello scrivere e di ciò che aiuta o non aiuta uno scrittore nel suo lavoro: “La celebrità, anche quella di tipo più modesto che arriva a noi scrittori, accresce inutilmente la nostra auto-coscienza. La celebrità è una maschera che divora il viso. Non appena qualcuno diventa conscio di essere “un qualcuno”, di essere guardato e ascoltato con un interesse particolare, il flusso delle idee si ferma, ed egli, nella sua sovraeccitazione, diventa cieco e sordo. Si può o vedere o essere visti.”

Si può vedere o essere visti: succede, nel corpo (e, contemporaneamente, nella mente) che tutta una quantità di stimoli vengano mancati, non visti e non percepiti; succede che possibili intuizioni, sfuggano, sottotraccia, sotto al livello in cui stiamo quando siamo sovraccaricati da un intasamento che Updike, ad esempio, attribuisce alla fama e che D.F. Wallace attribuiva al bisogno di piacere a tutti o a “quasi tutti”.

L’eccesso di autocoscienza è, spesso, nient’altro che questa scarica di contenuti acquisiti che occupa così tanto la psiche da impedirle di ascoltare e ascoltarsi.

Decido di scrivere un post e si affollano mille idee su cosa potrebbe piacere a quella determinata persona, cosa voglio dire a quell’altra o come potrebbe un certo paziente leggere le cose che scrivo: “Penserà che le ho scritte per lui… che voglio dirgli qualcosa… lui capirà così ma un altro che non mi conosce potrebbe invece dare un’interpretazione del tutto diversa… posso scrivere in modo che tutti capiscano?”.
No, naturalmente! Spesso la presunzione di essere capiti non è che un modo di imbarcarsi nell’impossibile compito di essere onniscienti: sapere cosa gli altri pensano e sentono, sapere come prendono le cose che porgiamo loro.

Un delirio, insomma, e un’accozzaglia di sintomi che accompagnano “l’onniscienza”: il dolore di non sapere cosa l’altro pensa veramente, la gelosia per l’impossibilità di verificare i sentimenti: mi vorrà davvero bene? È davvero ammirazione o sta solo facendo così per farmi piacere? Leggerà ancora dopo aver letto questo?

Capita a chi scrive ma anche a chiunque si esprima con lo scopo di comunicare almeno un po’ e di non limitarsi a quei convenevoli che fanno sempre piacere. E non occorre essere nevrotici per imbattersi in questi ed altri sintomi connessi alla comunicazione e allo sforzo di “raggiungere l’altro”; e non basta una laurea in psicoterapia per affrancarsi dal rischio di sentirsi continuamente guardati.

Chi ci guarda è quasi sempre supposto, inventato, allucinato: è “il mio pubblico”, l’idea che mi sono fatto di quella determinata persona, la mia rappresentazione interna dell’altro. E’ interno: spesso la sovrapposizione di ricordi, di paure e preoccupazioni, di aspettative e desideri. Ed è sfuggente, nello stesso modo in cui lo sono stati gli interlocutori con i quali la nostra comunicazione non è andata a buon segno.

Ci portiamo dietro (e dentro) un cumulo di fallimenti: volte in cui siamo stati fraintesi, feriti, non capiti… memorie implicite, perlopiù: non tanto il chiaro ricordo di quella volta in cui volevo dire una cosa e ne è stata capita un’altra, quanto la sensazione che tanto non capirà, che mi sto imbarcando in una fatica di Sisifo… spiegherò inutilmente e con sforzo per ritrovarmi al punto di partenza.

Ed è come se le memorie implicite si personificassero: diventano un osservatore interno con cui facciamo i conti, un super-io a volte, (quanti capiranno qui il termine super-io? dovrò spiegarlo? divento noioso?). Questo osservatore interno diventa l’artefice del sovraffollamento della coscienza e, allo stesso tempo, il suo desertificatore: un tiranno impalpabile ma efficiente che prende con la fava del giudizio due piccioni: quello dell’occupazione abusiva della psiche da parte di osservatori non comprensivi e quello della solitudine del povero io incompreso.

La ricettività è invalidata da questo parametro con cui ci sembra di poter/dover misurare il nostro stato interno e la qualità delle nostre relazioni: siccome mi aspetto qualcosa, un riconoscimento, un plauso o almeno un cenno di consenso e siccome questo qualcosa non arriva comincio a sentirmi frustrato e a mettere in moto tutta una quantità di pensiero che mira a propiziare l’interlocutore.

Solo che l’interlocutore non è fuori! Non è la persona con cui potrei avere a che fare ma, piuttosto, ciò che suppongo che lui sia e ciò che suppongo che lui abbia.

Ha ragione lo psicoterapeuta Adam Phillips quando, parlando della frustrazione, dice: “Cosa significa sentirsi frustrati? Sentirsi ingannati perché, si presume, gli altri abbiano qualcosa che vogliamo (ed è in loro potere concedercelo).”

Ma non è detto; non è detto che ce l’abbiano e non è detto che possano o vogliano darcelo e, soprattutto, la nostra attenzione, così presa dal desiderio e così inconsapevolmente condizionata dalle aspettative, non si rivolge a loro ma al frustratore interno: la personificazione dei nostri desideri frustrati, il cumulo di memorie e di aspettative che condiziona la nostra sensibilità.

Ecco perché Bion suggeriva ai terapeuti di sforzarsi per essere il più possibile in una posizione “senza memoria e senza desiderio”: chiedeva, almeno a loro, di non caricare con le proprie aspettative e con le proprie idee precostituite la psiche del paziente; spiegava che lo stesso desiderio di guarire il paziente può diventare una richiesta: già lui vuole guarire, già il mondo gli chiede di essere normale, già una quantità di richieste interne lo tengono stretto in un mondo di aspettative frustrate.

Rendere consapevole questo continuo lavoro sotterraneo del desiderio è un compito fondamentale per chiunque voglia liberarsi almeno un po’ dal giogo della brama di fama, consenso, interesse, amore…
Non c’è niente di male nel desiderio se non il suo delirio di onnipotenza: il suo spingere verso l’oggetto anche quando l’oggetto non è lì, soprattutto quando l’oggetto non è lì o quando c’è ma, offuscato dalla luce del desiderio, scompare nel confronto con…, scolora nel contrasto, non viene colto, sentito, riconosciuto.

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