Il giovane si avvicinò al mare. Aveva acquisito un buon modo
di stare seduto ed un portamento eretto. Era in buona postura. Che cosa gli
mancava? Che cosa poteva insegnargli lo sciacquio delle onde? Si alzò il vento.
Il flusso e il riflusso del mare si fecero più profondi e ciò risvegliò in lui
il ricordo dell’oceano. In effetti, il vecchio monaco gli aveva pur consigliato
di meditare “come l’oceano” e non come il mare. Come aveva fatto ad indovinare
che il giovane aveva passato lunghe ore in riva all’Atlantico, soprattutto la
notte, e che già conosceva l’arte di accordare il proprio respiro al grande
respiro delle onde? Inspiro, espiro... poi: sono inspirato, sono espirato. Mi
lascio portare dal respiro, come ci si lascia portare dalle onde... Così, faceva
il morto portato dal ritmo della respirazione oceanica. Ciò l’aveva condotto
talvolta sull’orlo di strani deliqui, ma la goccia d’acqua che una volta “si
dileguava nel mare” oggi custodiva la propria forma, la propria coscienza. Era
l’effetto della postura? Del suo radicamento nella terra? Non era più portato
dal ritmo profondo della respirazione. La goccia d’acqua conservava la propria
identità e tuttavia sapeva di “essere una” con l’oceano. È così che il giovane
uomo imparò che meditare è respirare profondamente, è abbandonare al suo corso
il flusso e riflusso del respiro.

Nel fondo del suo respiro non c’era forse la “Ruah”? Il
“pneuma”? Il grande respiro di Dio?
“Colui che ascolta
attentamente la sua respirazione - gli disse allora il vecchio monaco Serafino - non è lontano da Dio. Ascolta chi giace
al limite della tua espirazione. Ascolta chi si trova al principio della tua
inspirazione”. Effettivamente c’erano al principio e alla fine di ogni respiro
alcuni secondi di silenzio, più profondi del flusso e riflusso delle onde,
c’era qualcosa che l’oceano sembrava portare...
- da “L’Esicasmo” di Jean-Yves Leloup -
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