venerdì 11 maggio 2012

Psicologia e dintorni


Dall’empatia alle condotte sociali altruistiche.
La psicologia evolutiva ci insegna che i comportamenti altruistici sono comparsi prima della capacità di esprimere emozioni e di sentire empatia verso gli altri. Le api che si sacrificano per proteggere l’alveare dall’attacco di un calabrone o i segnali di allarme che lanciano gli uccelli per allertare di un pericolo i propri simili sono due esempi di comportamenti altruistici che non riposano sull’empatia. Non possiamo dunque dire che l’empatia ha favorito la comparsa dei comportamenti sociali, dato che gli insetti sociali hanno comportamenti  altruistici senza empatia. Al contrario, la capacità di percepire gli stati emotivi dei propri simili e di rispondere in maniera appropriata ha portato, nei mammiferi, a un vantaggio adattivo evidente per la sopravvivenza dell’individuo e del gruppo. Nell’uomo numerosi studi di psicologia sociale indicano che l’empatia è un fattore che favorisce i comportamenti prosociali. Fra i 7 e i 40 anni la rete neuronale che reagisce al dolore degli altri subisce diversi cambiamenti: l’attività dell’insula posteriore, dell’amigdala e della corteccia orbitofrontale mediana diminuisce con l’età mentre quella laterale aumenta. Una simile evoluzione riflette il passaggio di una risposta emotiva viscerale, che serve ai bambini per analizzare il significato affettivo degli stimoli, a una funzione più valutativa nell’adulto, che fa appello ai ricordi, ai giudizi morali e ai cambiamenti di punto di vista per modulare le reazioni di empatia.
Numerosi studi di visualizzazione cerebrale hanno mostrato che il “circuito della ricompensa”, che sottintende alla percezione del piacere e rinforza i comportamenti che gli sono associati, si attiva nello stesso modo sia quando una persona riceve una somma di denaro che quando decide di donarla a una fondazione benefica. Inoltre le donazioni sono più elevate quando il donatore è in presenza di altre persone: l’attivazione dello striato ventrale è modulata dalla presenza di altri. Tutto ciò non è cosi sorprendente, dato che, nell’anima sociale, essere osservato dagli altri è una situazione naturale, e la sensibilità alle reazioni del gruppo, una forma di “ricompensa” sociale,  è un aspetto fondamentale dei comportamenti prosociali.
Cosi le condotte altruistiche derivano da una pluralità di motivazioni. Lo spettacolo della sofferenza altrui innesca l’attivazione della rete neurale che si occupa delle reazioni di avversione. Questo può promuovere condotte di aiuto o di conforto, che possono essere motivate dal desiderio di sopprimere il fastidio che la vista della sofferenza altrui può suscitare. Queste condotte possono ugualmente essere motivate e rinforzate dall’effetto positivo dell’approvazione sociale, che è fisiologicamente gratificante, perché attiva le aree cerebrali responsabili della percezione del piacere.

Le generalità della condotta prosociale 



Altruismo ed egoismo: caratteri di personalità o risposte all’ambiente?

Non esistono in realtà individui dotati di altruismo “in assoluto; la psicologia sociale sottolinea come i comportamenti d’aiuto dettati dall’altruismo siano piuttosto il risultato dell’interazione tra le caratteristiche personali di ogni individuo e le specifiche situazioni di vita che egli si trova ad affrontare. Ciò vuol dire che le persone possono essere guidate dall’altruismo e fornire aiuto in un determinato contesto ma non in un altro. Assistere insieme ad altri ad episodi di violenza o di pericolo può paradossalmente inibire tutti dal prestare aiuto, perché nessuno si ritiene l’unico responsabile (diffusione della responsabilità); perché le circostanze possono essere ambigue e creare incertezza e perché si teme, intervenendo per primi, che la propria condotta d’aiuto possa essere giudicata dagli altri inappropriata. Inoltre per decidere di aiutare gli altri è necessario rendersi conto della situazione di pericolo e stabilire se e quali condotte d’aiuto attivare in base alla percezione delle proprie possibilità.

L'altruismo: le motivazioni dei comportamenti prosociali

I comportamenti prosociali, infatti, muovono da motivazioni come lo stesso altruismo, l’empatia, la reciprocità, l’innalzamento dell’autostima e la gratitudine, ma comportano anche uncosto in termini di stress, tempo, pericolo per sé stessi: si fornisce aiuto solo se la percezione dei benefici provocati dal proprio altruismo supera i costi ad esso associati. Come osserva Serge Moscovici (1994), esibire oggi comportamenti prosociali dettati da altruismo sembra quasi “controtendenza” in una società fondata sul primato dell’interesse e del successo individuale, in cui è l’egoismo la norma culturale dominante.

In questo senso, molti sono gli studi avviati negli ultimi anni su programmi per educare alla prosocialità orientati a sviluppare comportamenti prosociali e condotte d’aiuto soprattutto nelle scuole dove sono sempre più frequenti episodi di bullismo messi in atto da alcuni ragazzi, ma spesso tacitamente tollerati da tutti i compagni che raramente intervengono o denunciano la situazione. I comportamenti prosociali e le condotte d’aiuto in genere, per venir adottate stabilmente, necessitano pertanto di un più ampio mutamento culturale che sostenga una reciprocità positiva nelle relazioni interpersonali quale salvaguardia dell’identità, sviluppo e creatività di tutti i soggetti implicati (Roche, 1991).

Fonte immagine: katerha
 
LO STUDIO DEL COMPORTAMENTO PROSOCIALE: LE ORIGINI
Il comportamento prosociale è un argomento di studio attualissimo, anche se la sua esistenza è antica quanto la storia dell’umanità (già nel prendersi cura della prole, infatti, si possono rintracciare elementi che fanno ritenere gli individui come intrinsecamente capaci di poter accudire gli altri, facendo loro del bene). Esso fa riferimento  in termini generici ad un’azione gratuita che produce un beneficio in chi la riceve[1], delineando una categoria globale che raggruppa in sé diversi tipi di espressioni comportamentali e relazionali [2] come, ad esempio, l’aiuto, le condotte interconnesse con il perdono, le donazioni gratuite, le manifestazioni di solidarietà, ecc.
Pur se antico quanto l’uomo, ad un livello di studio specialistico e di definizione, l’interesse per il comportamento prosociale si colloca sorprendentemente solo a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Il motivo di questo ritardo probabilmente è da rintracciarsi nell’umana disposizione a focalizzarsi prima di tutto sui problemi e sulle difficoltà e, in un secondo momento, sulle risorse e possibilità. Prima di arrivare a studiare i comportamenti positivi, infatti, l’interesse degli psicologi era incentrato soprattutto sullo studio dell’aggressività e delle possibili strategie volte a ridurla o limitarne gli effetti negativi, perché questa era l’emergenza sociale che andava affrontata[3]. La logica seguita era perciò molto simile all’istinto di un poliziotto che incontra un uomo intento a picchiare rabbiosamente qualcuno: prima si blocca l’emergenza e, successivamente, si può pensare a dialogare per capire cos’è successo, limitando così i danni. In un simile clima culturale, in cui l’interesse per la ricerca sull’aggressività raggiunge il suo culmine attorno agli anni Sessanta, lo sviluppo degli studi dei comportamenti sociali positivi (o prosociali) dovrà attendere due fatti che sconvolsero ed interessarono l’opinione pubblica americana, stimolando domande che esigevano risposte scientifiche.
È il 13 marzo del 1964. Il New York Times riporta l’assurda storia di Kitty Genovese che, davanti agli occhi di 38 testimoni, fu aggredita ed uccisa a coltellate nel parcheggio sottostante casa sua, senza che nessuno le prestasse alcun tipo di soccorso. Per ben due volte l’assalitore si allontanò da Kitty temendo che le sue urla facessero intervenire gli spettatori appostati alle finestre e, non vedendo nessuna reazione del vicinato, ritornò a più riprese per straziare la sua vittima. La prima telefonata fu fatta alla polizia da un anonimo dopo oltre 30 minuti. Quando i soccorsi giunsero era ormai troppo tardi, perché Kitty era già morta. Ci si chiese allora perché nessuno fosse intervenuto e perché, nonostante la protezione offerta dalle mura domestiche, tutti i testimoni esitarono nel chiamare subito la polizia. Le interpretazioni del periodo spiegarono il non intervento in termini di “sindrome da disastro”, “apatia”, “soddisfazione degli impulsi sadici”, “indifferenza” ed altro. Non convinti dalle motivazioni offerte dagli altri esperti, mostrando una grande sensibilità per un problema presente in tutte le culture occidentali (la mancanza di aiuto nei confronti di chi è in condizione di bisogno), gli psicologi Latan­é e Darley eseguirono una serie di esperimenti per giustificare il processo di scelta individuale che conduce ad emettere un atto di aiuto o, al contrario, a non intervenire [4]. Dal lavoro di questi ultimi autori, prese avvio la ricerca empirica sull’aiutare e l’altruismo [5].
In maniera diametralmente opposta, invece, si caratterizza la data del 1° luglio 1971. In tale data, prese avvio il programma di servizi volontari chiamato Action. L’ampia e inaspettata adesione dei cittadini al programma, fece sì che alcuni ricercatori cercarono di far luce sul perché le persone siano disponibili a voler svolgere servizi di aiuto gratuito per gli altri. Il programma Action costituì quindi un’occasione naturale di studio per molti autori e, in tal modo, contribuì ad un rapido sviluppo della ricerca sui comportamenti prosociali [6].
Nel primo caso era indubitabile che una qualche forma di intervento, magari una telefonata fatta prima, avrebbe potuto salvare la vita della donna assalita. La morte di Kitty si caratterizzava come il frutto di un controllo sociale che per varie ragioni era venuto a mancare, “legittimando” così l’aggres­sore. Nel secondo caso, invece, diveniva palese che la gente può essere dispo­nibile ad aiutare gli altri, anche gratuitamente. Da queste date e da queste premesse, l’interesse di studio degli psicologi si spostò, negli anni Settanta, dalla ricerca sui rimedi per limitare e ridurre l’aggressività a quella per il potenziamento dei comporta­menti prosociali.
In un primo periodo, lo studio dei comportamenti prosociali è stato approfondito soprattutto negli Stati Uniti. A cavallo degli anni Ottanta il tema è diventato di importanza internazionale: in Polonia è stato trattato soprattutto per le sue componenti altruistiche; in Germania, in Inghilterra e in Canada, particolarmente analizzato per gli aspetti più teorici. In Italia, invece, lo studio sui comportamenti prosociali è stato avviato verso la metà degli anni Ottanta, grazie ad una equipe di psicologhe dell’università di Napoli [7].
Attualmente, l’interresse verso tale ambito di ricerca è talmente grande che, in campo nazionale ed internazionale, ogni anno vengono pubblicate centinaia di ricerche in merito all’argomento. Tuttavia, a livello di cultura di massa, il concetto di prosocialità stenta ancora a diffondersi, almeno in Italia. Fino al 2006, infatti, il comportamento prosociale veniva ignorato anche da dizionari con una buona reputazione (sia per il sostantivo di prosocialità che per l’aggettivo di prosociale) [8].
In un periodo storico in cui in Italia, in Europa e nel mondo si ritorna tanto a parlare di aggressività, di violenza, di bullismo, di mobbing, di conflitti o altro, con questo scritto si è voluto ricordare che la prosocialità esiste e, da circa trenta anni, esistono anche strumenti e percorsi fondati sulla ricerca scientifica, il cui scopo è quello di promuovere l’umana disposizione a far del bene e rispettare l’altro, in un’ottica che si dissocia del puro utilitarismo e pone in rilievo l’essere umano ed il benessere sociale.
Cristian Pagliariccio



EDUCARE ALLA PROSOCIALITÀ: IL RUOLO DELLE ABILITÀ COGNITIVE IN ETÀ PRESCOLARE

Per insegnare prosocialità e altruismo non basta trasmettere il giusto messaggio, ma occorre capire anche come renderlo più comprensibile 
Di Francesca Cilento
Educare alla prosocialità: il ruolo delle abilità cognitive in età prescolare

Anche in Italia sembra ormai essersi diffuso il fenomeno del bullismoche fino a poco tempo fa era più tipico dei telefilm americani. Per contrastare questa tendenza, un filone di studi sta cercando di comprendere come si sviluppino i comportamenti prosociali fin dall’infanzia. Si parla di prosocialità quando i bambini, senza cercare di ottenere delle gratificazioni o dei vantaggi, favoriscono gli altri o si adoperano per il raggiungimento di obiettivi sociali.

Educazione alla prosocialità

Educare i bambini alla prosocialità vuol dire andare oltre la semplicecooperazione. Cooperare significa adottare un atteggiamento che attivi negli altri un comportamento favorevole. A ciò si deve aggiungere la tendenza a non aspettare che gli altri facciano la prima mossa, né a fermarsi nella cooperazione aspettando che l’altro contraccambi. Si tratta di mettere  a punto un percorso che consideri diverse abilità. Una delle componenti che sembra essere maggiormente collegata alla capacità di agire in modo prosociale è l’empatia.

Essere prosociali o diventare prosociali?

Nella speranza di avere generazioni future di adulti prosociali, alcune ricerche hanno cercato di stabilire quali fattori (interni ed esterni) influiscano sulla responsività empatica dei bambini in età prescolare.

Da un punto di vista interno l’Effortful Control (capacità di regolare il comportamento sostituendo un comportamento dominante qualora il contesto lo richieda) sembra essere un altro elemento determinante. Un’alta capacità di autoregolazione si associa a un alto tasso di prosocialità ed empatia. Questa indicazione però non è molto utile in campo educativo, in quanto riguarda un tratto stabile che non può essere facilmente modificato. 

Più interessanti sono gli studi che si concentrano sul ruolo dei fattori contestuali. Secondo il modello teorico di Bischof-Köhler (1991), psicologa dello sviluppo, nel corso dell’età prescolare i bambini migliorano il funzionamento cognitivo e riescono a padroneggiare più informazioni. Se a 3 anni la semplice visione di emozione può suscitare empatia, in poco tempo questa informazione da sola non è più sufficiente. A partire dai 5 anni, per rispondere in modo prosociale i bambini hanno bisogno che l’espressione emotiva di un bambino o adulto sia spiegata da elementi di contesto. Da questa età in avanti occorre spiegare l’origine di un’emozione perché si comportino empaticamente, altrimenti i bambini rispondono con comportamenti autocentrati.

Prosocialità e sviluppo cognitivo

I programmi educativi alla prosocialità non possono evitare di considerare lo stadio di sviluppo del bambino. Riconoscere che esistono delle tendenze individuali non basta, occorre comprendere quali siano le informazioni cui i bambini sono più sensibili affinché recepiscano il messaggio. Questo significa fare riferimento a un modello complesso che consideri contemporaneamente abilitàaffettive, cognitive e comportamentali 



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