domenica 25 marzo 2012

Storie da raccontare

 


  
"Ci sono giorni memorabili nelle nostre vite in cui incontriamo persone che ci fanno fremere come ci fa fremere una bella poesia, persone la cui stretta di mano è colma di tacita comprensione e il cui carattere dolce e generoso dona alle nostre anime desiderose e impazienti una pace meravigliosa. Forse non le abbiamo mai viste prima e magari non attraverseranno mai più il sentiero della nostra vita; ma l’influsso della loro tranquillità e umanità è una libagione versata sul nostro malcontento, e sentiamo il suo tocco salutare come l’oceano sente la corrente della montagna che rinfresca le sue acque salate".
(Helen Keller) 


     "Quando la porta della gioia si chiude, subito se ne apre un'altra; ma spesso restiamo incantati a guardare la porta chiusa, e non ci accorgiamo di quella aperta".

Helen Keller, una bambina nata il 27 giugno del 1880, cieca e sorda a 19 mesi, forse a causa di una scarlattina o più probabilmente per una meningite, vive un mondo tutto suo e la famiglia, per quanto benestante, non sa come affrontare la sua situazione, se non assecondandone ogni comportamento e cercando di semplificarle le cose. Quando Helen ha circa 6 anni, discutono seriamente come affrontare la sua educazione, avendo rinunciato definitivamente ad ogni speranza di guarigione. L'ostinato rifiuto della madre di rinchiuderla in un istituto che l'avrebbe affiancata a malati mentali d'ogni genere, porta ad assumere una educatrice personale.
La storia di Helen Keller e di Anne SullivanIl.  6 marzo 1887,  Annie Sullivan fu chiamata a dedicarsi a Helen. Annie proviene da un istituto per ciechi, oltre che da una difficile infanzia da orfana. E’quasi completamente guarita dalla cecità, ha studiato molto ed ha un carattere fortissimo. Helen aveva trascorso la maggior parte del tempo in grembo alla propria madre che, con sensibilità amorosa, veniva incontro a tutte le necessità. Tra maestra e allieva, Annie volle però una rigida gerarchia. Fu una fatica, attraverso veri e propri scontri fisici, e a volte persino a suon di schiaffoni. Rischiò a quel punto di essere estromessa, ma infine rimase. Helen con due gesti semplici, esprimeva solo il desiderio di mangiare e di bere. Annie le cominciò a scrivere sul palmo della mano delle frasi; le regalò una bambola e le sillabò nel palmo la parola. Applicò poi lo stesso procedimento con gli oggetti più diversi, rifiutando di servirsi di immagini simboliche semplificate, ma utilizzando fin dall’inizio il normale linguaggio alfabetico. Helen imparò a riprodurre il segnale e a rimandarlo. Non era ancora giunta ad astrarre le lettere contenute nell’immagine complessiva della sequenza di stimoli tattili, che poi riproduceva a sua volta, in modo inizialmente incompleto, eppure riconoscibile. Il 20 marzo Helen cercò di comunicare con il suo amato cagnolino scrivendogli sulla zampa. Il 31 marzo conosceva diciotto sostantivi e tre verbi e aveva cominciato a chiedere il nome delle cose, che portava alla maestra porgendole il palmo della mano perché vi scrivesse sopra. La bambina aveva quindi un’evidente esigenza di appropriarsi di tali collegamenti mentali.

Il momento fatidico
Helen non afferrava il principio del simbolismo, confondeva sostantivi e verbi, la cosa e l’azione. Non conosceva ad esempio il termine che indicava il bere, s’aiutava compiendo la pantomima del bere. Il passo successivo fu drammatico. Una mattina mentre Anne la lavava, le chiese come si chiamava l’acqua, e lei la sillabò. Poi le venne un’idea, la portò sotto il rubinetto con il suo bicchiere e quando si riempì e l’acqua fredda le scese sulla mano, sull’altra mano le picchiettò con le dita la parola acqua, con un ritmo corrispondente. Helen s’illuminò, sembrò perplessa, rimase ferma come una statua, immobile, fece cadere il bicchiere a terra. I suoi lineamenti si trasformarono e presero una luce del tutto nuova. Sillabò la parola acqua sulla mano. Scriverà poi da adulta: “Ad un tratto passò in me un ricordo indistinto, nebbioso, un lampo del pensiero che ritornava e fu svelato innanzi a me il segreto della  parola: avevo capito che “acqua”  significava quel qualcosa di fresco che scorreva sulla mia mano e questa parola destò la mia anima, le diede luce speranza, piacere, sciolse le mie catene”... Io stavo in piedi, immobile, e tutta la mia attenzione era concentrata sui movimenti delle sue (di Anne) dita. Improvvisamente, sentii una vaga consapevolezza, come di un qualcosa di dimenticato, il brivido di un pensiero che stava tornando, e, in qualche modo, il mistero del linguaggio mi si rivelò in pieno”…“Una piccola parola ‘acqua’ cadde dalle dita di un’altra nella mia mano che stringeva il nulla e il mio cuore sussultò nell’estasi di sentirsi vivere.”  Ed ecco invece la descrizione di quel momento di Anne: “Si accovaccio toccò la terra e chiese come si chiamasse, poi la pompa dell’acqua, il cancello… poi si voltò di colpo verso di me e chiese il mio nome….come un elfo volava da un oggetto all’altro, chiedeva il significato di ogni cosa e mi baciava per la gioia”.

Imparare a pensare
Accade dunque che due simultanee esperienze tattili, delle quali l’una veicola l’oggetto-acqua e l’altra il concetto-parola che gli corrisponde, generò nella mente una confluenza di sensazioni da cui scaturì un’astrazione improvvisa, un’intuizione. L’intelletto corporeo o immaginale, produce astrazioni che per quanto oggettive, e appunto astratte, sono in realtà fortemente embricate a sensazioni ed emozioni aderenti alla soggettività del corpo e alla realtà concreta. Al momento della nascita il bambino è già dotato della capacità di apprendere e impara da solo, a patto però, che non gli manchino i necessari stimoli esterni; impara a parlare perché non può fare altrimenti, esattamente come un uccello impara a volare. Impariamo, un po’ come un lessico, i simboli delle cose e le relazioni fra di esse, e ciò che abbiamo appreso viene inserito in una cornice preesistente, senza la quale non saremmo in grado di pensare in quel modo, senza il quale non faremmo parte dell’umanità. La straordinaria velocità con cui si è sviluppato il pensiero concettuale in Helen Keller dimostra soprattutto che in questo caso non si trattava di costruire qualcosa che mancava, ma di mettere in azione qualcosa già esistente, che non aspettava altro che di essere attivato. “Sarebbe una fatica di Ercole” scrive la Sullivan “cercare di insegnare a un bambino delle parole la cui immagine non fosse già presente nel bambino” (Lorenz K. (1973) L’altra faccia dello specchio, tr. it. 1991, gli Adelphi,  Milano, 313). Ecco perché è così difficile far dire due parole a una scimmia.

Helen e il successo
Helen sogna di diventare una grande scrittrice. I suoi articoli, che sono il racconto della sua vita  e dei suoi progetti, furono pubblicati nel Ladie’s Home Journal di Filadelfia e furono  pagati somme eccezionali. Il suo libro “Storia della mia vita” ebbe successo enorme, fu tradotto in molte lingue , immesso in tutte le biblioteche e trascritto in Braille (Keller H. (1903), La storia della mia vita, Milano, Paoline, 1981).
Nel 1962 venne girato un film sulla vicenda, The Miracle Worker, di Arthur Penn, con Anne Bancroft nel ruolo di Anne, e Patty Duke in quello di Helen. Entrambe le attrici vinsero l'Oscar per la loro toccante interpretazione. In Italia, la vicenda venne trasposta in un film-tv, interpretato da Anna Proclemer e dalla undicenne Ottavia Piccolo. Il celebre dramma The Miracle Worker di William Gibson tradotto in italiano in Anna dei miracoli che venne messo in scena per la prima volta nel 1975 negli Stati Uniti.
Il 5 giugno 1968, circondata dai familiari, Helen morì serenamente ventisei giorni prima che compisse gli ottantotto anni nella sua casa di Westport nel Connecticut, costruita sull’area di quella distrutta dall’incendio subito dopo la guerra .
Nella vecchia casa tutto era andato perduto: gli scritti, i libri, le cose care della famiglia; solo un albero del giardino bruciato a metà, l’albero di Annie era germogliato di nuovo.

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