mercoledì 1 maggio 2013

Tratto da "Ciascuno è perfetto" di Raffaele Morelli


È tutto qui.
Vi sono autori dimenticati, rimossi, oppure letti soltanto perché suscita clamore quel che superficialmente si dice del loro pensiero, pur restando di fatto autori che nella nostra cultura hanno un ruolo di comparsa. Uno di questi è Alan Watts, a cui si deve la diffusione del pensiero zen nel mondo occidentale. Di questo pensiero ci piace ricordare le storielle, i paradossi, la figura emblematica del Maestro o del Saggio, sempre pronti a lasciare stupefatto l'allievo. Ma in effetti ne abbiamo compreso ben poco, benché poi ci piaccia citarlo in qualche salotto elegante, e nemmeno ci sfiora l'idea che quel signore di nome Watts volesse invece regalarci una possibilità diversa di stare al mondo e di vivere la nostra vita. Sempre più spesso, al giorno d'oggi, quando ci capita di venire in contatto con un modo di pensare diverso dal nostro, lo orecchiamo appena e poi disinvoltamente concludiamo che è troppo complicato o che quanto proposto non è realizzabile nella nostra cultura o, ancora, tiriamo in ballo la nostra esistenza stressante, incompatibile con questa o quel l'altra filosofia di vita. In realtà ho la sensazione, e me ne accorgo durante la psicoterapia, che noi non ascoltiamo mai veramente ciò che l'altro dice o scrìve. Se si tratta di nostri amici o persone a noi vicine la scusa è che tanto sappiamo già dove vanno a parare; se si tratta invece di libri o pensieri lontani dai nostri, li approfondiamo o meno, adattandoli però ai nostri schemi mentali. Anche per quel che concerne la filosofia zen, la leggiamo per ritrovarci il nostro modo di pensare. Il risultato è che ci priviamo della possibilità di aprirci al suo vero messaggio: imparare a fare ciò che è in realtà semplicissimo. Watts scrive che lo Zen "è una medicina per i sinistri effetti" di tutti i condizionamenti e gli atteggiamenti del mondo occidentale, "per la paralisi mentale e per l'ansietà che provengono da un'eccessiva coscienza di sé". Egli mette in luce l'ipertrofia del l'Io, il suo eccessivo sviluppo, tipico della nostra cultura. Ma quale sarebbe in realtà l'essenza dello Zen? Essa si può racchiudere in quattro parole: mai nessun secondo pensiero: una visione del mondo che non potrebbe insegnare nulla di più semplice. Si può tradurre così: qualsiasi cosa tu stia facendo sì, proprio qualsiasi è perfetta così com'è. Non c'è un gesto migliore di un altro; in ogni azione che compi non c'è un secondo fine. Vado a trovare Michele, non perché mi deve dare dei soldi o per parlargli di qualcosa. Vado a trovare Michele e basta! Se in ogni cosa che faccio non ci deve essere mai un secondo pensiero, ogni azione è tutto e io non sono nient'altro che l'azione che sto compiendo. '"Nel camminare, camminate. Sedendo, sedete. Soprattutto non tentennate.' Poiché la qualità essenziale della naturalezza è la sincerità della mente in divisa che non oscilla fra alternative." Insomma, il senso profondo dello Zen è che il mondo è tutto qui, che non c'è alcun fine da perseguire, alcuna meta da raggiungere e che non occorre fare alcuno sforzo per migliorarci, perché non c'è niente di noi che non vada bene. Non c'è niente di svalutativo nello Zen, non è una visione del mondo basata sul giudizio, ma semplicemente sull'essere presenti a ciò che facciamo. È tutto qui sintetizza in modo perfetto che tutto l'Universo è presente in ogni nostra azione. Scrive Sheldon B. Kopp: "IL giovane monaco chiede: 'Che cos'è lo Zen?'. Il Maestro risponde: 'Far friggere dell'olio sul fuoco ardente. Il giovane monaco chiede: 'Come posso fare a vedere la verità?'. Il Maestro risponde 'Con i tuoi occhi di tutti i giorni". È tutto qui significa che il tutto è qui, in ogni istante, e che il mondo si sta creando adesso. Mentre ogni religione si fonda sul passato, sulla ricorrenza, sulla memoria, lo Zen si abbandona alla vita ora, così com'è, senza schemi, pregiudizi, certezze, senza alcuna teoria, senza credere in nulla. È tutto qui. Non c'è nello Zen alcun riferimento alla crescita spirituale: la ricerca di perfezione è anzi ritenuta la causa principale del nostro malessere e dei nostri disagi. In una psicoterapia che si ispira al pensiero zen è fondamentale non cercare di migliorare, non man dare via quelli che noi chiamiamo disagi. Un grande terapeuta impara l'arte di lasciare tutto così com'è, dentro se stesso e dentro gli altri. Solo così cessa la guerra interiore. Ecco in proposito un'antica poesia zen:
La perfetta Via (Tao) è priva di difficoltà, Salvo che evita di preferire e di scegliere. Solo quando siate liberi da odio e da amore Essa si svela in tutta la sua chiarezza. Una distinzione sottile come un capello E cielo e terra sono separati! Se volete raggiungere la perfetta verità. Non preoccupatevi del giusto e dell'ingiusto. Il dissidio fra giusto ed ingiusto è la malattia della mente.
Perciò il Maestro zen non è buono, non è dolce, spesso ha un brutto carattere, si arrabbia senza motivo. Ha imparato a non castigarsi, a non lottare con se stesso, a guardare ogni cosa che gli accade senza alcun secondo pensiero, senza chiedersi se sia giusta o sbagliata e, soprattutto, ha imparato a guardarla È tutto qui, creato adesso e quindi tutto ciò che capita, capita adesso. Tutto il contrario di quello che facciamo noi, figli dell'Occidente, che continuiamo a collegare, e a paragonare, il presente con il passato, a credere in qualcosa o in qualcuno, a valutarci, a giudicarci, a stimarci o a disistimarci. Secondo lo Zen invece io vengo creato in questo momento e ogni cosa che mi succede è come un'onda del mare che si frange sui miei piedi. Se passiamo il tempo a "spiegare" l'onda che è appena arrivata, non ci accorgiamo della nuova che sta già per incalzarci. Se non stiamo immersi nel presente, ci ritroveremo sempre a cavalcioni del l'onda sbagliata o di quella che ormai non c'è più o di quella che non arriverà mai, come succede a quelli di noi che pensano sempre al futuro. In questa metafora l'unico vero protagonista è il mare, in cui la vita di ogni uomo è come un'onda, dove la prima non è uguale alla seconda, né alla terza, pur essendo onde dello stesso mare. E visto che il protagonista è proprio il mare, tanto vale che impariamo il più in fretta possibile a lasciare fare all'acqua. Lo Zen insegna che il vero grande segreto della vita è essere sempre lì dove sei, completamente abbandonato a ciò che sta accadendo. Chuang Tzu sostiene che: '"L'uomo perfetto usa la propria mente come uno specchio, che non s'impadronisce di nulla, che non rifiuta nulla: riceve ma non trattiene".5 Insomma bisogna imparare a considerare anche  gli eventi della vita come immagini che vengono e vanno su una superficie riflettente. Mai nessun secondo pensiero significa che non c'è qualcosa o un momento più importante di altri né vi sono situazioni decisive. Basta stare dove si è, veramente seduti su ciò che sta accadendo, senza cercare di cambiare le cose, imparando "dai bambini, dalle bestie, dalle piante l'arte semplice e gioiosa di non vivere che in vista della vita", come dice Marcel Granet. Ma l'essenza dello Zen si spinge oltre. Questa filosofia raccomanda di non lasciare spazio a nessun, secondo pensiero perché la nostra presenza nelle cose è determinante, decisiva. Perché? Che potenza avrà mai questo nostro essere veramente e soltanto in quello che ci accade? Cosa potrebbe succederci di così profondo, di così significativo, se quando amiamo non abbiamo alcun secondo pensiero, se quando siamo in bagno siamo presenti alla secrezione dei nostri escrementi, se quando siamo in auto guidiamo e basta, senza avere in mente la meta né il fine del viaggio? Semplicemente, cominceremo a utilizzare altre funzioni del cervello, che secondo Schwaller de Lubicz, grande egittologo e simbolista, "è il laboratorio di Seth, potenza che contrae, questo Satana che imita, cioè 'scimmiotta in un quadro limitato ciò che si realizza nell'illimitato. [...] Elimina la presenza cerebrale o incanta il cervello, e il tuo potere diventa immenso: le tue membra non si affaticano più, il peso non ha più gioco, non provi più vertigini" . È un invito a non usare più alcuno degli strumenti conosciuti: quando stiamo con noi stessi non ha più senso che pensiamo, che ci chiediamo il perché delle cose, che cerchiamo di riflettere su ciò che ci è capitato. Perde di consistenza, di significato tutto il colore della Storia e più che mai quello della nostra storia. Tutti i commenti, tutte le spiegazioni che diamo di continuo ai fatti che ci accadono non hanno, insomma, niente a che vedere con lo Zen. Qualche giorno fa un mio conoscente mi ha raccontato di aver risposto al proprio figlio che lo rimproverava per avergli detto una cosa sgradevole: Sai, parlavo tanto per parlare». Eppure, spiega il grande pensatore russo Pavel Florenskij, la parola è come un seme e rappresenta, istante per istante, "il momento fisicochimico che corrisponde al corpo, [...]. Ma noi siamo inclini a stimare poco il corpo della parola e a ritenere che sia qualche cosa di insignificante. Spesso diciamo 'è solo parola, è soltanto una parola".  Anche a me capita spesso di pensare che diciamo il novantanove per cento delle cose "tanto per parlare" o per avere qualcosa da dire o, ancora, per allontanarci da ciò che sta accadendo. I condizionali, le ipotesi, gli obiettivi non hanno più significato di fronte alla consapevolezza dell'uomo zen. Che senso ha parlare di ciò che non c'è, che senso ha parlare d'altro, se tutto ciò che sta accadendo è qui, se le forze del mondo stanno danzando dentro e intorno a me, adesso? Eppure, comunemente, siamo abituati a parlare con Roberta e a pensare ad altro, oppure a fare l'amore con Francesco e a godere pensando a Marco, come abitualmente mi raccontava Michela durante la psicoterapia. "Che cosa mi accadrà mai di terribile se si affacciano questi famosi secondi pensieri?" mi chiedevo un tempo, "Perché non posso fare una cosa e pensarne un'altra?" Nella nostra tradizione i peccati e i precetti sono ben altri, per lo Zen, invece, ciò che conta è non pensare a nient'altro se non a ciò che stiamo facendo. Allo Zen non sembra interessare il valore morale che diamo alla nostra vita, se facciamo o meno beneficenza, se abbiamo successo, se siamo felici, se abbiamo un buon rapporto con i nostri figli, se siamo contenti dei nostri comportamenti, se il lavoro va bene. Allo Zen non interessa neppure se crediamo o meno in un'entità superiore, se siamo piccoli o grandi peccatori, se abbiamo letto i libri giusti. E nemmeno se stiamo mettendo in ordine la nostra vita o se stiamo ricominciando daccapo, come ognuno di noi ama ripetere a se stesso, lasciando poi alla fine tutto così com'è. Per lo Zen non è neppure importante se lasciamo le cose a metà, se non portiamo mai a termine i progetti che ci siamo messi in testa di realizzare. "Ma il maestro" scrive Watts "sorveglia come il giardiniere osserva la crescita di un albero, e desidera che il suo allievo si comporti come l'albero: un atteggiamento di crescita senza scopo, in cui non vi siano scorciatoie poiché ogni tappa del cammino è tanto un principio quanto una fine. [...] Per quanto sembri paradossale, la vita piena di scopi non ha contenuto, non ha senso. [...] la mentalità taoista non produce o non forza nulla ma 'fa crescere tutto." Per il Saggio, secondo Granet, tutto è puro. Se non c'è nessun secondo pensiero noi siamo in ogni cosa una presenza incontaminata. "I Maestri mistici" scrive ancora Granet "affermano che questo stato di grazia magica è lo stato di natura, quello del vitello appena nato. Le più belle imprese sono compiute dagli esseri che si sono conservati più semplici."10 In fondo, tutte le tradizioni culturali religiose ci invitano a guardare in noi stessi, a essere presenti a ciò che accade dentro di noi. La religione cattolica, per esempio, ci fa fare l'esame di coscienza, come tutti noi abbiamo imparato da bambini in chiesa. Questo ci porta a giudicare i nostri atti, a stabilire se siamo bravi o cattivi, proprio l'opposto di quello che insegna lo Zen. La presenza a se stessi di tradizione zen è solo uno sguardo verso la nostra interiorità, nient'altro; è la percezione che siamo lì, nelle cose che stiamo facendo; significa lasciare tutto dentro di noi, così com'è, osservandolo semplicemente. Non c'è niente, ma proprio niente, da rimettere a posto, da migliorare. Anzi, sarebbe veramente pericoloso realizzare qualsivoglia forma di miglioramento, perché finiremmo per assomigliare all'ideale che ci siamo messi in testa. Finiremmo per diventare caricature di noi stessi.

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