martedì 4 settembre 2012

Scuola e dintorni...

L’uomo: i piedi sulla terra, lo sguardo verso il cielo
(di Alessio saccà)



1.     Il mito – caratteri generali

Circa 70 milioni di anni fa, proseguendo per un albero filogenetico che affonda le sue radici alle origini della vita sulla terra, ha origine il ramo dei primati, ordine di cui fanno parte con l’uomo tutte le scimmie.
L’evoluzione del genere umano parte dalla specie più antica, l’Australopithecus (4 milioni di anni fa), giunge alla nascita dell’Homo habilis, creatore della prima coltura, segue l’Homo herectus per arrivare fino all’Homo sapiens, ed infine l’Homo sapiens sapiens, l’artista delle caverne e delle grotte e l’inventore dei primi simboli. Lo studio di questi simboli ha permesso di vedere la nascita e la crescita dell’uomo religioso e la manifestazione della sua coscienza religiosa.
La volta celeste e la simbologia cosmica fanno nascere nell’uomo arcaico il sentimento dell’esistenza di una trascendenza che si è manifestata in maniera visibile dal momento in cui egli seppellisce i defunti, sviluppa riti di iniziazione,  culti funerari, e inventa i miti.
Di fronte all’uomo primitivo, la vita, la natura e le sue forze, tutto ciò che lo circonda, appare come un turbinio di immagini senza senso. Egli non conosce le leggi che governano la natura, le cause della vita e della morte, del bene e del male. Davanti a questo universo di immagini incomposte, che la natura e la vita gli propongono ogni giorno, rischia di perdersi, di cadere preda dell’ansia e della paura. Sarà il mito, dunque, a fargli trovare il senso della realtà ed a costruire l’ordine di quelle forme, altrimenti incomprensibili. I miti rivelano l’ordine che regola la vita e la morte, i successi e le sconfitte,  l’origine degli astri e della terra,  delle piante e degli animali, l’alternarsi delle stagioni,  tutto ciò che è accaduto, che accade e che accadrà.
Il termine mito deriva dal greco mythos, che in Omero significa parola, discorso ma anche progetto, macchinazione. Il mito è dunque il discorso, la storia narrata sull’esistenza di esseri antropomorfi, spesso immortali e onnipotenti, che compiono azioni fantastiche, interessandosi a ciò che avviene tra i mortali e modificando il mondo e il corso degli avvenimenti con il loro intervento. Compare anche l’uomo, ma sotto due aspetti ben distinti, quello dell’uomo comune e quello dell’eroe. Gli eroi sono uomini dai poteri fuori dall’ordinario, coraggiosi, a volte figli di un di un dio e di una creatura mortale; veri superuomini che lottano per scopi nobilissimi; proiezione di tutto quanto l’uomo comune aspira ad essere.
Il mito è il bisogno dell’uomo di spiegare la realtà e costituisce la struttura sulla quale si fondano le credenze di un gruppo, di un etnos. Ad esso viene, perciò, attribuito un significato religioso e spirituale, considerandolo verità di fede.
Ogni civiltà fiorita sulla terra ha sviluppato fin dalle sue più lontane origini un vasto repertorio di miti che riflettono la cultura dei popoli cui appartengono e le modalità attraverso le quali essi hanno tentato di fornire un’interpretazione della realtà. Tra questi, i Veda[1], gli Egizi, i Greci e i Romani, che nella loro lunga storia hanno trovato in essi precisi punti di riferimento. Tramandato inizialmente in maniera orale dai depositari dei valori di un popolo, in genere i sacerdoti, il mito è stato poi fissato in forma scritta. Non è raro pertanto che di una narrazione mitica spesso esistano più versioni, o perché più scrittori l’hanno tramandata, oppure perché nel tempo si è modificata, visto che il passaggio alla versione scritta non ha posto fine alla tradizione di trasmettere oralmente il racconto che, passando di bocca in bocca, ha facilmente subito variazioni o ricevuto aggiunte.
A mettere in moto il meccanismo narrativo del mito, di solito molto semplice, è quasi sempre una situazione di contrapposizione o di scontro, in cui il protagonista positivo, l’eroe, deve affrontare le forze antagoniste che lo contrastano e lo ostacolano. L’eroe non giunge solo e disarmato al momento dello scontro decisivo: in suo favore intervengono divinità e presenze benevole, pronte a fornirgli gli strumenti indispensabili per poter superare difficoltà altrimenti insormontabili. Il tempo è sempre indeterminato, lontanissimo, anteriore alla nascita della storia. L’indeterminatezza non è dovuta solo all’impossibilità di definire il periodo in cui sono avvenuti i fatti, ma anche all’esigenza di attribuire alla narrazione un valore perenne, di eternità. Ciò che è avvenuto è dunque di tale importanza che ha, ed avrà, sempre valore.
La mitologia antica a noi più familiare è senz’altro quella greca. I greci furono grandi creatori di miti, tutti vivacemente popolati da divinità dotate si del requisito fondamentale dell’immortalità e di qualità fisiche e intellettuali superiori, ma in tutto simili agli esseri umani sia per la colorita caratterizzazione sia per passioni e debolezze.
Limpidamente suddivise sui gradini di una rigida gerarchia, spesso invidiose, vendicative, intriganti, esse dimorano sull’Olimpo, il più alto massiccio montuoso della Grecia, in Tessaglia, considerato dalla fantasia popolare un luogo di delizie e di sontuose dimore.
Capo supremo di tutti gli dei è Zeus, signore dell’Olimpo e dell’umanità, terribile gestore dei fenomeni atmosferici, amante di dee, ninfe e donne mortali nonostante la gelosa presenza della moglie Hera. Ai fratelli di Zeus , Poseidone e Ade, spetta rispettivamente il dominio del mare e il regno del sotterraneo mondo dei morti; le sue sorelle sono Demetra, dea dell’agricoltura, e Hestia, custode del focolare e della quiete domestica. Accanto a queste divinità maggiori, i miti greci collocano numerose divinità minori, semidei e creature fantastiche, quali fauni  e ninfe, ovunque diffuse per mare e per terra.


1.1.   Il mito e la rielaborazione nella letteratura

1.1.1.     Giacomo Leopardi e le canzoni giovanili

Dalla remota antichità, Ulisse e Fedro, Antigone e Oreste, Amore e Psiche, ci parlano ancora attraverso le opere dei moderni scrittori che ripropongono arcaici e misteriosi messaggi, caricandoli di nuovi significati. La loro voce è stata udita e rimodulata da scrittori e poeti quali Foscolo, Leopardi, Quasimodo, Sartre (nel teatro).  Dalla lettura delle pagine dello Zibaldone e delle Canzoni giovanili di Giacomo Leopardi, si rileva un’attrazione costante dell’autore per il mito.
Nello Zibaldone il termine favola ricorre frequentemente ed egli precisa che con questo termine Platone  definiva il suo sistema di idee. La favola è il mezzo attraverso cui, gli uomini antichi, i saggi elargivano il dono della verità. Favola è definito il mito di Prometeo che ruba il fuoco agli Dei per darlo agli uomini. Favola è anche il mito di Amore e Psiche. Così il mito è favola per Leopardi e da conoscitore e abile manipolatore qual è non esita a rielaborarlo e inserirlo nelle sue opere, in particolare nelle Operette Morali e nelle Canzoni giovanili, nelle quali il mito è la tela su cui tesse il suo intricato pensiero, per creare un tessuto letterario complesso ma omogeneo nella sua stratificazione. Il mito permette l’analisi della realtà e della natura umana, attraverso forme ed espressioni alternative a quelle reali e soprattutto esso è inalterabile, esemplare ed universale, eterno e perciò sacro.
Riutilizzare la fonte mitica in Leopardi significa non solo estrapolarla, ma adattarla alla sua capacità inventiva. Il mito è lo strumento che l’autore usa per ritornare all’antico, utilizzando l’immaginazione che corrisponde a quel senso di vago e di indefinito a lui tanto caro. L’atteggiamento di Leopardi verso il mito tradizionale è di emulazione, mai di sterile imitazione. Accoglie e rielabora la tradizione, rivisitandola sempre alla luce del suo pensiero, delle sue idee, delle sue osservazioni critiche, adattando la materia letteraria alle sue teorie. Il mito diventa instrumentum per esplicare le proprie convinzioni, materia da plasmare per dimostrare il suo pensiero. Esempi significativi sono le canzoni il Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo.
Le Canzoni furono composte tra il 1818 e il 1823 e pubblicate in un opuscolo a Bologna nel 1824. Si tratta di componimenti di impianto classicistico che impiegano il linguaggio aulico sublime e denso della tradizione,  con sensibili influenze soprattutto di Foscolo. Le prime cinque (All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone), composte tra il 1818 e il 1821, affrontano una tematica civile. La base di pensiero è costituita dal “pessimismo storico” in cui Leopardi vede la condizione negativa del presente come effetto di un processo storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità. Queste canzoni sono animate da acri spunti polemici contro l’età presente, inerte e corrotta, incapace di azioni eroiche, immersa in una “nebbia di taedium vitae”. Caratteristiche diverse possiedono il Bruto minore (1821) e l’Ultimo canto di Saffo (1822), le cosiddette “canzoni del suicidio”. Leopardi non vi parla più in prima persona ma delega il discorso poetico a due personaggi dell’antichità entrambi suicidi, Bruto, l’uccisore di Cesare, e la poetessa greca Saffo.
Il Bruto minore fu composto a Recanati nel 1821, dopo una lunga meditazione sul tema e soprattutto sulla scelta del personaggio. La figura del figlio adottivo di Cesare, che finì per essere il capo della congiura assieme a Cassio, era per tradizione storiografica latina il simbolo stesso della virtù antica; Bruto rappresentava l’ultimo uomo in grado di sacrificare se stesso per salvare la patria dalla tirannide. Il gesto di uccidersi dopo la sconfitta di Filippi del 42 d.C. ad opera delle legioni di Ottaviano, il futuro imperatore, poteva essere interpretato come l’estremo rifiuto di accettare la perdita della libertà politica. Tuttavia per Leopardi, Bruto è molto di più, egli rappresenta l’uomo nel momento storico in cui lo sviluppo della civiltà porta alla caduta delle illusioni.
Il tutto si presenta con i caratteri del soliloquio portato all’estrema drammaticità, come se Bruto fosse il protagonista di una vera e propria tragedia.
L’Ultimo canto di Saffo fu composto a Recanati nel 1822 e pubblicato per la prima volta due anni dopo. È un monologo lirico attribuito a Saffo, l’antica poetessa greca che, secondo la leggenda, si sarebbe uccisa gettandosi dal promontorio di Leucade per amore del giovane Faone. Leopardi era a conoscenza degli studi filologici e storici in base ai quali era chiaro che questa era soltanto una leggenda, senza alcun carattere di realtà; ma nella canzone egli non vuole riferirsi al personaggio storico, bensì all’idea espressa nel mito, che era comunque uno spunto per la sua meditazione. Tale spunto è tratto da Ovidio ma il personaggio diviene pura proiezione autobiografica e portavoce delle idee leopardiane. A tal proposito il poeta dichiara la sua intenzione di rappresentare l’infelicità di un animo delicato, tenero, sensibile, nobile e caldo, posto in un corpo brutto.
 Il tema centrale del canto è l’infelicità come destino individuale dell’io lirico, che un errore del caso, dandogli un corpo brutto, ha condannato all’infelicità. Tuttavia l’idea dell’infelicità individuale si allarga a quella di infelicità universale, che abbraccia tutti gli uomini. Non a caso il discorso passa dall’io iniziale al noi del verso 46. L’infelicità dunque non è solo più dei moderni che hanno perso la facoltà di illudersi, ma, derivando da terribili mali esterni, coinvolge tutti gli uomini in ogni tempo. Dunque, in questa prospettiva, non appare casuale che, come esempio di infelicità, sia proposta la poetessa greca: la miseria umana infatti non risparmia neanche quegli antichi che Leopardi riteneva privilegiati perché più vicini alla natura ed immuni dagli effetti distruttivi della ragione. La concezione di questa infelicità universale nasce dal fatto che ora, all’idea di una natura benigna, propria del Leopardi degli anni precedenti, si associa l’idea di un fato crudele, che dispensa sventure e destina l’uomo “negletta prole”, alla sofferenza senza scampo.  Si delinea cioè un dualismo tra natura e fato; tuttavia è una fase transitoria che ben presto sarà superata con l’attribuzione alla natura delle caratteristiche di questo fato ostile all’uomo. Un esempio può essere il dialogo della natura e di un islandese nelle operette morali. Coerentemente con l’idea che anche gli antichi non sfuggivano all’infelicità, Saffo diviene portatrice di una coscienza moderna e può cosi proporsi come portavoce del poeta stesso.
Il mito, dunque, ha sempre impregnato con la sua bellezza e il suo fascino la letteratura di ogni tempo. Altro esempio di scrittore che, molto più vicino ai giorni nostri, ha saputo riadattare alla luce del pensiero moderno il mito antico è Salvatore Quasimodo con le traduzioni dei Lirici greci.


1.1.2.     Salvatore Quasimodo e le traduzioni dei Lirici greci
La prima edizione dei Lirici greci è stata pubblicata nel 1940. L’opera suscita subito un ampio dibattito che vede contrapposti quanti criticano l’eccessiva libertà delle traduzioni del poeta e quanti invece ne apprezzano la resa moderna, più vicina allo spirito del tempo. Decisivo è il saggio introduttivo di Luciano Anceschi, che coglie il legame tra i modi dell’ermetismo cui aderiscono le traduzioni e un nuovo ideale di classicità, privo dell’enfasi e della retorica che avevano caratterizzato le precedenti trasposizioni. Infatti le traduzioni sono scevre da qualsiasi ripiegamento neoclassico, ovvero prive di quegli elementi di scrittura arcaicizzanti che avevano contrassegnato gran parte delle composizioni degli anni Venti e Trenta.
In Italia, peraltro, l’interesse per la lirica greca, giunta in veste frammentaria, s’incontra con l’orientamento letterario del “frammentismo”. Simbolo di una tradizione “rovinata” dallo scorrere del tempo, il frammento stimola l’interpretazione, il desiderio mai spento di svelare l’enigma originario che si cela dietro il mito. Il bisogno ancestrale di “indagare” il passato per giungere al principio delle cose. Inoltre il frammento, per definizione breve, si sposava all’idea di poesia come illuminazione folgorante, tipica dell’ermetismo.
La novità delle sue traduzioni, pertanto, risiede nell’aver piegato il canto greco, vecchio di più di duemila anni, al proprio tempo.
Il poeta siciliano, peraltro, ha preferito tradurre solo quelle liriche che si confacevano al suo gusto poetico moderno, ovvero quelle più brevi ed essenziali, tralasciando le poesie più distese e di carattere celebrativo.
Quasimodo non impiega metri barbari, come hanno fatto taluni rappresentanti di una non troppo credibile filologia poetica, per esempio Romagnoli, poiché tradurre significa rendere la poesia antica o straniera nell’unita metrica della lingua di arrivo. E per tale motivo che il poeta si e servito del verso più naturale della lingua italiana: l’endecasillabo.
Quasimodo, nello scritto Traduzioni dai classici del 1945, spiegava cosa lo avesse spinto a tradurre i lirici greci: il forte desiderio di dare voce nuova a contenuti eterni, ma una voce nuova che parlasse direttamente al cuore dell’uomo moderno.
Dal punto di vista stilistico, i Lirici greci presentano un linguaggio decisamente ermetico. I nessi logici sono ridotti al minimo; sono assottigliati fino a scomparire; restano le parole essenziali. Sono queste le caratteristiche pregnanti della poesia ermetica. Le traduzioni attenuano l’effetto delle inversioni, avvicinando il linguaggio della poesia al linguaggio d’uso quotidiano, con un marcato decremento della letterarietà, per mettere ancor di più in evidenza la volontà di rendere il messaggio antico sulla base di una concezione moderna. Spesso il poeta, a causa del carattere frammentario dei lirici, crea una narrazione accostando frammenti diversi e dando, così, origine ad una successione di momenti nel tempo, connessi tra loro da una logica, seppur debole, di causa-effetto.
Una caratteristica comune alla poesia ermetica e alla lirica greca e l’importanza del valore musicale della parola. Anche nelle traduzioni, ma questo vale per tutta la poesia di Quasimodo, c’è una forte presenza dell’elemento fono-simbolico: assonanze, allitterazioni, omotonia che formano quasi una corrente “sottomare”, una cassa di risonanza della pura referenzialità delle immagini.


 1.1.3.     Jean-Paul Sartre e il mito nel teatro

Sartre, dans sa production théâtrale, reprend le mythe antique.
Sartre a beaucoup écrit pour le théâtre, car la scène est un lieu privilégié pour incarner la réflexion philosophique et proposer des solutions. Les Mouches,  inspirées du mythe d’Oreste, posent le problème de la liberté de l’individu, et la responsabilité de ses actes. Oreste, poussé par sa sœur tuera Egisthe, l’amant de sa mère, mais son acte est motivé par l’orgueil personnel.
Acte I. Oreste revient à Argos, accompagné de son précepteur. Un étrange homme barbu, qui est en fait Jupiter, leur explique que les rois font régner la terreur, que la ville est envahie par le mouches, symboles du remords pour un crime resté  impuni. Oreste rêve de grandes actions. Il retrouve sa sœur réduite en esclavage et assiste à une dispute  entre elle et sa mère.
Acte II. Au cours d’une cérémonie expiatoire, contre le crime d’Agamemnon, Électre appelle le peuple à la révolte, mais Jupiter  l’en empêche. Égisthe bannit Électre. Oreste se fait reconnaître de sa sœur, l’invite à la suivre mais celle-ci veut libérer la ville et venger son père. Jupiter prévient Égisthe du danger, mais celui-ci, désabusé, se laisse tuer par Oreste qui tue également sa mère.
Acte III. Alors qu’Électre cède au remords et au désespoir, Oreste revendique son acte libre qui a libéré la ville d’un tyran. Il refuse de prendre la succession de son père et s’en va suivi par le mouches, libérant ainsi la ville.
La pièce de Sartre, Les Mouches, écrite en 1943 en pleine occupation, se veut une métaphore du régime collaborateur de Vichy.
Au-delà de son interprétation immédiate, Les Mouches proposent une réflexion sur la liberté qui sera au cœur de la philosophie de Sartre, et en particulier sur l’acte individuel fondateur de l’existence. Oreste est  fier parce qu’il a le sentiment d’avoir enfin trouvé un sens à sa vie en accomplissant un acte qui le distingue des autres, un acte pleinement autonome et donc libre. En outre, cet acte où s’exprime la liberté individuelle a une valeur sociale dans la libération de l’oppression.

1.2.   Il mito nella storia
Il termine mito possiede diverse accezioni, spesso è inteso come racconto investito di una certa sacralità, come già visto, con lo scopo di spiegare i fenomeni della natura; altre volte è inteso come idealizzazione di un evento, di un personaggio, di una situazione o, appunto, semplicemente di una vera e propria ideologia che assume proporzioni leggendarie nell’immaginazione popolare. Spesso, durante il corso dei secoli, si è giunti ad un eccessiva credenza in questi miti. Ciò ha provocato danni enormi all’umanità, portando a crimini disumani e mostruosi. Il caso più eclatante e terribile è certamente rappresentato dallo sterminio degli ebrei in nome del mito di una razza, quella ariana.
Nel 1923, quando fini in prigione per aver tentato di organizzare un colpo di Stato a Monaco di Baviera, Adolf Hitler era un personaggio semi conosciuto, capo di una minuscola formazione politica: il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi (Nsdap), il cui programma era accesamente nazionalista.
Fino al 1929 il partito nazionalsocialista o nazista, come comunemente veniva chiamato, rimase un gruppo minoritario e marginale che si collocava al di fuori della legalità servendosi sistematicamente della violenza verso gli avversari politici e fondando la sua forza soprattutto su una robusta organizzazione armata: le SA (Sturm-Abteilungen, cioè reparti di assalto) comandate dal capitano dell’esercito Ernst Rӧhm. Dopo il fallimentare tentativo di Monaco, Hitler aveva cercato, sull’esempio di quanto aveva fatto Mussolini in Italia, di dare al partito un volto più “rispettabile”, tuttavia non aveva rinunciato al nucleo centrale del suo programma, che prevedeva la denuncia del trattato di Versilles, la riunione di tutti i tedeschi in una nuova “grande  Germania”, l’adozione di misure discriminatorie contro gli ebrei, la fine del “parlamentarismo[2] corruttore”. I suoi progetti, Hitler li espose in un libro dal titolo Mein Kampf (La mia battaglia) scritto nei mesi del carcere e destinato a diventare una sorta di testo sacro del nazismo.
Al centro dei piani hitleriani c’era un’utopia nazionalista e razzista. Antisemita, sostenitore di una concezione grossolanamente darwiniana  della vita come continua lotta in cui solo i forti sono destinati a vincere, Hitler credeva nell’esistenza di una razza superiore e conquistatrice, quella ariana, progressivamente inquinatasi per la “commistione con le razze inferiori”. I caratteri dell’arianesimo si erano per lui conservati solo nei popoli nordici, in particolare nel popolo tedesco, che avrebbe dunque dominare sull’Europa e sul mondo. Per realizzare questo sogno era necessario schiacciare i nemici interni: primi fra tutti gli ebrei, considerati, in quanto “popolo senza patria”, i portatori del virus della dissoluzione morale, responsabili ad un tempo dei misfatti del capitale finanziario. I tedeschi avrebbero dovuto respingere le imposizioni di Versailles, recuperare i territori perduti ed espandersi verso est a danno dei popoli slavi, considerati anch’essi inferiori. Era una vera e propria crociata contro il comunismo. Ma, all’inizio degli anni trenta, con lo scoppio della grande crisi economica, lo scenario cambiò radicalmente. La maggioranza dei tedeschi, immiseriti o addirittura ridotti alla fame, perse ogni fiducia nella Repubblica. In questa situazione i nazisti poterono uscire dal loro isolamento e far leva sulla paura, sulla frustrazione dei ceti medi, sulla rabbia dei disoccupati. Hitler offriva così non solo la prospettiva della riconquista di un primato della nazione tedesca, ma anche l’immagine tangibile di una forza politica in grado di ristabilire l’ordine contro “traditori” e “nemici interni”. L’agonia della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre 1930 quando il cancelliere Brüning convocò nuove elezioni sperando di far uscire dalle urne una maggioranza favorevole ad una politica di austerità utile per fronteggiare gli effetti della crisi economica. Accadde invece che i nazisti ebbero uno spettacolare incremento. Il ministero continuò a governare per altri due anni con il sostegno del vecchio presidente Hindenburg, che si valse sistematicamente dei poteri straordinari previsti dalla Costituzione nei casi di emergenza. Nel 1932 la crisi raggiunse il suo apice. La produzione industriale calò. Frattanto i nazisti ingrossavano le loro file in modo impressionante e riempivano piazze con comizi e cortei. Le città divennero teatro di scontri sanguinosi. Il dissesto economico e l’esplodere della violenza andarono di pari passo con il collasso del sistema politico. Si cominciò nel 1932 con le elezioni per la presidenza della Repubblica. Per sbarrare la strada ad Hitler, i partiti non trovarono di meglio che appoggiare la rielezione del maresciallo Hindenburg che una volta confermato nella carica cedette alle pressioni dei militari e della grande industria, congedò il primo ministro Brüning e cercò una via d’uscita dalla crisi. Nelle due successive elezioni politiche i nazisti si affermarono come il primo partito tedesco. I gruppi conservatori, l’esercito, lo stesso Hindenburg finirono col convincersi che senza di loro non era possibile governare. Il 30 gennaio 1933 Hitler fu convocato dal presidente della Repubblica e accettò di capeggiare un governo in cui i nazisti avevano solo tre ministeri su undici. A Hitler bastarono pochi mesi per imporre un regime pienamente totalitario. L’occasione per una piena stretta repressiva fu offerta da un episodio drammatico quanto oscuro: l’incendio appiccato al Reichstag, il Parlamento nazionale, una settimana prima della data fissata per una nuova consultazione elettorale. L’arresto di un comunista semi squilibrato mentale, indicato come l’autore materiale dell’incendio, fornì al governo il pretesto per una imponente operazione di polizia contro i comunisti; il partito fu messo fuori legge e furono prese una serie di misure eccezionali che limitavano o annullavano le libertà di stampa di riunione. Nelle successive elezioni i nazisti ottennero il 44% dei voti che, uniti a quelli dei gruppi di destra, sarebbero bastati ad assicurare al governo un’ampia base parlamentare.
Ma Hitler mirava ormai all’abolizione del Parlamento ed il Reichstag appena eletto lo assecondò approvando una legge suicida che conferiva al governo i pieni poteri, compreso quello di legiferare e quello di modificare la Costituzione. Hitler poteva varare una legge in cui si proclamava che il Partito nazionalsocialista era l’unico consentito in Germania. Infine, una nuova consultazione elettorale, questa volta di tipo “plebiscitario”, su lista unica, faceva registrare un 92% di voti favorevoli. Di fronte a lui restavano ancora due ostacoli: da una parte l’ala estremista del nazismo, rappresentata soprattutto  dalle SA di Rӧhm ed erano poco disposte a sottomettersi al controllo dei poteri legali; dall’altra la vecchia destra, impersonata dal presidente Hindenburg che chiedevano ad Hitler di frenare i rigurgiti estremisti e di tutelare le tradizionali prerogative delle forze armate. Hitler, che temeva anche lui l’autonomia delle SA (e già da qualche anno aveva provveduto a formare una sua milizia personale, le SS, “squadre di difesa”) decise di risolvere il problema con un massacro. Nella notte del 30 giugno, la “notte dei lunghi coltelli”, reparti delle SS assassinarono Rӧhm insieme con tutto lo stato maggiore delle SA.
Quando il vecchio maresciallo Hindenburg morì, nell’agosto del 1934, Hitler si trovò cosi, in virtù di una legge emanata dal suo stesso governo, a cumulare le cariche di cancelliere e capo dello Stato. Ciò significava l’obbligo per gli ufficiali di presta di prestare giuramento di fedeltà ad Hitler.
Nasceva il Terzo Reich, il terzo impero (dopo il Sacro Romano Impero medievale e quello nato nel 1871). Il capo (Fühere è l’equivalente  tedesco di “duce”), colui al quale spettavano le decisioni più importanti, la fonte suprema del diritto, la guida del popolo, colui che sapeva esprimerne le aspirazioni. Era insomma fornito di quel potere che Weber aveva definito carismatico, fondato su una presunta qualità straordinaria (appunto il carisma), di cui il capo sarebbe dotato. Il rapporto tra capo e popolo doveva essere diretto, al di là di ogni mediazione istituzionale e di ogni forma di rappresentanza. L’unico tramite con le masse era costituito dal partito e da tutti gli organismi ad esso collegati: come il fronte del lavoro, che sostituiva i disciolti sindacati. Compito di queste organizzazioni era di trasformare l’insieme dei cittadini in una comunità di popolo compatta e disciplinata. Dalla “comunità di popolo” erano esclusi per definizione gli elementi “antinazionali”, i cittadini di origine straniera o di discendenza non “ariana” e soprattutto gli ebrei.
Gli ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza. Ma, erano concentrati in prevalenza nelle grandi città, occupavano le zone medio-alte della scala sociale: erano per lo più commercianti, liberi professionisti, intellettuali e artisti: parecchi avevano posizioni di prestigio nell’industria e nell’alta finanza. Nei confronti di questa minoranza la propaganda nazista riuscì a risvegliare sentimenti di ostilità. La discriminazione fu ufficialmente sancita nel 1935 dalle cosiddette leggi di Norimberga che tolsero agli ebrei la parità dei diritti e proibirono i matrimoni tra ebrei e non ebrei. Alla discriminazione “legale” si accompagnava una crescente emarginazione dalla vita sociale: il che spinse molti ebrei ad abbandonare la Germania. La persecuzione antisemita subì un ulteriore accelerazione nel 1938 quando, traendo pretesto dall’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in tutta la Germania. Quella fra l’8 e il 9 novembre 1938 fu chiamata notte dei cristalli per via delle molte vetrine di negozi appartenenti a ebrei che furono infrante, sinagoghe distrutte, abitazioni devastate, decine di ebrei uccisi, taglieggiati nei loro beni, privati del lavoro, accusati di cospirare contro il Reich finché a guerra mondiale già iniziata, Hitler non concepì  il progetto mostruoso di soluzione finale del problema: soluzione che prevedeva la deportazione in massa e il progressivo sterminio del popolo ebraico.
La politica razziale nazista si inquadrava in un più vasto programma di “difesa della razza” che prevedeva, fra l’altro, la sterilizzazione forzata per i portatori di malattie ereditarie. Queste misure , che in parte ricalcavano le pratiche eugenetiche a limiti estremi, fino alla soppressione dei malati di mente classificati come incurabili, il regime le applicò con spietata determinazione, considerandole essenziali alla tutela dell’integrità del “popolo eletto”. Il mito della razza occupava infatti un posto centrale nella teoria e nella prassi del nazismo. Fino a quando non fu definitivamente distrutta dalla sconfitta in guerra, la macchina del regime nazista poté funzionare senza incontrare ostacoli di rilievo e senza suscitare nel paese resistenze efficaci ed estese.i cattolici finirono con l’adattarsi al regime, incoraggiati anche dall’atteggiamento della Chiesa di Roma che nel luglio del1933, stipulò un concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di culto e la non interferenza dello Stato negli affari interni del clero. Solo nel marzo 1937,di fronte agli eccessi della politica razziale nazista, il papa Pio XI intervenne con una enciclica in lingua tedesca per condannare dottrine e pratiche che sempre più rivelavano il loro carattere “pagano”. Ma, non vi fu una denuncia del concordato o una scomunica ufficiale del nazismo. Le chiese luterane e tradizionalmente ossequienti al potere, si piegarono alle imposizioni del regime, compreso il giuramento di fedeltà dei pastori al Fürer. Solo una minoranza di ministri del culto (la cosiddetta “Chiesa confessante”) si oppose attivamente alla nazificazione e fu perciò duramente perseguitata. Le molte polizie, da quella ufficiale a quella segreta, la Gestapo, all’onnipresente “servizio di sicurezza” delle SS, che controllavano con ogni mezzo la vita pubblica e privata dei cittadini, ; i campi di concentramento (Lager) dove gli oppositori venivano rinchiusi a centinaia di migliaia e sottoposti a un lento annientamento rappresentarono un apparato repressivo e terroristico vasto ed efficiente. I consensi al regime furono dovuti ai successi di Hitler in politica estera e la ripresa economica, grazie all’impulso dato ai lavori pubblici e soprattutto alla politica di riarmo messa in atto da Hitler portando la disoccupazione ad una rapida diminuzione.
I successi in economia e in politica estera non basterebbero però a spiegare l’ampiezza del consenso al regime se non si tenesse conto di un altro fattore essenziale: la capacità del nazismo di imporre formule e miti capaci di toccare le corde profonde dell’anima popolare, oltre alla sua abilità nel servirsi a questo scopo di tutti gli strumenti disponibili nell’età delle comunicazioni di massa. Attraverso la stampa i discorsi del Führer, i film di propaganda, il nazismo propose ai tedeschi un’utopia reazionaria e “ruralista”: un mondo popolato da uomini belli e sani, profondamente legati alla loro terra; una società libera dagli orrori delle metropoli moderne e dalle malattie della civiltà industriale. Quello nazista fu il primo governo a istituire in tempo di pace un Ministero per la Propaganda che, affidato a Goebbels, divenne uno dei principali centri di potere del regime. La stampa fu sottoposta a strettissimo controllo e inglobata in un unico apparato alle dipendenza del ministero. Gli intellettuali furono inquadrati in un’organizzazione nazionale (la Camera di cultura del Reich) e dovettero fare atto di adesione al regime: quelli che non vollero piegarsi furono costretti al silenzio o obbligati a lasciare il paese. Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono infatti scanditi da feste e cerimonie pubbliche: sfilate militari, esibizioni sportive di gruppo, e soprattutto adunate di massa culminanti nel discorso del Führer. L’importanza delle cerimonie pubbliche non si limitava ad aspetti di parata: il cittadino trovava quei momenti come momenti di socializzazione che la vita delle grandi città non offriva spontaneamente; trovava quegli elementi “sacrali” che aveva perso col tramonto della vecchia società contadina.

1.2.1.     Origini e funzione dei Lager
Sin dagli anni trenta in Germania il regime nazista istituì i campi (lager) di concentramento in cui venivano rinchiuse varie categorie di persone: i prigionieri politici, gli “asociali”, cioè i delinquenti recidivi e i colpevoli di crimini sessuali; gli ebrei. Questi ultimi cominciarono ad essere deportati nei lager, dopo la “notte dei cristalli” del 1938. I deportati portavano sulla divisa un triangolo colorato che indicava la categoria di appartenenza; giallo per gli ebrei, nero per gli asociali, rosso per i detenuti politici, viola per gli ecclesiastici, verde per i criminali comuni. Durante la guerra vennero internate centinaia di migliaia di persone e fu necessario costruire molti altri campi. Complessivamente si calcola che le vittime dei lager nazisti siano state 11 milioni.
Alcuni lager furono destinati esclusivamente all’uccisione in massa degli ebrei. È il caso dei sei campi situati in Polonia tra i quali Auschwitz. I centri di sterminio furono costruiti lungo le linee ferroviarie per facilitare il trasporto delle vittime. La polizia pagava alle ferrovie dello Stato un biglietto di sola andata di terza classe per ogni deportato; se il carico superava le 1000 persone, si applicava una tariffa ridotta.
Ad Auschwitz, come in molti altri campi, veniva anche sfruttato il lavoro dei prigionieri. Tale sfruttamento divenne necessario per l’economia tedesca negli anni della guerra. A questo proposito lo storico Raul Hilberg, autore di una vasta e documentata ricerca sullo sterminio degli ebrei, mette in evidenza un paradosso: la Germania soffriva per la mancanza di manodopera proprio a causa delle massicce deportazioni e cercava di colmare la carenza sfruttando quegli stessi prigionieri che dovevano essere eliminati. I deportati dovevano lavorare, fino allo sfinimento, alla costruzione e alla manutenzione dei lager stessi; erano impiegati, inoltre, in cave di ghiaia o di pietra o ancora in lavori di fabbrica. Alcune industrie private sfruttavano questa manodopera a basso costo limitandosi a pagare un piccolo contributo al Reich. I deportati infine erano usati come cavie per sperimentazioni mediche.
L’eliminazione degli ebrei nei lager venne organizzata e pianificata con agghiacciante precisione. Le operazioni che si svolgevano nei centri di sterminio sono simili al processo di produzione di una moderna fabbrica. Si può parlare di uccisioni “a catena”, secondo la definizione usata da Friedrich Entress, un medico nazista processato per i crimini che aveva commesso ad Auschwitz. La catena iniziava fin dall’arrivo del treno nel campo. I deportati scendevano dai vagoni e dovevano consegnare i loro effetti personali: tutto veniva confiscato e immagazzinato dalle SS. I vecchi, i malati e i bambini piccoli venivano uccisi sul posto, mentre gli individui più robusti venivano destinati al lavoro.
Il campo di concentramento di Auschwitz fu il più grande centro di sterminio nazista. Si trovava nell’alta Slesia, lungo la ferrovia. I primi deportati vi giunsero nel 1940 e il capo delle SS, Heinrich Himmler, decise che il campo doveva essere ingrandito perché si intendeva rinchiudere al suo interno ebrei provenienti da tutta l’Europa. Il Führer infatti aveva ordinato la “soluzione finale”, cioè l’eliminazione totale del popolo ebraico. Per eseguire il terribile progetto di Hitler vennero costruiti altri due campi. Auschwitz I (il campo originario) e Auschwitz II; Auschwitz III distava 6 km e si trovava in prossimità della IG Farben, una delle industrie che sfruttavano la manodopera dei deportati. Nella notte fra il 21 e il 22 gennaio 1945 le SS fecero saltare in aria con l’esplosivo i forni crematori, per eliminare le prove degli orrori compiuti. Così, quando l’Armata Rossa entrò ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945, si trovò di fronte un cumulo di macerie. Nel luglio del 2000 il parlamento italiano ha stabilito con una legge che il 27 gennaio, il giorno della liberazione di Auschwitz, venga celebrato il “giorno della memoria”, dedicato al ricordo dello sterminio degli ebrei.
   
        

2.     Religione: dal mito al cristianesimo

Con il progresso l’aspetto religioso e, in particolar modo, la fede, mutano continuamente. Basti pensare all’antichità quando ancora tutti i fenomeni naturali si presentavano, agli occhi dei primi uomini, misteriosi: l’alternarsi del giorno e della notte, i fenomeni delle eclissi, l’apparizione delle comete. Tutti questi fenomeni venivano, dunque, spiegati con le divinità. Poi lentamente con l’osservazione e la sperimentazione, si è giunti a capire le cause dei fenomeni e le leggi che li regolano. Così l’immagine delle divinità è andata modificandosi nel tempo fino a giungere all’idea di un Dio unico creatore di tutte le cose. Il passaggio dal politeismo al monoteismo è un passaggio graduale che vede il suo culmine con l’avvento della religione cristiana.
Il Cristianesimo emerse dal Giudaismo nel I secolo. I cristiani assunsero dal Giudaismo le sue Sacre Scritture, dottrine fondamentali come il monoteismo, la fede in un Messia o Cristo, forme del culto (incluso il sacerdozio), concetti di luoghi e tempi sacri. Il libro degli Atti degli Apostoli dice che i primi ad essere chiamati "cristiani" erano stati i discepoli di Gesù che si radunavano nella città di Antiochia e che vi si erano rifugiati dopo le prime persecuzioni in Palestina, probabilmente pochi anni dopo la morte di Gesù.

2.1.   La nascita della letteratura cristiana: apologetica e patristica

La letteratura cristiana nasce relativamente tardi rispetto alla diffusione del cristianesimo. La lingua usata dai primi cristiani fu infatti il greco, in quanto la nuova religione si diffuse inizialmente negli ambienti delle comunità giudaiche, sparse in tutte le principali città del Mediterraneo, e in queste comunità l’uso del greco prevaleva, anche in Occidente, su quello del latino. La letteratura cristiana in lingua latina nasce infatti sotto forma di letteratura di traduzione, intorno alla metà del II secolo, in seguito alla diffusione del cristianesimo in ambienti in cui il greco non era conosciuto. Le prime attestazioni consistono in traduzioni della Bibbia dal greco al latino: esse perseguivano evidentemente lo scopo di consentire a tutti di accostarsi alle sacre Scritture. Una manifestazione letteraria tipica del cristianesimo dei primi secoli è l’apologetica, ossia la letteratura che si propone di difendere la nuova religione dagli attacchi e dalle accuse che le venivano rivolti dai suoi avversari (il termine apologetica, d’origine greca, significa appunto “discorso di difesa”).
Fra i primi e maggiori esponenti dell’apologetica è da annoverare Marco Minucio Felice, autore di uno scritto, intitolato Octavius. L’Octavius è un dialogo con tre interlocutori che discutono intorno alle due diverse opinioni religiose: il paganesimo e il cristianesimo. L’operetta si rivolge a un pubblico di pagani colti, di cui si propone di combattere i pregiudizi contro il cristianesimo, facendo appello ad argomentazioni razionali e attingendo in larga misura al patrimonio filosofico classico. L’autore tende a sottolineare gli elementi di continuità con la cultura pagana più che non quelli di rottura. Tuttavia la novità e la superiorità della fede cristiana sono rilevate con energica convinzione. In particolare, l’Octavius muove un attacco aperto contro l’esaltazione nazionalistica e propagandistica della romanità: la grandezza di Roma, dice Ottavio, uno degli interlocutori, è fondata sulla sventura degli altri. A questa convinzione della vita basata sulla violenza e sulla sopraffazione dei più deboli da parte dei più forti egli contrappone la visione cristiana dei rapporti fra gli uomini, fondata sul rispetto della dignità di ogni persona.
Altro autore cristiano che opera intorno alla metà del II secolo è Quinto Settimio Fiorente Tertulliano. L’opera apologetica più importante dello scrittore è l’Apologeticum. Rivolto non più genericamente ai pagani, ma alle autorità politiche, l’Apologeticum è strutturato in due grandi sezioni: la prima è una confutazione delle accuse assurde e calunniose contro i cristiani , mentre la seconda respinge le accuse più serie, di carattere religioso e politico, di sacrilegio e di lesa maestà.
Tipico dell’atteggiamento di Tertulliano è l’attacco rivolto contro gli avversari, accusati all’inizio di odiare e di condannare i cristiani senza conoscerli e senza indagare sulle loro colpe presunte. Lo scrittore prosegue con l’accusare la corruzione della società pagana: sono proprio i pagani a commettere i delitti imputati ai cristiani. Inoltre la religione pagana è immorale e i suoi dei vengono messi in ridicolo dalle opere dei poeti e offesi dai loro stessi cultori. La superiorità della religione cristiana è solennemente affermata nel momento in cui l’autore illustra gli attributi dell’unico Dio. Nell’ultima parte del suo trattato Tertulliano confuta l’accusa che i cristiani siano causa delle calamità pubbliche e che siano inutili alla società. Egli afferma, al contrario, la volontà dei cristiani di collaborare efficacemente per il bene comune. L’opera si conclude con l’esaltazione del martirio e con l’affermazione che la persecuzione non solo non riesce a distruggere il cristianesimo, ma anzi ne incrementa gli aderenti.
Con l'editto di Milano (313), Costantino poneva fine alle persecuzioni e concedeva libertà di culto alla nuova religione, la letteratura latino-cristiana entrò in una nuova fase: la patristica. Nasceva la necessità di discutere e definire i dogmi, di interpretare criticamente i testi sacri per elaborare una dottrina teologica organica e completa, senza abbandonare però la polemica contro gli scismi e le eresie. Gli scrittori, che si distinsero in questa produzione e che operarono una fusione tra il cristianesimo e la cultura classica, sono i cosiddetti Padri della Chiesa e il loro operare in questo senso fece dei secoli IV e V il periodo d'oro della letteratura latino-cristiana.

2.1.1.     Patristica – Agostino: il padre della chiesa

Le Confessioni, in latino Confessionum libri o Confessiones, sono un’opera autobiografica in tredici libri di Agostino D’Ippona, Padre della Chiesa, scritta intorno al IV secolo d. C. . L’opera è costituita da un continuo discorso che Agostino rivolge a Dio, (da qui il termine confessione) e inizia con una Invocatio Dei.
Successivamente l’autore incomincia con una narrazione, interrotta frequentemente da ampie e profonde riflessioni della sua infanzia e degli anni dei suoi studi e di professione come retore nella città di Cartagine.
Durante questo periodo Agostino vive una vita dissoluta e corrotta, fino a quando a 19 anni la lettura dell’Hortensius di Cicerone lo indirizza sulla via della filosofia che lo porta all’adesione del Manicheismo. Il suo lavoro lo porta quindi a Roma dove avviene la sua conversione al Cristianesimo e viene battezzato dall’allora vescovo di Milano, Sant’Ambrogio. La narrazione autobiografica si conclude con il ritorno in Africa e la nomina a vescovo di Ippona.
Negli ultimi capitoli l’autore rivolge la sua attenzione ad una serie di considerazioni sull’essenza del tempo, sul suo ruolo nella vita dell’uomo e sulla sua origine.
Nella sua opera Agostino svela i tre significati del termine confessio:
§  Il primo è quello di confessio peccatorum in cui un’anima umilmente riconosce i propri peccati: tale significato è sviluppato nella prima parte della narrazione, incentrata sulle dissolutezze e sugli errori degli anni precedenti alla conversione.
§  Il secondo è quello di laus dei, in cui un’anima loda la maestà e la misericordia di Dio; questo si verifica dopo la conversione.
§  Il terzo è la confessio fidei in cui un’anima spiega sinceramente le ragioni della propria fede.
Una caratteristica formale che contraddistingue l’opera è il rivolgersi continuo e diretto a Dio, che diventa intenzionalmente un colloquio informale, che cede ora alla preghiera, ora al ringraziamento, ora alla supplica. Lo stile delle confessioni è inoltre elevato: nell’opera Agostino esibisce tutte le sue abilità di retore e di grande conoscitore delle Sacre Scritture. L’autore inoltre alterna espressioni concise e rapide ad un periodare articolato e complesso, ricco di figure retoriche, lasciandoci spesso un’espressione di artificio. Tematica centrale dell’opera è il rapporto tra Dio e l’uomo e in particolare di come l’uomo, che cerca la felicità e dunque la verità, per conoscere Dio non possa ricorrere alla sola ragione ma abbia bisogno anche del sostegno della Grazia divina e, quindi della fede.
Fra i motivi della nascita delle Confessioni va considerata anche la necessità, in un periodo difficile per il Cristianesimo, di controbattere ad alcune eresie e di risolvere questioni inerenti alla fede sollevate dalle recenti persecuzioni in alcune zone del Mediterraneo. Alcuni hanno ipotizzato che Agostino abbia voluto giustificarsi con i  Donatisti, che gli rinfacciavano le intemperanze giovanili per screditarlo, altri studiosi hanno visto nell’opera una confessione pubblica come quella dei catecumeni. La tesi più appropriata è quella che egli abbia voluto esemplificare agli altri, attraverso la propria esperienza personale, il faticoso ascendere della sua anima verso il Padre celeste, per celebrarne la grandezza e la misericordia.
Per tale motivo «le confessioni» sono considerate la storia di  una peregrinatio animae in cui i lettori di epoche e culture diverse possono trovare conforto e stimolo per la meditazione sugli eterni e immutabili problemi esistenziali.
La fortuna delle Confessioni fu grandissima, raggiungendo una sintesi di fede, arte e cultura che nei secoli ispirerà grandissimi artisti e letterati come Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Botticelli.


 2.2.   L’arte cristiana – Antoni Gaudì: l’architetto di Dio

I misteri del cristianesimo attraversano i secoli fino ai nostri giorni influenzando anche l’arte. La Sagrada Familia, opera incompiuta dell’architetto Antoni Gaudi, ne è un perfetto esempio e il suo artefice è stato soprannominato «l’architetto di Dio». Il 18 luglio 1936 le truppe guidate dal generale Francisco Franco pronunciano il colpo di stato. Non riconoscono il parlamento liberamente eletto dai cittadini spagnoli e inizia così un’atroce guerra civile: da un lato i franchisti appoggiati da Mussolini e Hitler dall’altro i repubblicani sostenuti da Stalin.
In questo momento storico, tragico per la spagna, accade un fatto all’apparenza insignificante: un piccolo incidente. È il 20 luglio del 1936 quando un gruppo di anarchici dà fuoco allo studio dell’architetto Antoni Gaudì. A bruciare per sempre i progetti originali di un edificio tra i più importanti d’Europa: la Sagrada Familia.
Nato a Reus in provincia di Tarragona nel 1852, Antoni Gaudì è stato il massimo esponente dell’architettura modernista catalana. Il suo stile è unico, le sue forme imitano la natura attraverso linee costruttive imprevedibili. La sua fortuna la deve soprattutto all’incontro con Eusebi Güell, un ricco mecenate catalano che innamorato dall’arte di Gaudì finanzio e commissiono la maggior parte delle sue opere. Nel 1884, a soli 31 anni, a Gaudì viene affidata la direzione dei lavori della basilica della Sagrada Familia, un progetto che lo impegnerà fino all’ultimo giorno della sua morte e che non riuscirà a completare. Nel 1998 il cardinale Ricard-Maria Carles avvia ufficialmente il processo di beatificazione per Antoni Gaudì.
Gaudì si considerava un “copiatore” e non un creatore di forme in quanto l’unico Creatore, secondo l’architetto catalano, è Dio. Egli infatti cercava le soluzioni nella Natura e le trasferiva in architettura. Egli, dotato di un eccezionale spirito di osservazione, si accorse cha la Natura era in grado di creare forme di grande bellezza e utilità. Forme e strutture totalmente logiche, che sono le uniche possibili, adatte e attraenti per gli esseri viventi della terra. Ciò nonostante, queste strutture naturali non si formano quasi mai mediante la geometria astratta degli architetti, bensì con la cosiddetta geometria “rigata”, fatta di superfici incurvate formate da linee rette. Tutta l’architettura di Gaudì si basò sull’idea di trasferire le forme rigate alla costruzione architettonica. La funzionalità consiste nel prendere quelle forme che la Natura offre con generosità. Un caso evidente è l’uso costante di Gaudì dell’arco catenario o, anche definito, impropriamente, arco parabolico. È un arco la cui curva ricorda quella di una lunga catena tenuta dalle due estremità e lasciata pendere, la catenaria appunto, che somiglia ad una parabola. È detto anche arco equilibrato perché dal punto di vista meccanico consente un’equa distribuzione dei carichi. Gaudì, infatti, sosteneva che cercando la funzionalità si sarebbe arrivati alla bellezza. Infatti egli stesso affermava che i fiori posseggono colori vivi e brillanti e profumi gradevoli, non per ispirare i poeti e i pittori, ma per attirare gli insetti e facilitare la riproduzione della specie.
La Sagrada Familia è una basilica cattolica romana caratterizzata da una pianta a croce latina a cinque navate. Nonostante Gaudì ci abbia lavorato per oltre 40 anni, a oggi solo il 55% immaginato da Gaudì è stato completato. Il progetto originario dell’edificio prevedeva la rappresentazione di un’intera cosmogonia, una sorta di poema mistico carico di una complessa simbologia mistico-cristiana: 18 torri affusolate rappresenteranno i 12 apostoli, i 4 evangelisti, la madonna e, la più alta di tutte, Gesù. Il campanile più importante è quello dedicato a Gesù Cristo, alto 170 metri ed incoronato da una grande croce. La particolarità di questo campanile è proprio la sua croce, che brilla di giorno grazie ai mosaici da cui è composta e splende anche di notte per la luce proiettata dagli altri campanili. La chiesa avrà tre grandi facciate: la Natività, la Gloria e la Passione. La prima è orientata ad est, verso l’alba e per questo motivo è dedicata alla nascita di Gesù. L’entrata è geometricamente divisa in tre per rappresentare le tre virtù cristiane: Speranza, Fede e Carità. L’ultima, invece, è orientata ad ovest, verso il tramonto. Linee geometriche spoglie, brusche e austere rappresentano la passione e la morte di Gesù Cristo. Le colonne sembrano ossa e tutta la facciata colpisce per i suoi personaggi aguzzi, emaciati, tormentati.
Così come l’aveva inteso Gaudí, l'interno del Tempio è come una sorta di bosco naturale. Infatti la disposizione delle colonne ricorda i tronchi degli alberi con i loro rami. Nella crociera, chiusa dall’alta cupola di 60 metri, si notano quattro pilastri di porfido dedicati agli evangelisti. Le colonne degli evangelisti sono circondate da dodici colonne che rappresentano gli Apostoli e, quelle di Pietro e Paolo, si trovano all'entrata del presbiterio. Infine, le cinquantadue colonne che sostengono il tempio rappresentano tutte le domeniche dell'anno.
Al centro del presbiterio, in cima all’altare, si trova Gesù Crocifisso, che completa la Trinità con il Padre (la cupola dell’abside) e lo Spirito Santo (la lanterna a sette lati che indicano rispettivamente le sette virtù teologali). All’interno, in corrispondenza delle facciate esterne della Natività e della Passione, si contemplano le immagini di San Giuseppe e della Vergine Maria. Così, con il Cristo al centro dell’abside, si completa la Sacra Famiglia.


 3.     L’ateismo e la critica della teologia
Il termine ateismo deriva dal greco atheótes. L’alfa privativo in greco, esprime sia la negazione che la privazione di ciò che viene affermato nel nome: á-theos significa quindi negazione del theós, negazione di Dio.

3.1.   Ludwig Andreas Feuerbach – critica della teologia
Nelle due principali opere, dedicate alla critica della teologia, L’essenza del cristianesimo e L’essenza della religione, Ludwig Andreas Feuerbach enuncia la più esplicita professione di ateismo, auspicando la «rinunzia a un Dio diverso dell’uomo», cioè il tramonto della religione e l’avvento di una filosofia «decisamente anticristiana». Feuerbach sottopone la religione ad un’analisi critica per far emergere la sua vera essenza, ossia la sua radice interamente antropologica; la religione è un prodotto esclusivamente umano; alla base dell’esperienza religiosa sono infatti sentimenti primordiali (la paura, il senso di dipendenza dell’uomo dalla natura e dalla società) e un fondamentale bisogno di certezze.
La filosofia di Feuerbach muove dall’esigenza di cogliere l’uomo e la realtà nella loro concretezza, ed ha come presupposto teorico e metodologico una critica radicale del modo idealistico religioso di rapportarsi al mondo. L’idealismo e la religione esprimono, secondo Feuerbach, una visione rovesciata del mondo, poiché rendono soggetto (ad esempio il pensiero) ciò che nella realtà è predicato e predicato (ad esempio l’essere) ciò che nella realtà è soggetto; fanno della causa (ad esempio l’essere) l’effetto e dell’effetto (ad esempio il pensiero) la causa. Feuerbach percorre il cammino opposto e propone un’inversione dei rapporti tradizionali fra soggetto-oggetto, concreto-astratto.
Applicando questa metodologia materialista alla religione, Feuerbach afferma che non è Dio (l’astratto) ad aver creato l’uomo (il concreto), ma l’uomo ad aver creato Dio. Infatti Dio, secondo Feuerbach, e nient’altro che la proiezione illusoria o l’oggettivazione fantastica di qualità umane, in particolare di quelle «perfezioni» caratteristiche della nostra specie che sono la ragione, la volontà e il cuore. In altri termini, il divino è nient’altro che l’umano in generale, proiettato in un mitico aldilà e adorato come tale: «La religione è l’insieme dei rapporti dell’uomo con se stesso, o meglio con il proprio essere, riguardato però come  un altro essere… Tutte le qualificazioni dell’essere divino sono perciò qualificazioni dell’essere umano». L’uomo sposta il suo essere fuori da sé, prima di trovarlo in sé. La religione è l’infanzia dell’umanità; il bambino vede il proprio essere, l’uomo, fuori da sé, ossia oggettiva il proprio essere in un altro uomo. Perciò il progresso storico delle religioni consiste appunto nel considerare in un secondo tempo come soggetto e umano ciò che le prime religioni consideravano come oggettivo e adoravano come Dio.
Appreso che Dio è l’essenza dell’uomo personificata, rimane da vedere, in concreto, come nasca, nell’uomo, l’idea di Dio. A questo proposito Feuerbach si è variamente espresso. Talora egli tende a porre l’origine dell’idea di Dio nel fatto che l’uomo, a differenza dell’animale, ha coscienza di se stesso non solo come individuo ma anche come specie. Mentre come individuo si sente debole e limitato, come specie si sente invece infinito ed onnipotente. Da ciò la figura di Dio, il quale è niente altro che una personificazione immaginaria delle qualità della specie. Altre volte Feuerbach tende a scorgere l’origine dell’idea di Dio nell’opposizione umana tra volere e potere. Opposizione che porta l’individuo a costruirsi una divinità in cui tutti i suoi desideri appaiono realizzati. Nel volere, nel desiderare, nel rappresentare l’uomo è illimitato, onnipotente: è Dio; ma nel potere, nell’ottenere, nella realtà, egli è condizionato, dipendente, limitato. «il tuo Dio è tale quale è il tuo cuore. Quali i desideri degli uomini tali i loro dei». Altre volte, Feuerbach ha visto la genesi primordiale dell’idea di Dio nel sentimento di dipendenza che l’uomo trova di fronte alla natura. Sentimento che ha spinto l’uomo ad adorare quelle cose senza le quali egli non potrebbe esistere: la luce, l’aria, l’acqua e la terra.
Qualunque sia l’origine della religione è comunque certo, secondo Feuerbach, che essa costituisce una forma di alienazione, intendendo con questo termine quello stato patologico per cui l’uomo, «scindendosi», proietta fuori di sé una Potenza superiore (Dio) alla quale si sottomette anche nei modi più umilianti e crudeli: si pensi ai sacrifici di vite umane compiuti per scopi religiosi (sacrificio di Ifigenia). Ma se la religione è il frutto di un’oggettivazione alienata e alienante, in virtù della quale l’uomo tanto più pone in Dio quanto più toglie a se stesso, l’ateismo si configura non solo come un atto di onestà filosofica, ma anche come un vero e proprio dovere morale. Infatti, secondo Feuerbach, è ormai venuto il tempo che l’uomo recuperi in sé i predicati che egli  ha proiettato fuori di sé,  in quello specchio illusorio di astratto della propria essenza che è Dio. L’ateismo, dunque, si configura come la riappropriazione, da parte dell’uomo, della propria essenza.
La nuova filosofia, delineata da Feuerbach, ha la forma di un umanismo naturalistico. Umanismo: poiché fa dell’uomo l’oggetto e lo scopo del discorso filosofico. Naturalistico perché fa della natura la realtà primaria da cui tutto dipende compreso l’uomo. Quella di Feuerbach è una nuova antropologia incentrata sull’amore dell’uomo per l’uomo. Nucleo di questo umanismo naturalistico è il rifiuto di considerare l’individuo come astratta spiritualità e  la concezione dell’uomo come essere che vive, che soffre, che gioisce e che avverte una serie di necessità. Un essere, insomma, «di carne e di sangue», che risulta essere condizionato dal corpo e dalla sensibilità. Sensibilità che per Feuerbach non si riduce ad un atteggiamento puramente conoscitivo ma che presenta una valenza pratica, come dimostra il suo legame con l’amore ossia con quella passione fondamentale che fa tutt’uno con la vita: «non essere alcuna cosa e non amare alcuna cosa sono tutt’uno». Ammettere che l’uomo è bisogno, sensibilità e amore equivale nello stesso tempo di ammettere la necessità degli altri. Da ciò il «comunismo» filosofico di Feuerbach: «l’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunità».

3.2.   Karl Marx – Religione: oppio dei popoli
Un punto che unisce e divide Marx da Feuerbach è l’interpretazione della religione. Pur avendo «scoperto» il meccanismo generale dell’alienazione religiosa-per cui non è Dio a creare l’uomo, ma l’uomo a «proiettare» Dio sulla base dei propri bisogni- Feuerbach, in virtù della sua concezione prevalentemente «naturalistica» dell’uomo, non è stato in grado, secondo Marx, di cogliere le cause reali del fenomeno religioso, ne di offrire dei validi mezzi per il suo superamento. Infatti all’autore è sfuggito che chi produce non è un soggetto astratto, avulso dalla storia ed immutabilmente uguale a se stesso, ma un individuo che è «un prodotto sociale». Ma se «l’uomo non è altro che il mondo dell’uomo, lo stato, la società», risulta ovvio, per Marx, che le radici del fenomeno religioso non vanno ricercate nell’uomo in quanto tale, ma in un tipo storico di società. La religione in sostanza è un «sospiro della creatura oppressa», ossia il prodotto di un’umanità alienata e sofferente per causa delle ingiustizie sociali, che cerca illusoriamente nell’aldilà ciò che è stato negato di fatto nell’aldiquà.
L’unico modo per eliminarla non è la critica filosofica, ma la trasformazione rivoluzionaria della società. In altri termini, se la religione è il frutto malato di una società malata, l’unico modo per sradicarla è quello di distruggere le strutture sociali che la producono. La disalienazione religiosa ha dunque, come suo presupposto, la disalienazione economica, ossia l’abbattimento della società di classe.
Secondo Marx un altro limite di fondo del pensiero di Feuerbach risiede nel tendenziale contemplativismo e teoreticismo. Infatti egli, a giudizio di Marx, ha ignorato l’aspetto attivo e pratico della natura umana e ha cercato la soluzione dei problemi reali nella dimensione della teoria, trascurando completamente l’aspetto della praxis rivoluzionaria. Marx oppone un nuovo materialismo che considera l’uomo soprattutto come prassi, ritenendo che la soluzione dei problemi sia da ricercarsi nell’azione: «i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo».
Nietzsche: La «morte di Dio» e la fine delle illusioni metafisiche
Per comprendere in modo adeguato che cosa significhi la «morte di Dio» occorre tenere presente che per Nietzesche Dio è sostanzialmente: 1) il simbolo di ogni prospettiva oltremondana che ponga il senso dell’essere al di là dell’essere, ovvero in un altro mondo contrapposto a questo mondo; 2) la personificazione delle certezze ultime dell’umanità, ossia di tutte le credenze metafisiche e religiose elaborate attraverso i millenni per dare un «senso» e un ordine «rassicurante» alla vita.
Secondo Nietzesche Dio e l’oltre-mondo hanno rappresentato storicamente una fuga dalla vita e una rivolta contro questo mondo. «In Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia dell’«aldiquà», di ogni menzogna dell’«aldilà». L’immagine di un cosmo ordinato e benefico è soltanto una costruzione della nostra mente, ai fini di sopportare la durezza dell’esistenza: «C’è un solo mondo ed è falso, crudele, contradditorio, corruttore, senza senso…Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa realtà, cioè per vivere». L’«amore», l’entusiasmo, «Dio» - tutte finezze di un estremo inganno di sé, tutte seduzioni che spingono a vivere!»
Essendo la più antica delle bugie vitali, Dio si configura come la quintessenza di tutte le credenze escogitate attraverso i tempi per poter fronteggiare il volto caotico e meduseo dell’esistenza. Analogamente a Schopenhauer, per il quale l’ateismo era «qualcosa di dato, di palpabile, d’indiscutibile», per Nietzesche è la realtà stessa, cioè l’essenza malefica e caotica del mondo, a confutare l’idea di Dio. «Un tempo si cercava di dimostrare che Dio non esiste, - oggi si mostra come ha potuto avere origine la fede nell’esistenza di un Dio, e per quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza: in tal modo una controdimostrazione della non esistenza di Dio diventa superflua.
In La gaia scienza Nietzesche «drammatizza» il messaggio della «morte di Dio» con il noto racconto dell’«uomo folle»:
«Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dei, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”».
L’uomo folle = il filosofo – profeta; le risa ironiche degli uomini del mercato = l’ateismo ottimistico e superficiale dei filosofi dell’ottocento, insensibili alla portata e agli effetti della morte di Dio; la difficoltà di bere il mare, di strusciare l’orizzonte e di sciogliere la terra dal sole = allusione al carattere arduo e sovra-umano dell’uccisione di Dio; il precipitare nello spazio vuoto, la mancanza di un alto e di un basso, il freddo e la notte = il senso di «vertigine» e di «smarrimento» che seguono allo svanire di ogni ubi consistam ed al venire meno di certezze e punti di riferimento assoluti; la necessità di divenire «dei – noi stessi» per apparire degni della «grandezza»  dell’azione più grande = richiamo al fatto che per «reggere» la morte di Dio, l’uomo deve farsi «superuomo»; il giungere «troppo presto» = la coscienza che la morte di Dio non si è ancora concretizzata in un fatto di massa, anche se è inevitabile che lo diventi nel prossimo futuro; le chiese come sepolcri di Dio = allusione alla crisi moderna delle religioni, considerate alla stregua di ormai cadaverici «residui» del passato.
Così infatti è l’uomo: anche se un articolo di fede potesse essere mille volte confutato, - posto che egli lo sentisse necessario, - continuerebbe sempre a tenerlo per «vero».
La descrizione nietzschiana dello smarrimento esistenziale prodotto dalla morte di Dio è così «partecipata» che sembrerebbe opera di un credente. In realtà, dal contesto del discorso di Nietzesche appare chiaro che la morte di Dio costituisce si un «trauma», ma solo in relazione ad un uomo – non –ancora – superuomo, e che, proprio in virtù di essa, può divenire tale. La morte di Dio coincide infatti con l’atto di nascita del superuomo. Solo chi ha il coraggio di guardare in faccia la realtà e di prendere atto del crollo degli assoluti è ormai maturo, secondo Nietzesche, per varcare l’abisso che divide l’uomo dall’oltre – uomo. Il superuomo ha dietro di sé, come condizione necessaria del suo essere, la morte di Dio e la vertigine da essa provocata, ma ha davanti a sé, a titolo di conquista, il «mare aperto» delle possibilità connesse ad una libera progettazione della propria esistenza al di là di ogni struttura metafisica data: «Noi filosofi e  spiriti liberi alla notizia che il vecchi Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo.
L’ateismo è, in Nietzsche, una sorta di istinto filosofico. «Sono troppo curioso, troppo problematico, troppo tracotante, perché possa piacermi una risposta grossolana. Dio è una risposta grossolana, una indelicatezza verso noi pensatori, in fondo è solo un grossolano divieto che ci vien fatto: non dovete pensare!»
In ogni caso, per Nietzesche l’uomo può diventare superuomo soltanto dopo essere passato sul cadavere di tutte le divinità: «Morti son tutti gli dei: ora vogliamo che il superuomo viva» esclama Zarathustra.
L’ateismo di Nietzesche vuole essere così radicale, che egli non contesta soltanto Dio, ma anche ogni suo ipotetico surrogato, ben conscio che gli uomini, abbattute le antiche divinità, tendono inevitabilmente a crearne altre. Nietzesche racconta di uomini che si mettono ad adorare un asino, con grande ira del filosofo – profeta, il quale constata come il passaggio dall’uomo al superuomo sia lento e difficile. L’«asino» è simbolo di ogni sostituto idolatrico di Dio ed allude probabilmente alle varie forme dell’ateismo «positivo» dell’Ottocento, nelle quali il vecchi Dio si trova «rimpiazzato» da altrettanti supplenti. «Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna- un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. E noi, non dobbiamo vincere anche la sua ombra!» Infatti, a scanso di equivoci, quando si sostiene che Dio, in Nietzesche, è definitivamente morto, per «Dio»,  si intende, a rigore, ciò che storicamente, da parte dei filosofi, si è concepito come tale, ovvero l’Essere metafisico e il Valore dei valori.
La morte di Dio coincide con il tramonto definitivo del platonismo, che per Nietzesche è la metafisica per eccellenza. Lo stesso cristianesimo è nient’altro che platonismo. Infatti, è stato Platone a «calunniare» filosoficamente questo mondo e ad inventare l’idea di un mondo che si contrappone a quello apparente in cui viviamo. In seguito, tale mondo ha finito per rivelarsi come una «favola». Ciò è storicamente avvenuto attraverso un processo che Nietzesche scandirà in sei tappe:
1.      La filosofia greca;
2.      Il Cristianesimo;
3.      La filosofia kantiana;
4.      Il positivismo agnostico;
5.      La filosofia del mattino;
6.      La filosofia di Zarathustra.











[1] Antica civiltà, diffusa nell’India del nord tra il X e l’VIII a.C.
[2] Sistema politico che subordina l’azione del governo alla fiducia del parlamento, che può essere revocata o accordata.

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