di Mauro Pellegrini
“Se gli uomini tenessero in
conto
più la casa che
l’oro,
il mondo sarebbe un posto migliore”
(Thorin
Scudodiquercia)
L’autore della frase dell’incipit è un personaggio di fantasia,
uno dei protagonisti del libro di J.R.R.Tolkien “Lo Hobbit”.
L’ho scelta perché
questo post parla di immaginazione e di metafore e perché ha la pretesa di
commentare dei duri fatti usando una modalità che con i fatti e con la realtà
ha apparentemente poco a che fare. Sono uno psicoterapeuta e tanti dei problemi
che i miei pazienti portano in seduta sono, a confronto di eventi sconvolgenti
come quelli accaduti in Francia in questi giorni, cosette, dolori effimeri che,
nella battaglia, nel momento in cui la vita è davvero a repentaglio,
spariscono, evaporano nello sfondo drammatico del pericolo e della fine
incombente.
Ho, insomma, a che fare con pene che sembrano immaginate e con
sintomi sfuggenti che possiamo permetterci: sofferenze che nel Triangolo
di Maslow (quello che mette i bisogni primari alla base e quelli più
“sottili” nel vertice alto) stanno tutte in cima… qualche abbandono, sì, alcuni
disturbi gravi, sintomi come il panico o la depressione che non sono fardelli
facili da portare ma niente fame né indigenza né, tanto meno, proiettili,
torture, schiavitù.
Cose da occidentali! Come può esserlo una vignetta che dovrebbe
causare il dolore che causa una presa per il culo: una piccola ferita all’ego…
“come ti permetti, stronzo… lascia stare i miei parenti, la mia squadra di
calcio, il partito, il mio credo, dio…”. O più dolorosi, forse, perché una
sindrome, una nevrosi, un’ossessione, è qualcosa di complesso che intrappola
calamitando l’attenzione e costringendola come possono farlo un mal di denti o
un’emicrania.
Ma davanti “ai fatti” e all’irrompere della minaccia fisica e
all’eventualità di… smettere di esserci, sembrano fantasie, drammatizzazioni,
teatro.
La mappa e il territorio: penso ad un sasso e faccio i conti con un possibile ostacolo
che interromperà il mio cammino e contrasterà la mia volontà o inciampo
davvero in un sasso e cado, mi faccio male. Modi diversi di soffrire. Uno
reale e tangibile, che tutti possono vedere, l’altro soggettivo e relativo,
tarato dalle aspettative, dalle proiezioni e dai desideri e dalla loro
frustrazione.
Eppure è quando siamo immersi nel secondo che troviamo il tempo
per riflettere. Quando i fatti non sono soverchianti c’è tempo per il racconto
delle cose e per una visione che tiene conto delle sfumature, delle
angolazioni, della prospettiva. Fuori dalla battaglia c’è il tempo (e lo
spazio) per raccogliersi e per guardare attentamente ed è come se la
psiche cercasse questo momento e si nutrisse di ciò che può aggiungere ai
fatti. “L’anima sempre metaforizza”, sempre aggiunge significati e tesse,
all’interno degli accadimenti, la rete delle spiegazioni, delle supposizioni,
dei possibili scenari e delle alternative: gli altri mondi possibili, “come
avrebbe potuto essere… se solo… come sarebbe bello se… che ridere se, invece…”.
Questo fa la psiche: racconta, amplifica, aggiunge e cerca
nel mondo delle forze, degli urti, delle resistenze e delle cose, ulteriori
significati, altre trame… epiche, drammatiche, comiche. Sotto al ruminare della
depressione e al ripetere monotono del disturbo ossessivo possiamo scorgere
questa predilezione della mente per i significati, le intenzioni e le analisi.
Sono versioni patologiche di una tendenza spontanea del pensiero che cerca,
fruga, indaga, soppesa… E’ grazie a questo lavoro che possiamo cogliere
sensi che vanno oltre al letterale e che possiamo, ad esempio, capire che
“l’oro e la casa” della frase dell’incipit non sono letteralmente la casa e
l’oro ma ciò che rappresentano: il raccoglimento, la riflessione, l’affetto,
contrapposti all’avidità, al possesso, al cieco potere. Ed è facendo leva
su questa capacità che, chi scrive romanzi, può permettersi di inventare
personaggi che “rappresentano” aspetti della psiche e modi di essere nel
mondo.
E siccome sappiamo costruire e capire una metafora possiamo
distinguere certe sfumature e capire la differenza fra dio e Dio, minuscolo e
maiuscolo, immagine, somiglianza, serio, faceto, tragico, comico. Quando un
paziente può sorridere su una sua sofferenza o può ridere di un suo problema,
comincia a guarire perché riesce a prendere distanza, a guardare sotto un’altra
luce, a relativizzare.
Diventa meno letterale e aggiunge alla “forza” del disturbo un
qualche tipo di grazia, un significato che è ornamento, eleganza, senso e
profondità. La forza senza la grazia è tracotanza, imposizione, mero
esercizio di potere ed essere nelle grinfie di un sintomo è come essere
soggetti ad una dittatura: si subisce l’imposizione del panico o della
depressione o della coazione ripetere senza poter fare nulla finché non si
trova un modo per alleviare la presa che ci costringe nella sofferenza.
E, a parte la farmacologia che, con i suoi principi, può
anestetizzare, coprire o risolvere chimicamente il dolore psichico, l’altro
modo, la cura che pone rimedio e spesso ridimensiona il sintomo, è un “nuovo
ordine”: una re-visione che permette a chi soffre di allentare la morsa che,
letteralmente, crea il dolore della nevrosi, del disturbo o della dipendenza.
Il DSM-V, la bibbia dei “Disordini mentali” parla, appunto, di disordini:
confusioni dolorose che un paziente non riesce a dirimere e a ricollocare.
Spesso si pensa che l’analisi, l’interpretazione e la comprensione del
disturbo, delle reazioni, delle ripetizioni e dei loro correlati patologici sia
la via per aiutare una persona a liberarsene. In fondo è un modo per rimettere
ordine: collocare diversamente certi sforzi, cambiare certe abitudini e
convinzioni che leggono il mondo da un’ottica che lo fa apparire
insostenibile e dolorosamente caotico.
Ma è l’immaginazione che fa, davvero, la differenza! Dentro le
nostre patologie si annidano descrizioni del mondo che, quando cambiano,
cambiano la nostra percezione di noi stessi e di ciò in cui siamo immersi. E
i cambiamenti, quelli psichici ma anche quelli sociali e, addirittura, quelli
economici, nascono da nuove immagini del mondo. I pazienti cambiano quando
riescono ad immaginarsi diversamente, quando escono dal fanatismo del
sintomo e intravedono nuovi modi di raccontarsi.
Lo stesso, con tempi molto più lunghi, accade ai gruppi e alle
società: ogni tanto nuove idee permettono di immaginare mondi diversi e di
tendere verso utopie che mettono in moto forze che creano nuovi scenari e altri
equilibri. Metafore diverse permettono visioni che, prima, non si scorgevano.
L’ordine come grazia: interpretazione diversa delle forze in
gioco e apertura a… mondi con meno vincoli e più possibilità.
Interpretando, in un recente film,
Walt Disney, Tom Hanks dice: “E’ questo che facciamo noi narratori:
ristabiliamo l’ordine con l’immaginazione”. Abbiamo dimore che ci permettono di
riflettere, di immaginare e di raccogliere le nostre energie per farne buon
uso: “Scorgere nella foreste dei vincoli gli alberi delle scelte” (Von
Foerster). Credo sia un dovere, un lusso che possiamo permetterci e che va
sfruttato come un’occasione per aggiungere grazia e fare buon uso della forza.
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