L’esperimento
di Stanford fu condotto nel 1971 da un team di ricercatori diretti dal
Prof. P. Zimbardo della Stanford University. I risultati inattesi fecero sì che
l’esperimento si interrompesse ben prima dei termini previsti.
Secondo
Zinbardo gli individui di un gruppo coeso che rappresenta una folla, tendono a
perdere l’identità personale, il senso di responsabilità e la consapevolezza
manifestando così anche impulsi antisociali.
La
sperimentazione fu condotta nel seminterrato dell’Istituto di Psicologia
dell’Università di Stanford dove fu riprodotto fedelmente un ambiente
carcerario.
Degli
studenti, circa 75, che risposero ad un annuncio apparso su un quotidiano che
chiedeva volontari per una ricerca, ne furono scelti 24, maschi, apparentemente
maturi ed equilibrati, lontani da comportamenti devianti, di ceto medio.
Ci
si chiese anzitutto:
Cosa succede se si mette della
brava gente in un posto "cattivo"? Riuscirà
il bene a vincere sul male o, piuttosto, trionferà il male?
“La ricerca, la cui durata
prevista era di due settimane, dovette essere interrotta dopo soli 6 giorni a
causa del forte impatto che la situazione ebbe sugli studenti universitari che
vi presero parte. In pochissimi giorni, infatti, le nostre guardie divennero
sadiche mentre i nostri prigionieri mostrarono segni evidenti di depressione e
stress.”
Gli
studenti assunsero casualmente i ruoli di detenuti o di guardie. I prigionieri
furono obbligati a indossare ampie divise sulle
quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica,
e fu loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una
rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da
sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi,
erano dotate di manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro ampia
discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine. Tale
abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di de-individuazione.
Ognuno di loro entrò pienamente nel suo ruolo e dopo appena due
giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono
le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le
guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli cercando in tutte le
maniere di spezzare il legame di solidarietà che si era sviluppato fra essi. Le
guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in
secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine a mani nude.
A fatica le guardie e il direttore del carcere (lo stesso Zimbardo) riuscirono
a contrastare un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti. Al
quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione
individuale e collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, il loro
rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi, mentre
per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A
questo punto i ricercatori interruppero l’esperimento suscitando da un lato la
soddisfazione dei carcerati, ma dall’altro, un certo disappunto da parte delle
guardie.
“Siamo soliti pensare che il
bene e il male siano due entità contrapposte e tra loro ben separate, così come
i buoni e i cattivi che riteniamo tali per una loro interna disposizione. Per
effetto di questa comoda schematizzazione che ci rende innocenti a buon prezzo,
noi, che ci pensiamo «buoni», escludiamo di poterci trasformare nel giro di
poco tempo in carnefici crudeli, attori in prima persona di quelle atrocità che
ci fanno inorridire quando le leggiamo nei resoconti di cronaca o le vediamo in
tv.”
La prigione finta era divenuta una prigione vera e assunse una
funzione di controllo sugli altri.
Le tesi alla base di questo esperimento vennero analizzate da
Zimbardo in un suo saggio del 2007 (in Italia, pubblicato nel 2008) intitolato l’effetto Lucifero. Ci si chiese
soprattutto come fu possibile che degli uomini intelligenti, mentalmente
sani e assolutamente “normali” diventassero, in così poco tempo, dei
perpetratori del male?
“Avevamo creato una situazione
in cui i prigionieri, uno dopo l’altro, stavano mollando o comunque
manifestando una serie di comportamenti patologici, mentre le guardie
diventavano sempre più sadiche. Di queste ultime, nessuna si ritirò mentre lo
studio era in corso, si presentò mai in ritardo, si assentò per malattia, andò
via in anticipo o chiese un pagamento extra per il lavoro fuori orario.”
L’esperimento,
come già detto, si concluse in anticipo. Le registrazioni video avevano
mostrato l’intensificarsi degli abusi commessi dalle guardie ai danni dei prigionieri
nel cuore della notte, quando credevano che l’esperimento fosse “spento” e che
nessun ricercatore li stesse osservando. La noia li aveva condotti a compiere
abusi sempre più ignobili e a carattere pornografico.
Christina
Maslach, una dottoranda di Stanford che visitò la struttura e intervistò guardie
e prigionieri, mostrò tutto il suo dissenso nel vedere questi ragazzi in fila
per il bagno coi sacchetti in testa, con le gambe incatenate, con le mani l’uno
sulla spalla dell’altro. Disse:
“E’ terribile quello che state facendo!”.
Dopo
soli sei giorni, quindi, quello che doveva essere uno studio simulato di due
settimane sulla vita in prigione venne dichiarato concluso.
Ecco
le dichiarazioni di uno dei finti detenuti:
“Cominciai a rendermi conto che
stavo perdendo la mia identità, che la persona che chiamavo Clay, la persona che mi condusse in
questo posto, la persona che si offrì volontaria per entrare in questo carcere
– perché per me era un carcere e lo è ancora – era lontana da me, così lontana
che alla fine non aveva più nulla a che fare con me, io ero il 416. Ero il mio
numero. Non lo considero un esperimento o una simulazione ma una prigione
gestita da psicologi invece che dallo stato”
Si
riporta qui di seguito una dichiarazione rilasciata invece da un reale
detenuto:
“Sono stato da poco liberato
dopo trentasette mesi di cella di isolamento. Mi è stato imposto il silenzio
assoluto e se appena sussurravo qualcosa all’uomo della cella accanto venivo
picchiato dalle guardie, cosparso di una sostanza chimica, sbattuto in una
cella ancora più piccola, denudato e costretto a dormire su un pavimento in
cemento, senza coperte, senza lavabo e senza water… E’ giusto che i ladri
vengano puniti, e non giustifico il fatto di rubare sebbene io stesso sia un
ladro. Una volta libero, non credo che tornerò a rubare. Questo non vuol dire
però che mi abbiano riabilitato. Adesso penso solo ad uccidere – uccidere
quelli che mi hanno picchiato e trattato come se fossi un cane.
Spero e prego
per il bene della mia anima e per la libertà futura, spero di riuscire a
sconfiggere l’amarezza e l’odio che giorno dopo giorno mi corrodono l’anima. Ma
so che non sarà facile”.
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