La solitudine dell'anima
La solitudine come rifugio ai tempi del social network
di Luciana Sica, la repubblica
Eugenio
Borgna analizza il tema dell'isolamento in un mondo sempre connesso.
Separarsi
temporaneamente dalle occupazioni quotidiane aiuta a farci rientrare nella
nostra interiorità e a recuperare una dimensione creativa. Senza perdere la
nostalgia degli altri.
Eugenio
Borgna riscatta la qualità della solitudine in un mondo ammaliato dal digitale,
eccitato e oppresso dal perenne collegamento con tutto e con tutti. Non ha però
un taglio sociologico, il suo nuovo libro, e tanto meno un odore nostalgico:
piuttosto è radicalmente controcorrente. È un elogio della scelta libera di
stare soli, senza la presenza costante degli altri, un'apologia di quella
esperienza umana e psicologica che è precondizione di ogni pensiero critico e
di ogni attività creativa. Il titolo è La solitudine dell'anima
(Feltrinelli, pagg. 198, euro 15), l'autore è uno psichiatra che ricorre alla
letteratura e alla filosofia non per una sua improbabile civetteria, ma per
restituire l'infinita complessità del nostro mondo interno ("la
psichiatria ha bisogno della poesia", scrive lui con audacia).
Cos'è per
lei la solitudine e perché si differenzia dallo stato d'isolamento?
«Solitudine
e isolamento sono due modi radicalmente diversi di vivere, anche se spesso
vengono identificati. Essere soli non vuol dire sentirsi soli, ma separarsi
temporaneamente dal mondo delle persone e delle cose, dalle quotidiane
occupazioni, per rientrare nella propria interiorità e nella propria
immaginazione - senza perdere il desiderio e la nostalgia della relazione con
gli altri: con le persone amate, e con i compiti che la vita ci ha affidato.
Siamo isolati invece quando ci chiudiamo in noi stessi, perché gli altri ci
rifiutano o più spesso sulla scia della nostra stessa indifferenza, di un
egoismo tetro che è l'effetto di un cuore arido o inaridito».
Perché la
solitudine si nutre di silenzio e l'isolamento è impastato di mutismo?
«Perché
nella solitudine, così ricca di vita interiore, il silenzio ha un suo eros e un
suo proprio linguaggio: dice le nostre malinconie, le angosce, le speranze
inespresse, i timori, le attese. Dice i nostri desideri più autentici. Il
silenzio ha mille modi di manifestare qualcosa e di nasconderla, di indicare e
di alludere, di avvicinarsi e di allontanarsi, di affascinare e di intimorire.
Quando invece si è isolati, distaccati dal mondo, monadi dalle porte e dalle
finestre chiuse, non si hanno pensieri ed emozioni da trasmettere agli altri.
Senza più parole, si sprofonda in un mutismo che ha un'unica dimensione: quella
dell'insignificanza».
Ma noi
siamo immersi nell'era dell'incantamento per il digitale, dove l'intimità viene
esteriorizzata attraverso i social network, probabilmente in fuga dal senso di
vuoto che deriva dall'assenza di legami reali, certamente in grado di
comunicare rapidamente con chiunque. Sarà ancora possibile recuperare il senso
più prezioso della solitudine?
«Lei tocca
un aspetto emblematico della condizione umana di oggi, e di quella giovanile in
particolare: la tendenza ai contatti de-emozionalizzati che rispondono ai
bisogni del momento e s'inceneriscono senza lasciare tracce nel cuore e nella
memoria. Non c¿è dubbio che oggi la solitudine è sempre più difficile da
salvare, e da vivere, perché siamo trascinati in un vortice di sensazioni
esteriori che non ci danno più nemmeno il tempo per pensare a noi stessi, per
confrontarci con i nostri segreti, con il manzoniano guazzabuglio delle
emozioni che sono in noi, con le cose che non vorremmo ricordare e tornano alla
memoria, con l'autenticità o l'inautenticità delle relazioni che abbiamo con
gli altri: in fondo, con il mistero del vivere e del morire».
La
solitudine - come lei l'intende - non è allora destinata ad essere la
prerogativa di una minoranza di anime belle?
«No,
perché la solitudine, come io l'intendo, non è solo un'esperienza interiore di
pochi eletti, ma al contrario è una matrice ideale di cambiamento relazionale e
culturale, politico e sociale, e in ultima istanza ragione di vita storicamente
significativa. È indispensabile ritrovare i valori inalienabili della
riflessione critica e della solidarietà, dell'impegno etico nella politica, del
rispetto radicale delle persone, e delle loro differenze - trasferendo la
coscienza di questi valori in quella che è l'azione quotidiana, la
testimonianza personale di ciascuno di noi».
Alcune
pagine iniziali del suo libro rievocano un film di Bergman del '71: è
"Sussurri e grida". Perché le ha scritte?
«Perché
quelle quattro donne vestite di bianco declinano i diversi linguaggi
paradigmatici della solitudine. C'è Agnese, ormai divorata dalla malattia, che
anche nelle ultime ore non perde nulla della sua sensibilità, mai è chiusa in
se stessa ma aperta a un dialogo con la memoria e con l'attesa misteriosa della
morte. Accanto a lei c'è Anna, una giovane donna capace di condividere quel
destino come fosse il suo. Poi ci sono le due sorelle di Agnese - Karin e Maria
- imprigionate invece in una solitudine che rappresenta l'isolamento più
egocentrico, il deserto delle emozioni, l'indifferenza ghiacciata all'amore e
alla solidarietà, in un'insana idolatria dell'io, del corpo, della bellezza».
"Tutta
l'infelicità dell'uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza
da solo": la solitudine dell'anima non si potrebbe riassumere in
quest'aforisma di Pascal?
«Leggo
Blaise Pascal dai tempi del liceo, eppure questa volta la folgorante incisività
del suo pensiero non si è levata in volo dai quartieri della mia memoria. Sì,
nell'aforisma pascaliano - che coglie la radicale dimensione esistenziale della
solitudine: della fatica, e anzi dell'incapacità, di viverla - non si potrebbe
riassumere meglio il senso trainante del mio libro. Mi spiace anche non aver
citato una bella riflessione leopardiana, e lo faccio qui sintetizzando al
massimo: la solitudine "ci ringiovanisce"».
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