domenica 26 gennaio 2014

Coazione a ripetere...Tratto da "Forme Vitali"




La coazione a ripetere e il metodo pericoloso

“Ciò che è rimasto capito
male ritorna sempre;
come un’anima in pena,
non ha pace finchè non
ottiene soluzione e liberazione”
S.Freud


Nel “secondo libro” de “I fratelli Karamàzov” Dostoevskij parla di “Un dolore che cola in lamentazioni” e “Le lamentazioni non gli danno alcun ristoro fuorchè quello di esulcerare e di lacerare il cuore. E’ un dolore che non desidera neppure trovare consolazione: si nutre del suo senso di essere inconsolabile. Le lamentazioni sgorgano da un bisogno di rinfiammare costantemente la piaga”.

Tante volte in seduta ho visto questo tipo di dolore. In certe persone che soffrono di depressione, in particolare, capita di vedere una sorta di continuo ruminare su un’idea che provoca dolore, senza riuscire, tuttavia, a cavar niente da quell’idea se non altri lamenti. Eppure proprio come dice Freud nella frase dell’incipit, mentre sto ad ascoltare ho l’impressione che qualcosa, sotto al lamento, cerchi una liberazione e una soluzione.

Lo stesso accade con certi gesti e certe azioni che continuamente si ripetono quasi fossero dei riti. In seduta questi gesti vengono raccontati nelle descrizioni che la persona fa della propria vita.

Un mio paziente che giocava d’azzardo mi raccontava, ad esempio, della fatica di procurarsi un po’ di euro per precipitarsi in un bar e buttarli velocemente nella slot machine senza nemmeno più la speranza di vincere ma così “per il bisogno di giocare”. Quando gli feci notare che è uno strano “gioco” quello che ripetendosi sembra volere solo se stesso: senza sfoghi, senza particolari vittorie ma solo con l’esigenza della ripetizione, mi rispose che non riusciva nemmeno a pensare alla propria vita senza il senso di tranquillità che veniva dal buttare i soldi in una “macchinetta”.

Era consapevole del disastro che il vizio del gioco stava causando alla sua vita, si rendeva conto dei debiti, degli sguardi di compatimento che gli altri gli rivolgevano e del “distacco da tutto il resto” che la sua abitudine creava. Ma continuava a chiamare tranquillità quello stato d’animo che provava quando, dopo essersi procurato i soldi, riusciva a perderli, quando riusciva a svuotarsi dopo essersi riempito.

Allo stesso modo e quasi con le stesse parole una paziente affetta da bulimia una volta mi disse che provava sazietà non dopo essersi abbuffata ma solo dopo avere vomitato tutto quello che aveva ingerito. “Solo allora mi sento tranquilla; solo così elimino, per un po’, la tensione.”

Nell’Enciclopedia di Psicoanalisi gli autori (J.Laplanche e J.B.Pontalis) spiegano che la coazione a ripetere è: “A livello di psicopatologia concreta, quel processo incoercibile e di origine inconscia con cui il soggetto si pone attivamente in situazioni penose, ripetendo così vecchie esperienze senza ricordarsi il prototipo e con invece l’impressione di qualcosa che è pienamente motivato dalla situazione attuale”.

Nei lamenti del depresso, nei gesti stereotipati del giocatore d’azzardo, nel rituale bulimico quello che vediamo all’opera è proprio questa tendenza a ripetere, questo bisogno incoercibile di compiere dei gesti che non producono un risultato, non risolvono niente e, proprio per questo, hanno bisogno di essere continuamente ripetuti. Anche dopo avere messo in atto le azioni che dovrebbero portare sollievo, i giocatori patologici rimangono scontenti, i bulimici affamati, i depressi soli e sconsolati.

E’ come se il prototipo, l’esperienza originale che fa da stampo a tutte le altre e che è un po’ il primo anello della catena non venisse mai a galla, creando così l’esigenza della ripetizione e, allo stesso tempo, la sua inutilità.

Per usare un’altra metafora si può dire che ciò che vorremmo scoprire o capire fino in fondo continua a dare segno di sé e, contemporaneamente, a nascondersi, rendendo la ricerca vana e infinita.

In una delle sue intense poesie la scrittrice Emily Dickinson dice: “Il cuore non dimentica / finchè non contempla / ciò che rifiuta”. Sembra che, allo stesso modo, la mente che non riesce a vedere bene ciò contro cui lotta, che non riesce a capire cosa sta cercando veramente di evitare, continui, ossessivamente, a rimettere in scena la propria protesta cercando esperienze penose in cui combattere contro un fantasma per perdere, ancora una volta, la battaglia.

Tutto questo (e un bel po’ di varianti sul tema) è la coazione a ripetere e gli esempi clinici che ho fatto poc’anzi non sono che estremizzazioni di ciò che accade ad ognuno di noi: è facile vedere la reiterazione di certi comportamenti quando si osservano fenomeni macroscopici come il gioco compulsivo, le tossicodipendenze o i disturbi alimentari, ma basta guardare un po’ più in profondità nelle nostre vite per accorgerci di quanto questo meccanismo influenzi più o meno profondamente il nostro comportamento quotidiano, il nostro stile di vita e le nostre abitudini.

Portare un individuo a contemplare ciò a cui realmente si oppone e a diventare consapevole di quale sia il vero nemico è forse il compito più ambizioso di qualsiasi metodo che si ponga come obiettivo quello di aiutare la persona a liberarsi dalle proprie catene.

E ogni metodo che si ponga un tale obiettivo merita l’appellativo che William James diede alla Psicoanalisi (allora agli albori). La definì infatti metodo pericoloso perché si accorse che i pazienti avrebbero ripetuto in seduta ciò che non erano in grado di vedere. Capì che ai terapeuti sarebbe stata posta una scelta cruciale: rispondere ai pazienti nello stesso modo in cui rispondevano ai loro eccessi e alle pulsioni le persone della loro vita: rispondere all’odio con dell’altro odio, al desiderio con altro desiderio; oppure aiutarli a prendere coscienza di cosa veramente li costringesse ad agire certe spinte, a combattere gli avversari sbagliati. Ciò che rende pericoloso il metodo è l’oggetto stesso su cui il metodo si applica.

Chi fa il mio lavoro sa, perché lo ha provato nella pratica, che chi è depresso si lamenta anche della terapia che sta facendo, che i bulimici hanno la tendenza ad abbuffarsi con i contenuti della seduta per rigettarli subito dopo e per non sentirsi mai sazi e che il giocatore d’azzardo scommette, senza volerlo, contro la riuscita della terapia. Sa anche che è utile che tutto ciò avvenga perché, nello spazio della seduta, sarà possibile affrontare in un modo diverso quell’anima in pena che nella ripetizione cerca soluzione e liberazione.

Perché questo avvenga e per porre fine al circolo vizioso occorre, innanzitutto, vedere l’individuo dietro al sintomo e riconoscere quelle forze che, nella persona, spingono per “rompere l’incantesimo” e per uscire dalla trappola.
E’ un lavoro su cui sono stati scritti migliaia di libri e su cui io, in questo blog, faccio solo alcuni accenni, nelle cronache.

Ma questo è un saggio semi serio; pone solo domande e dà spunti per la riflessione: ci sono metodi meno pericolosi?, privi di rischi, che garantiscano un risultato senza lo sforzo di esporsi e senza il pericolo di andare a sbattere insieme contro la sofferenza che, scavando, verrà a galla?

Ci sono!….Sono “innocui”, inefficaci, redditizi.

Si possono fare “pubblicità progresso” contro i disturbi alimentari e inserirle con cura fra un blocco di spot sulle merendine e un altro in cui modelle filiformi indossano taglia 38.
Si può, (si deve!) mettere alla fine di ogni promozione televisiva di poker on line l’avviso “gioca con moderazione”.
Si può suggerire a tutta la popolazione, subito dopo una catastrofe, di andare avanti a fare la vita di sempre: il consiglio che G.W.Bush e Rudolph Giuliani diedero agli abitanti di New York subito dopo l’11 settembre fu “uscite a fare shopping”.

O possiamo usare un metodo pericoloso: fermarci un attimo e riflettere, e, parafrasando solo un po’ E. Dickinson, contemplare ciò che stiamo rifiutando! Renderci conto di cosa vogliamo lasciarci davvero alle spalle!

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