La coazione a ripetere e il metodo pericoloso
“Ciò che è rimasto capito
male ritorna sempre;
come un’anima in pena,
non ha pace finchè non
ottiene soluzione e liberazione”
S.Freud
Nel “secondo libro” de “I fratelli Karamàzov” Dostoevskij
parla di “Un dolore che cola in lamentazioni” e “Le lamentazioni non gli danno
alcun ristoro fuorchè quello di esulcerare e di lacerare il cuore. E’ un dolore
che non desidera neppure trovare consolazione: si nutre del suo senso di essere
inconsolabile. Le lamentazioni sgorgano da un bisogno di rinfiammare
costantemente la piaga”.
Tante volte in seduta ho visto questo tipo di dolore. In
certe persone che soffrono di depressione, in particolare, capita di vedere una
sorta di continuo ruminare su un’idea che provoca dolore, senza riuscire,
tuttavia, a cavar niente da quell’idea se non altri lamenti. Eppure proprio
come dice Freud nella frase dell’incipit, mentre sto ad ascoltare ho
l’impressione che qualcosa, sotto al lamento, cerchi una liberazione e una
soluzione.
Lo stesso accade con certi gesti e certe azioni che
continuamente si ripetono quasi fossero dei riti. In seduta questi gesti
vengono raccontati nelle descrizioni che la persona fa della propria vita.
Un mio paziente che giocava d’azzardo mi raccontava, ad
esempio, della fatica di procurarsi un po’ di euro per precipitarsi in un bar e
buttarli velocemente nella slot machine senza nemmeno più la speranza di
vincere ma così “per il bisogno di giocare”. Quando gli feci notare che è uno
strano “gioco” quello che ripetendosi sembra volere solo se stesso: senza
sfoghi, senza particolari vittorie ma solo con l’esigenza della ripetizione, mi
rispose che non riusciva nemmeno a pensare alla propria vita senza il senso di
tranquillità che veniva dal buttare i soldi in una “macchinetta”.
Era consapevole del disastro che il vizio del gioco stava
causando alla sua vita, si rendeva conto dei debiti, degli sguardi di
compatimento che gli altri gli rivolgevano e del “distacco da tutto il resto”
che la sua abitudine creava. Ma continuava a chiamare tranquillità quello stato
d’animo che provava quando, dopo essersi procurato i soldi, riusciva a
perderli, quando riusciva a svuotarsi dopo essersi riempito.
Allo stesso modo e quasi con le stesse parole una paziente
affetta da bulimia una volta mi disse che provava sazietà non dopo essersi
abbuffata ma solo dopo avere vomitato tutto quello che aveva ingerito. “Solo
allora mi sento tranquilla; solo così elimino, per un po’, la tensione.”
Nell’Enciclopedia di Psicoanalisi gli autori (J.Laplanche e
J.B.Pontalis) spiegano che la coazione a ripetere è: “A livello di
psicopatologia concreta, quel processo incoercibile e di origine inconscia con
cui il soggetto si pone attivamente in situazioni penose, ripetendo così
vecchie esperienze senza ricordarsi il prototipo e con invece l’impressione di
qualcosa che è pienamente motivato dalla situazione attuale”.
Nei lamenti del depresso, nei gesti stereotipati del
giocatore d’azzardo, nel rituale bulimico quello che vediamo all’opera è
proprio questa tendenza a ripetere, questo bisogno incoercibile di compiere dei
gesti che non producono un risultato, non risolvono niente e, proprio per
questo, hanno bisogno di essere continuamente ripetuti. Anche dopo avere messo
in atto le azioni che dovrebbero portare sollievo, i giocatori patologici
rimangono scontenti, i bulimici affamati, i depressi soli e sconsolati.
E’ come se il prototipo, l’esperienza originale che fa da
stampo a tutte le altre e che è un po’ il primo anello della catena non venisse
mai a galla, creando così l’esigenza della ripetizione e, allo stesso tempo, la
sua inutilità.
Per usare un’altra metafora si può dire che ciò che vorremmo
scoprire o capire fino in fondo continua a dare segno di sé e,
contemporaneamente, a nascondersi, rendendo la ricerca vana e infinita.
In una delle sue intense poesie la scrittrice Emily Dickinson
dice: “Il cuore non dimentica / finchè non contempla / ciò che rifiuta”. Sembra
che, allo stesso modo, la mente che non riesce a vedere bene ciò contro cui
lotta, che non riesce a capire cosa sta cercando veramente di evitare,
continui, ossessivamente, a rimettere in scena la propria protesta cercando
esperienze penose in cui combattere contro un fantasma per perdere, ancora una
volta, la battaglia.
Tutto questo (e un bel po’ di varianti sul tema) è la
coazione a ripetere e gli esempi clinici che ho fatto poc’anzi non sono che
estremizzazioni di ciò che accade ad ognuno di noi: è facile vedere la
reiterazione di certi comportamenti quando si osservano fenomeni macroscopici
come il gioco compulsivo, le tossicodipendenze o i disturbi alimentari, ma
basta guardare un po’ più in profondità nelle nostre vite per accorgerci di
quanto questo meccanismo influenzi più o meno profondamente il nostro
comportamento quotidiano, il nostro stile di vita e le nostre abitudini.
Portare un individuo a contemplare ciò a cui realmente si
oppone e a diventare consapevole di quale sia il vero nemico è forse il compito
più ambizioso di qualsiasi metodo che si ponga come obiettivo quello di aiutare
la persona a liberarsi dalle proprie catene.
E ogni metodo che si ponga un tale obiettivo merita
l’appellativo che William James diede alla Psicoanalisi (allora agli albori).
La definì infatti metodo pericoloso perché si accorse che i pazienti avrebbero
ripetuto in seduta ciò che non erano in grado di vedere. Capì che ai terapeuti
sarebbe stata posta una scelta cruciale: rispondere ai pazienti nello stesso
modo in cui rispondevano ai loro eccessi e alle pulsioni le persone della loro
vita: rispondere all’odio con dell’altro odio, al desiderio con altro
desiderio; oppure aiutarli a prendere coscienza di cosa veramente li
costringesse ad agire certe spinte, a combattere gli avversari sbagliati. Ciò
che rende pericoloso il metodo è l’oggetto stesso su cui il metodo si applica.
Chi fa il mio lavoro sa, perché lo ha provato nella pratica,
che chi è depresso si lamenta anche della terapia che sta facendo, che i
bulimici hanno la tendenza ad abbuffarsi con i contenuti della seduta per
rigettarli subito dopo e per non sentirsi mai sazi e che il giocatore d’azzardo
scommette, senza volerlo, contro la riuscita della terapia. Sa anche che è
utile che tutto ciò avvenga perché, nello spazio della seduta, sarà possibile
affrontare in un modo diverso quell’anima in pena che nella ripetizione cerca
soluzione e liberazione.
Perché questo avvenga e per porre fine al circolo vizioso
occorre, innanzitutto, vedere l’individuo dietro al sintomo e riconoscere
quelle forze che, nella persona, spingono per “rompere l’incantesimo” e per
uscire dalla trappola.
E’ un lavoro su cui sono stati scritti migliaia di libri e su
cui io, in questo blog, faccio solo alcuni accenni, nelle cronache.
Ma questo è un saggio semi serio; pone solo domande e dà
spunti per la riflessione: ci sono metodi meno pericolosi?, privi di rischi,
che garantiscano un risultato senza lo sforzo di esporsi e senza il pericolo di
andare a sbattere insieme contro la sofferenza che, scavando, verrà a galla?
Ci sono!….Sono “innocui”, inefficaci, redditizi.
Si possono fare “pubblicità progresso” contro i disturbi
alimentari e inserirle con cura fra un blocco di spot sulle merendine e un
altro in cui modelle filiformi indossano taglia 38.
Si può, (si deve!) mettere alla fine di ogni promozione
televisiva di poker on line l’avviso “gioca con moderazione”.
Si può suggerire a tutta la popolazione, subito dopo una
catastrofe, di andare avanti a fare la vita di sempre: il consiglio che
G.W.Bush e Rudolph Giuliani diedero agli abitanti di New York subito dopo l’11
settembre fu “uscite a fare shopping”.
O possiamo usare un metodo pericoloso: fermarci un attimo e
riflettere, e, parafrasando solo un po’ E. Dickinson, contemplare ciò che
stiamo rifiutando! Renderci conto di cosa vogliamo lasciarci davvero alle
spalle!
Nessun commento:
Posta un commento