Ripetere, ricordare, dimenticare
Posted on 16/10/2013 di drdedalo
“Gli analfabeti del futuro sono
quelli che non sapranno
dimenticare quello che hanno
imparato per reimparare”
(M. Zamperini)
Nel suo “The pleasure of finding
things out” il fisico Richard Feyman, parlando del senso della vita, scrive:
“Nel corso dei tempi gli uomini hanno tentato di afferrare il significato della
vita. Si è capito, infatti, che se una qualche direzione o un qualche
significato può essere attribuito alle nostre azioni, questa attribuzione è in
grado di liberare grandi potenziali umani. Penso che saranno quindi state date
molte risposte alla domanda che chiedeva il senso di tutto questo. Ma ne sono
state dette di tutti i colori e chi proponeva una certa risposta ha guardato
con orrore alle azioni di altri che ne proponevano un’altra. Un orrore dettato
dal fatto che, guardando da un punto di vista diverso, sembrava che tutte le
potenzialità della razza umana venissero, con quella visione, incanalate in un
falso e fuorviante vicolo cieco. Infatti, è dalla storia delle enormi
mostruosità create dai falsi credo che i filosofi si sono resi conto delle
apparentemente infinite e stupefacenti capacità degli esseri umani. Il sogno
rimane quello di trovare un canale aperto (NdT: libero da queste
contraddizioni).
Quindi, qual è il significato di
tutto questo? Cosa possiamo dire per svelare il mistero dell’esistenza? Se
prendiamo in considerazione tutto, non solo ciò che gli antichi conoscevano, ma
tutto ciò che conosciamo noi oggi, penso che dobbiamo francamente ammettere che
non lo sappiamo. Ma ammettendolo abbiamo probabilmente trovato il canale
aperto.”
In psicologia e nella clinica in
particolare questo canale aperto è quella posizione che ci permette di lasciare
in sospeso la risposta: quello stato relazionale nel quale possiamo prenderci
il lusso di dimenticare ciò che sappiamo, di prescindere per un po’ dalle
nostre risposte per ascoltare l’altro.
Siamo pieni di risposte e di
significati più o meno globali della vita e questi significati, queste
convinzioni maturate nel corso dell’esistenza, sono una sorta di bagaglio che
portiamo con noi, una mappa con la quale interpretiamo il mondo.
Alcune sono talmente radicate che
diventano una sorta di sfondo, qualcosa con cui ci identifichiamo: una
vibrazione di fondo che ci rappresenta a tal punto che, se non indagata,
diventa una sorta di Io sostitutivo, quel “qualcuno di cui sono talmente
convinto che, da lì in poi, non c’è più bisogno che io pensi”.
E laddove smettiamo di pensare…
rispondiamo, passiamo all’azione, sosteniamo il nostro punto di vista e, in
base a quello, interveniamo sulle cose e con le persone, lasciamo da parte i
dubbi e le disquisizioni e ci immergiamo nel fare.
Non c’è niente di male in tutto
questo; se continuassimo ad analizzare e a riflettere, se non prendessimo mai
posizione e sospendessimo continuamente il giudizio, saremmo condannati
all’immobilismo e ad un inflazione del pensiero, ad un continuo soppesare che
non porterebbe a niente.
Per percepire bisogna agire. Solo
sperimentando e entrando in contatto con il mondo possiamo cogliere le
differenze e toccare con mano. Il bambino, il bambino che siamo stati, tocca,
porta alla bocca, ripete, ripete, ripete.
E’ facendo così che abbiamo
“portato dentro” gli oggetti e che ci siamo costruiti una mente, è continuando
ad andare a caccia di informazioni che accumuliamo esperienza e ricordiamo:
riteniamo dentro di noi come conoscenza le cose che abbiamo appreso, preso da
fuori.
Ripetiamo e ricordiamo e,
facendolo, consolidiamo ciò che siamo.
E’ così nei riti, nelle
abitudini, nelle routine e nei copioni consolidati con cui interagiamo nella
vita quotidiana. Proprio come un linguaggio, proprio come nel linguaggio, le
cose che abbiamo appreso si accostano e si legano fra di loro creando una sorta
di sintassi: una grammatica interna con la quale leggiamo il mondo.
Senonché… senonché, ogni tanto,
ci accorgiamo che altri la pensano in un modo diverso, che ci sono punti di
vista distanti con cui ci tocca (ci tocca in tanti sensi: ci tocca per forza,
ci urta, lo troviamo toccante…) fare i conti. Possiamo condividerli o opporci,
trovarli interessanti, inquietanti, diversi, stupidi, incomprensibili.
A volte queste mappe, le visioni
del mondo in cui ci imbattiamo, si incastrano bene con le nostre, i linguaggi
sono simili, sembra di parlare due dialetti non tanto diversi e… ci si capisce.
In quei casi basta rispolverare qualche vecchia risorsa che da bambini abbiamo
appreso: basta ripetere e far ripetere, ricordare e condividere i ricordi:
vedere quanto ci si assomiglia e cosa si ha in comune.
Ci si sintonizza, insomma, si
cerca di grokkare,come diceva Heinlein: di capire, proprio bene, fino in fondo
ciò che il linguaggio dell’altro comunica, ciò che la sua mente intende e che
la sua anima sente.
Si riesce, a volte. Se non si è
troppo rigidi! Si riesce se per un po’ ci si dimentica di sé, delle proprie
convinzioni e di qualche parte della propria mappa.
Le volte in cui non si riesce,
quelle volte in cui non si è in grado di fare spazio ad altri punti di vista e
ci si fissa nel proprio… si ripete: ci si ostina in una posizione, si fatica a
capire, ci si irrigidisce.
In altre parole ci si comporta
come quello scorpione di una favola indiana, che, volendo attraversare un fiume
e non sapendo nuotare chiede aiuto ad una rana. La rana, all’inizio rifiuta ma
poi si lascia convincere dalla buona motivazione dello scorpione che le spiega
che non gli converrebbe pungerla perché anche lui, se lei morisse a metà del
guado, affogherebbe. In mezzo al fiume, inesorabilmente, lo scorpione punge. E
quando la rana morente lo lascia cadere in acqua non ha altro da dire che “
cosa vuoi farci… è la mia natura”.
Lo scorpione è l’analfabeta
dell’incipit: non cambia perché non è in grado di dimenticare una
caratteristica che diventa, così, la sua natura.
E la riflessione di Feyman è un
monito e un invito a lasciare aperto il canale: a non chiudersi involutivamente
in ciò che si sa e si “è”.
Questa apertura non è, solo,
“tolleranza per il diverso/apertura all’altro/integrazione”, buone cose, ottime
intenzioni, spesso, principi morali che combattono una rigidità che sembra
immune, proprio come lo scorpione, ad ogni buon proposito.
Il dimenticare è un gesto attivo:
è la volontà di non dare risposte assolute e di continuare ad interrogarsi. Non
è smettere di avere memoria ma, piuttosto, rendere attivo anche il ricordare:
sapere dove stiamo pescando, distinguere lo sfondo su cui proiettiamo le nostre
idee, smettere di ripetere inconsapevolmente per lasciare spazio alla scoperta.
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