Il testo presentato è un percorso nelle realtà dell'amicizia.
Sentimento lungamente omaggiato, che può non rivelarsi affatto positivo.
Descritto da Crepet come una pianta grassa: "Può morire per eccesso di
acqua, così come l'amicizia per eccesso d'affetto". E più nobile
dell'amore, secondo lo psichiatra. " Al tempo di mia nonna una sua amica
era la vicina che possedeva la farina e poteva aiutarla- spiega - Erano
rapporti veri". Sono implosi, a suo dire, "quando tutti hanno
iniziato ad avere la farina". Risultato, la ristrettezza dei rapporti, la
conclusione dell'autore. Il quale, però, non vede tutto nero. La crisi può
aiutare a riscoprire l'amicizia. Anche se oggi il mondo si fonda sulle
comodità, "ed io trovo orrendo tutto ciò che è comodo", ha rivelato.
Stoccata a Facebook ed al mondo dei social network ("ma alla fine dove lo
trovano tutto quel tempo per fare i followers?", il suo commento).
Sfruttano o si avvalgono, a seconda delle opinioni, della propensione
all'amicizia. Così “molti si illudono di coltivare vere amicizie virtuali”, ha
rilanciato Crepet.
Il suo libro tratta le diverse sfaccettature amicali. Il
legame tra uomini, tra donne o l'amicizia nascente sul luogo di lavoro. Senza
dimenticare l'amico immaginario. Entrando nei vari campi della natura umana,
alcuni ripercorsi durante l'incontro. Un'ora per esprimere i suoi pensieri,
arricchendoli di sempre nuove metafore e sottile ironia. Con l'aggiunta di una
lucida visione del mondo, non temendo di avere opinioni controcorrente. Ad
esempio quando ha spiegato che, nonostante gli indubbi danni materiali, ben
venga la crisi. E' un buon punto di ripartenza per riscoprire, a suo dire, la
genuinità dei rapporti. Provando a "rammendare qua e là, come fosse un
maglione di cashmere- questa l'immagine donata da Crepet - visto che la nostra
comunità prima era roba buona". O, ancora, il tema della gioventù.
"Fuga dei cervelli? Sono contento- ha affermato - Significa che abbiamo
cervelli italiani. Che soprattutto hanno voglia di scappare. Non c'è niente di
male nel lavorare all'estero" - questa la sua visione. Considerato che la
società attuale è "sempre più reality che vita", ha sottolineato.
Oppure parlando dei giovani e del rapporto d'amicizia, descritto nel libro,tra
madre e figlio. Che rischia, a parere del professore, di trasformare i figli in
"piccoli budda", sempre al centro dell'attenzione. Conseguenza,
"genitori invertebrati ed adolescenti saccenti", ha, solo in parte,
ironizzato Crepet. Il libro è dedicato ad alcuni suoi amici. "Sono molto
pochi - spiega Crepet - Ma averne pochi è segno positivo. Significa che abbiamo
ben vissuto".
Sull'amicizia
Elogio dell'amicizia PDF
Potrebbe essere interessante leggere quel che ne pensava
Cicerone ai tempi in cui non c’era Facebook .
“LAELIUS DE AMICITIA” di MARCO TULLIO CICERONE
Collocazione storico-letteraria
Scritto nel 44 a.C. – dopo le idi di Marzo, di cui risente
l’effetto nello stile e nei contenuti, e prima del novembre 44, essendo già
menzionato come compiuto nel De officiis - a poca distanza dal Cato maior, e
come quest’ultimo dedicato ad Attico, il breve dialogo Laelius de amicitia
segna il ritorno di Cicerone all’agone politico. Secondo i critici, la prima
sezione dell’opera risalirebbe all’euforico periodo immediatamente successivo
all’assassinio di Cesare, mentre la seconda, più amara, risentirebbe delle
tensioni riguardanti la forte presenza sulla scena politica dei seguaci
dell’ucciso, contrapposti ai cesaricidi. Poiché si colloca dopo la scomparsa
del dittatore, il Laelius de amicitia è mosso da un forte slancio combattivo e
ideale da cui emerge un Cicerone proteso verso la conquista di un ruolo
importante nel futuro politico di Roma. Non è un entusiasmo ingenuo, bensì
consapevole di tensioni e polemiche e velato talora di acredine, come
nell’aspra invettiva contro i Gracchi, che incarnano il disordine
demagogico, e contro gli Epicurei, che
con il loro invito al λαθε βιωσας (vivi nascosto) distolgono i potenziali boni
cives che abbracciano il loro insegnamento dalla causa politica.
Il dialogo è ambientato da Cicerone nell’anno 129 a.C., lo
stesso del De re publica, e come nell’importante dialogo sullo Stato gli
interlocutori appartengono al cosiddetto “circolo degli Scipioni”: paucis
diebus post mortem Africani durante le agitazioni graccane, Lelio rievoca
davanti a Caio Fanno e Mucio Scevola la figura dell’amico scomparso, e disserta
sul valore, sulla natura e sulle finalità dell’amicizia. La drammaticità trae
origine dal fatto che l’esaltazione dell’amicizia scaturisce dal ricordo
dell’amico morto e il pathos è accentuato dalle allusioni alle circostanze
misteriose della morte di Scipione e alla violenza della lotta politica tra
optimates e populares, che sembra la causa del presunto omicidio. “Come morì è
difficile dirlo; sapete quali sospetti circolano” (qua de genere mortis
difficile dictu est; quid homines suspicentur videtis) afferma Lelio. Il clima
è dunque quello di una composta tristezza, sullo sfondo di una situazione
politica assai tesa, che rispecchia fedelmente quella a Roma nell’anno di
stesura del dialogo, con Cesare da poco assassinato e Cicerone che cercava il
rilancio sulla scena politica. Che il Laelius sia un’opera dai significati
anche apertamente politici, è un dato spesso sottolineato dalla critica recente
e il dialogo nasce sicuramente dalla volontà di superare l’antica e tradizionale
concezione romana dell’amicizia come serie di legami personali a scopo di
favoritismo politico. Cicerone, grazie alla riflessione sulla filosofia
compiuta negli anni di ozio forzato dall’attività pubblica nella sua villa di
Tuscolo e ispirandosi alla concezione della φιλια greca, cerca invece di
definire e stabilire i fondamenti etici del sentimento dell’amicizia. Nascendo
dal tentativo di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione
propria dello stato aristocratico, il dialogo muove alla ricerca dei fondamenti
morali e sociali nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici.
Cicerone vuole allargare la base sociale delle amicizie oltre la nobilitas: a
fondamento dell’amicizia sono posti valori come virtus, probitas, fides e
constantia, attribuibili in modo trasversale ai vari ceti sociali; rimangono
però nella sua concezione delle ambiguità inevitabili, derivanti
dall’impossibilità di coniugare una connivenza tra partigiani della stessa
fazione nella prassi politica e la più alta concezione dell’affetto fraterno
intriso di morale e di virtù. L’amicizia teorizzata da Lelio non è solo
un’amicizia politica, ma un rapporto sincero, quale Cicerone, completamente
immerso nella vita pubblica, poté allacciare forse solamente con Tito Pomponio
Attico. Ecco perché il destinatario, carissimo amico di Cicerone, riveste in
quest’opera un’importanza fondamentale: alla coppia di amici Scipione e Lelio
si associa idealmente quella formata da Cicerone e Attico: “Sed, ut tum ad
senem senex de senectute, sic hoc libro ad amicum amicissimus scripsi de
amicitia” (Ma come allora da vecchio ho dedicato a un vecchio un libro sulla
vecchiaia, così da vero amico dedico a un amico questo trattato sull’amicizia).
Marco Tullio Cicerone in breve: vita e pensiero
Nasce nel 106 a.C. ad Arpino, da una ricca famiglia equestre
che non ha mai raggiunto il rango senatoriale (egli sarà un homo novus, il
primo della sua famiglia a far parte del Senato). A 17 anni, assunta la toga
virile, è educato dai giuristi e retori Scevola l’Augure (genero di Caio Lelio)
e Scevola il Pontefice e frequenta il poeta Archia e gli oratori Marco Antonio
e Lucio Licinio Crasso. Nasce la sua amicizia con Attico e nell’89 combatte
nella guerra sociale agli ordini di Pompeo Strabone.
Busto di Cicerone nei Musei Capitolini
Busto di Cicerone nei Musei Capitolini
La sua carriera forense ha inizio nell’81 con un processo
privato (Pro Quinctio) e prosegue nell’80 con la difesa di un uomo accusato di
parricidio dal liberto Lucio Cornelio Crisogono, figura di spicco del potente
entourage sillano (Pro Sexto Roscio Amerino). Ottiene la vittoria e, nel timore
di ritorsioni, parte per la Grecia con il fratello Quinto e l’amico Attico:
segue anche le lezioni di Molone da Rodi, famoso insegnante di retorica, e
approfondisce l’arte oratoria e la filosofia. Dopo la morte di Silla, torna a
Roma e sposa la nobile e ricca Terenzia, che gli darà i due figli Tullia (76) e
Marco (65). La sua carriera politica prosegue con la questura in Sicilia, nel
75. La correttezza della sua amministrazione, cinque anni più tardi, induce i
Siciliani ad affidargli l’accusa contro Verre, governatore corrotto, difeso dal
principe del foro Quinto Ortensio Ortalo.
Raccolte rapidamente prove e testimonianze, affinché la causa non si
dibattesse nell’anno di consolato dell’avvocato rivale, Cicerone scrive le
Verrinae. Gli basta pronunciare le due orazioni dell’Actio prima in Verrem per
ottenere la condanna in contumacia, dopo la colpevole fuga dell’imputato.
L’Actio secunda viene invece pubblicata in cinque libri. Edile nel 69, pretore
nel 66, parla in favore della proposta del tribuno della plebe Manilio di
affidare a Pompeo poteri straordinari in Oriente per debellare il re del Ponto
Mitridate (Pro lege Manilia de imperio Gnaei Pompei): dall’orazione emerge il
principio della concordia ordinum, l’intesa armonica tra i due ceti portanti
dello stato romano, quello senatorio e quello equestre, e l’importanza del
ricco Oriente per gli affari privati e pubblici, in primis la riscossione di
tributi e vectigalia necessari allo stato, affidata in appalto ad affaristi
membri dell’ordo equestre. Nel 63 è console: difende Caio Rabirio, accusato
dell’omicidio del sovversivo tribuno Saturnino avvenuto 37 anni prima (Pro
Rabirio perduellionis reo) e Lucio Licinio Murena, accusato di corruzione
elettorale (Pro Murena), ma soprattutto debella la congiura di Lucio Sergio
Catilina. Le quattro orazioni Catilinariae, pronunciate due in Senato e due nel
Foro, sono un capolavoro di eloquenza e di invettiva (Fino a quando, Catilina,
abuserai della nostra pazienza? è il violento attacco della prima orazione In
Catilinam). Catilina è presentato come un uomo brutale e vizioso, feroce
assassino, libidinoso, estremista, corruttore della gioventù cui insegna ogni
sorta di malvagità, mentre Cicerone si erge alla difesa dello Stato. La
congiura fallisce: Cicerone, con la complicità di una tribù di Galli Allobrogi
scesi a Roma per lamentare la cattiva amministrazione della loro provincia, ne
ottiene le prove e fa giustiziare i complici di Catilina senza processo. A
Pistoia, nel frattempo, il suo collega Antonio sgomina l’esercito di Catilina,
allestito dal luogotenente Manlio, e il capo della congiura muore valorosamente
in battaglia.
Questo è il culmine dell’ascesa ciceroniana: acclamato come
pater patriae, Cicerone gode per poco del suo trionfo: con la costituzione del
primo triumvirato (Cesare, Pompeo, Crasso) la sua importanza politica declina.
Nel 62 difende con successo il poeta Archia accusato di aver usurpato la cittadinanza
romana, ma già nel 58 Publio Clodio, estremista democratico, con la retroattiva
lex Clodia, che colpisce chi condanna un cittadino romano a morte senza
processo, ottiene l’esilio di Cicerone. Dopo 18 mesi trascorsi tra Durazzo e
Tessalonica, Cicerone viene richiamato in patria per intercessione di Pompeo e
difende nel 56 l’amico tribuno Publio Sestio dall’accusa de vi et de ambitu,
violenza e broglio elettorale (Pro Sestio, in cui emerge la nuova teoria,
sviluppo della precedente concordia ordinum, del consensus omnium bonorum, che
non chiama in causa i ceti bensì invita alla difesa e alla cura dello stato
tutti gli uomini purché integri et sani et bene de rebus domesticis
constituti). Nella Pro Caelio attacca con veemenza Clodia, la Lesbia di Catullo,
sorella del tribuno Publio Clodio, e nella In Pisonem si scaglia contro il
suocero di Cesare; ma difende anche personaggi legati alla fazione democratica
(Pro Balbo, Pro Rabirio Postumo) e appoggia Cesare per il rinnovo del suo
comando nelle province galliche. Nel 52, quando Clodio trova la morte in uno
scontro tra fazioni sulla via Appia, Cicerone consuma la sua vendetta
difendendo il colpevole, il leader delle bande ottimate Tito Annio Milone, ma a
causa della tesissima situazione politica le sue orazioni non hanno la consueta
forza e incisività: Milone è costretto all’esilio a Marsiglia. La sua maggiore
opera politica, il De re publica, risale al 54-52 (seguito dal De legibus): qui
egli esalta, come già lo storico greco Polibio, la costituzione romana che
fonde sapientemente monarchia (consoli), aristocrazia (Senato) e democrazia
(comizi popolari), delinea la figura del princeps, sapiente e disinteressato
uomo politico che guida lo stato virtuosamente e al di sopra delle parti. Allo
scoppio della guerra civile tra Cesare e Pompeo, Cicerone, dopo un’iniziale
titubanza, si schiera con il secondo e dopo la sconfitta di Farsalo ottiene il
perdono di Cesare a Brindisi. Torna a dedicarsi al foro, prendendo le difese di
ex pompeiani (Pro Marcello, Pro Ligario, Pro rege Deiotaro). Quindi, quando si
rafforza il potere di Cesare, si ritira a vita privata dedicandosi alle opere
retoriche (Brutus e Orator, che si riallaccia al precedente De oratore) e ai
trattati filosofici (Hortensius, Academica, De finibus bonorum et malorum,
Tusculanae disputationes, De natura rerum, De divinatione, De fato, Cato Maior
de senectute, Laelius de amicitia) in cui all’interno del suo eclettismo emerge
la forte influenza stoica.
Dopo la morte di Cesare, Cicerone si riaffaccia sulla scena politica
per combattere Antonio con le orazioni Filippiche (44 a.C.) in cui dipinge il
cesariano come un ingordo, ubriacone e tirannico demagogo; scrive anche il De
officiis. La violenta invettiva contro Antonio, quando si costituisce il
secondo triumvirato (Ottaviano, Antonio, Lepido), è causa della sua inclusione
nelle liste di proscrizione: Marco Tullio Cicerone, l’ultimo strenuo difensore
della repubblica, cade per mano di un sicario di Antonio, nel 43 a.C., nei
pressi di Formia.
Laelius de amicitia
Il breve dialogo del Laelius de amicitia è incorniciato da
una complessa struttura concentrica: nel proemio Cicerone spiega com’è venuto a
conoscenza del discorso di Lelio sull’amicizia e come intende riferirlo, pur
senza travisarne il contenuto, arbitratu suo. Lelio ha tenuto il discorso
sull’amicizia alla presenza dei generi Caio Fannio e Quinto Mucio Scevola
l’Augure, precettore di Cicerone, che gli ha riportato il discorso che ora
Cicerone riporta all’amico Attico, ricostruendo le battute del dialogo e facendo
rivivere i personaggi. Pochi giorni dopo la morte di Scipione Emiliano, Fannio
e Scevola si recano da Lelio, loro suocero: Fannio domanda a Lelio come riesca
a sopportare con tanta forza la morte dell’amico e gli propone di trattare il
tema dell’amicizia dicendo cosa ne pensi, quale essenza le attribuisca, che
regole le assegni. Il dialogo avviene quindi in un ambito familiare, tra
personaggi colti appartenenti al circolo scipionico.
Lelio, rispondendo ai due giovani, rievoca la figura
dell’amico e discorre sull’amicizia rifiutandosi di trattare l’argomento
secondo gli schemi usuali dei filosofi, ma pronunciando un’esortazione che
dimostra l’insostituibilità dell’amicizia, di cui nulla è più conforme alla
natura e più conveniente all’uomo virtuoso nella buona e nella cattiva sorte.
L’esaltazione dell’amicizia è strettamente intrecciata con l’elogio della
virtus, fondamento etico di ogni legame sincero e duraturo tra boni vires.
L’amicizia è definita come “un’intesa sul divino e umano, congiunta a un profondo
affetto” (Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque
rerum cum benevolentia et caritate consensio) che può esistere solo tra boni,
ad esempio dei quali vengono portati illustri personaggi della Roma antica,
primi fra tutti gli Scipioni. Lelio quindi illustra l’origine e l’essenza
dell’amicizia, slancio naturale che porta l’uomo virtuoso ad amare negli altri
la virtù. Non nasce quindi da bisogno o interesse, secondo la concezione che
Lelio attribuisce, forzando polemicamente e scorrettamente le loro teorie in
proposito (che riconduce in toto a utilitas e voluptas), agli Epicurei. Quindi
si innesta la sezione del dialogo di argomento più spiccatamente politico,
anziché etico-filosofico. Durante la trattazione dei limiti dell’amicizia e
delle sue leggi, Lelio cita una serie di esempi negativi, tra i quali spiccano
Tiberio Gracco e i suoi sostenitori, che rimandano polemicamente a Cesare e
alla sua fazione. Secondo Lelio lo ius amicitiae sancisce una legge
fondamentale: in amicizia, è vergognoso sia avanzare richieste immorali che
soddisfarle, e soprattutto commettere reati contro lo stato in nome
dell’amicizia è assolutamente ignominioso. La scelta degli amici, secondo
Lelio, deve essere fondata sulla virtus: fermezza, stabilità, coerenza, onestà,
integrità sono le caratteristiche che un amico deve possedere. Quanto alla
pratica dell’amicizia, non bisogna anteporre una nuova conoscenza a un vecchio
amico (multos modios salis simul edendos esse, ut amicitiae munus expletum sit:
bisogna mangiare insieme molti moggi di sale per poter dire esaurito il dovere
dell’amicizia) e in amicizia non bisogna mai far pesare la propria superiorità.
Le amicizie non vanno strappate, ma scucite e prima di stringerle bisogna
trovare chi ne sia degno e abbia perciò in sé la ragione di essere amato (Rarum
genus!). Solo tra virtuosi ci possono essere stima, affetto, rispetto,
condivisione e si può trovare nell’amico un alter ipse, si può scoprirsi come
un’anima divisa in due corpi. Infine, Lelio esalta la sincerità nell’amicizia,
condannando con disprezzo l’ossequio e l’adulazione e citando a questo
proposito un motto di Catone: Melius de quisquam acerbos inimicos mereri, quam
eos amicos qui dulces videantur: illos verum saepe dicere, hos numquam
(Talvolta fanno del bene più gli acerrimi nemici che gli amici apparentemente
compiacenti: i primi dicono spesso il vero, i secondi mai). Il discorso di
Lelio si conclude con un’esaltazione della sua amicizia con Scipione, che si
augura resterà d’esempio ai posteri, e con un invito a coltivare la virtù, sine
qua amicitia esse non potest, perché nulla è più nobile dell’amicizia eccetto
la virtù.
Quali sono i fondamenti dell’amicizia? (Paragrafi 65-66)
“Dunque la base di
quella stabilità e di quella coerenza che cerchiamo nell’amicizia è la lealtà.
Nulla infatti che sia infido è stabile. Inoltre è bene scegliersi un amico
sincero, e socievole, e affine a noi, cioè che si interessi delle medesime
cose. E tutto ciò concerne la fedeltà. Infatti né può essere fidato un carattere
ambiguo e tortuoso, né può essere leale o stabile chi non si preoccupa delle
medesime cose e non ha la stessa sensibilità. Si deve poi aggiungere che
l’amico non deve provar gusto nel calunniare o nel prestar fede ad accuse mosse
da altri. Tutte cose che attengono a quella coerenza di cui già da un po’ vado
trattando. Così si verifica proprio quello che ho detto all’inizio: che
l’amicizia non può esistere se non fra uomini virtuosi. È infatti
caratteristica dell’uomo virtuoso, quel medesimo che è lecito definire saggio,
osservare questi due principi nell’amicizia. Primo, evitare ciò che è finto o
simulato; infatti è più nobile odiare apertamente che celare il proprio
pensiero dietro un’espressione del volto. Quindi, bisogna non solo respingere
le accuse portate da qualcun altro, ma neppure essere l’amico stesso
sospettoso, supponendo sempre che l’amico abbia violato in qualcosa il patto
d’amicizia. Si aggiunga a ciò una certa qual dolcezza di parole e di modi, un
condimento per nulla trascurabile dell’amicizia. Di sicuro la scontrosità e la
severità in ogni circostanza hanno una certa solennità, ma l’amicizia
dev’essere più indulgente e più schietta e più dolce e più incline a ogni
amabilità e cortesia.”
La novità del messaggio del Laelius de amicitia è
grandissima: Cicerone in quest’opera reinterpreta la concezione romana
dell’amicizia, arricchendola di nuove sfumature prese a prestito dal mondo
greco. Il rapporto d’amicizia non nasce dall’interesse e dal bisogno, da una
logica di partito, ma dall’amore per i propri simili innato nell’uomo. La vera
amicizia può sussistere solo tra i buoni, e il mezzo migliore per procurarsi
veri amici è la pratica della virtù. È bella questa concezione che lega
indissolubilmente amicizia e virtù ed è profondamente innovativa la
costituzione di uno ius amicitiae, costituito non da regole artificiose ma da
precetti che dovrebbero scaturire spontaneamente dalla virtù dei due uomini
contraenti patto d’amicizia: la parità e il rispetto reciproco dovrebbero
generare l’automatica osservanza delle leges amicitiae. Preliminare a questa
nuova concezione è un allargamento della base sociale cui riferire il concetto
d’amicizia: non più solo gli aristocratici, la nobilitas, ma chiunque possa
rientrare nella fondamentale categoria ciceroniana dei boni viri, che
attraversa verticalmente gli strati sociali esistenti, senza identificarsi con
alcuno di essi in particolare. Boni sono dunque gli uomini virtuosi (integri et
sani et bene de rebus domesticis constituti) ai quali Cicerone già dai tempi
dell’orazione Pro Sestio lancia un forte invito a occuparsi della cosa
pubblica, a entrare nell’agone politico. È a questi virtuosi dunque che il
nostro autore indica la via dell’amicizia perfetta, quella che mescola virtus e
probitas, fides e constantia. In primo piano c’è la fides: parola molto
importante per Cicerone e per tutto il mondo romano, virtù fondamentale e
costitutiva dello stato. Fides è prima di tutto la fiducia che si ripone
concretamente nell’altro, poi diventa fiducia in senso lato, quindi fedeltà al
patto, onestà, dirittura morale, coscienza stessa dell’individuo. Accanto alla
fides c’è la constantia, che è fermezza nel perseguire la virtù. Ad attenuare
la pur indispensabile gravitas e verecundia, il comportamento retto e composto,
spicca la suavitas, piacevolezza, soavità nel parlare e nell’atteggiarsi, che
Cicerone definisce un non secondario “condimento” al rapporto. Come l’amicizia
teorizzata da Cicerone ha leges e praecepta suoi propri in cui si fondono il
concetto romano di alleanza politica e la greca φιλια, assoluta e fine a se
stessa, così l’anima politica e quella etica e filosofica si fondono nel
dialogo, causandone la concitata vivacità, ripetizioni e apparenti
contraddizioni, con cui Cicerone ritorna sullo stesso concetto mitigando le sue
affermazioni o affrontando l’argomento da un punto di vista nuovo, più
marcatamente politico o più spiccatamente idealizzato.
In generale condivido la maggior parte delle affermazioni di
Cicerone a proposito dell’amicizia, ma ve n’è una che non approvo affatto. Egli
sostiene, per bocca di Lelio, che “niente affascina e attira qualcosa a sé
quanto la somiglianza affascina e attira gli uomini all’amicizia”, rifacendosi
al proverbio greco secondo il quale il simile ama il simile. Ebbene, secondo me
non è affatto così. Ricordo di aver intavolato con alcuni amici una discussione
che verteva proprio su questo, se fosse preferibile avere un amico simile a sé
oppure diverso. In quell’occasione sostenni, contro l’opinione della
maggioranza, che non vedevo come la diversità potesse essere d’ostacolo
all’amicizia e sono ancora del medesimo parere. Ritengo che tra due persone
virtuose, ma di abitudini e di idee diametralmente opposte, si possa creare un
legame profondissimo di amicizia, purché esista tra esse una sola affinità:
l’apertura, la capacità di comprendere e rispettare la diversità, pur senza
rinunciare a se stessi e alle proprie opinioni. Anzi, il confronto quotidiano
con una realtà diversa (se però ci si accosta senza pregiudizio e con disponibilità
al confronto stesso) porta spesso una grande ricchezza, costringe a guardarsi
talvolta con occhi nuovi scorgendo dei difetti e delle spigolosità da limare,
insegna il rispetto e porta a comprendere come la virtù si possa manifestare in
modi diversissimi senza perdere la propria essenza più alta. Certo, il buono
non può stringere amicizia che con il buono e pare vero il detto “non esiste
solidarietà tra i ladri”, ma non necessariamente due persone buone sono simili,
così come non lo sono due malvagi. La ragione non è mai tutta da una parte e
imparare a trovare il lato positivo negli altri e il negativo in noi,
confrontandoci e abituandoci a convivere con la diversità, è secondo me
estremamente costruttivo. È fin troppo facile provare rispetto e stima per chi
condivide le nostre posizioni: un amico siffatto, per quanto bello e profondo
possa essere il rapporto che abbiamo con lui, non riuscirà mai ad aprirci gli
occhi per mondarli dall’inevitabile velo di cecità che li ricopre e che può
essere squarciato solo dal confronto (magari anche serrato, ma sempre nel
rispetto reciproco). Per questo è importante avere anche amici diversi da noi,
che ci aiutano a migliorare e che noi stessi possiamo aiutare a diventare
migliori: un’amicizia come questa può arricchire entrambi, in un mutuo scambio,
in un mutuo insegnamento, quando ciascuno si impegna a completare l’altro nelle
sue manchevolezze e a svelargli tessere mai notate prima nel grande mosaico del
mondo. Cicerone stesso non doveva essere completamente convinto della sua
affermazione: il suo più grande amico, Attico, a cui ha dedicato il trattato
sull’amicizia, era un convinto epicureista, mentre Cicerone riteneva tanto
pericolosa questa dottrina da farla bersaglio di numerose frecciate all’interno
del Laelius. Eppure, nonostante le loro diverse vedute, nonostante lo zelo
politico di Cicerone contrapposto all’otium di Attico, i due amici si offrirono
reciproco sostegno nelle avversità della vita e forse mitigarono in parte, con
continue amichevoli discussioni, le reciproche posizioni. Cicerone e Attico, a
parer mio, sono il miglior esempio a sostegno della mia affermazione e il loro
rapporto smentisce senza alcun dubbio l’affrettato principio secondo il quale
l’amicizia può nascere soltanto tra persone profondamente simili. La bellezza
dell’opera nasce proprio dalla fluente sincerità con cui Cicerone esprime ad
Attico le sue dottrine: con il suo stile ricchissimo e cesellato di chiasmi e
poliptoti a sottolineare le sue tesi nei passi più importanti, eppure con la
spontaneità di un amico che scrive a un amico, l’oratore romano ci regala,
sull’amicizia, uno dei trattati più splendidi e gradevoli di tutti i tempi.
Elogio dell'amicizia PDF
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