Posted di drdedalo
“… il cambiamento può
essere un atto di volontà
o un flusso, ma l’atto
di volontà è più complicato”
Parlare di attenzione è parlare della più fondamentale delle
attività psichiche: senza l’attenzione non ci sarebbe il linguaggio, non
sarebbero possibili i pensieri, i sogni, la “percezione della realtà”.
E’ modulando la quantità di attenzione che rivolgiamo ad un
qualsiasi oggetto, fisico o mentale, reale o immaginario, è indugiando su di
esso, scrutandolo, osservandolo, assaggiandolo, studiandolo, che possiamo
portarlo dentro, e illuminarlo, renderlo più o meno interessante, vivido,
familiare, caro.
E l’attenzione, come tutte le funzioni fondamentali, tende a
restarsene sullo sfondo, ignorata e usata quasi automaticamente come uno
strumento così scontato che, come un braccio, una gamba o un occhio, non ha
bisogno di niente a meno che si guasti, si deteriori o smetta di funzionare.
Ha poco bisogno di attenzione, l’attenzione! Lavora da sola,
spesso così da sola che continua la sua attività anche quando il suo uso
conduce ad una serie di problemi che compaiono ma che, finché non vengono
analizzati accuratamente (cambiando l’attenzione, appunto), se ne stanno lì,
fino a diventare cronici.
C’è tutta una quantità di disturbi mentali che potrebbero
essere catalogati e descritti come disturbi dell’attenzione: possiamo vedere il
Disturbo Ossessivo Compulsivo come un’appiccicosità dell’attenzione,
un’incapacità di staccarla da un oggetto se non con grandi sforzi e con
faticosi rituali; la depressione come un’insistenza dell’attenzione su oggetti
indigeribili, il rimuginare della mente fino allo sfinimento su colpe,
abbandoni, lutti, “negatività”; la mania, lo stato di grandezza maniacale come
un dilagare dell’attenzione, l’espandersi dell’Ego senza tener conto dei
confini fino a gonfiarsi ipertroficamente; il Panico come lo scivolamento
dell’attenzione verso il baratro, l’impossibilità di distrarsi rispetto ad un
sintomo, che, quindi, risucchia e fa precipitare; ecc.
Queste, che potremmo definire modalità dell’attenzione non
sono che strumenti che ci siamo abituati ad usare: modi in sé né buoni né
cattivi, propensioni forse, qualità del nostro modo di essere nel mondo, anche
tratti del carattere che ci hanno contraddistinto: un bambino fantasioso, con
la testa fra le nuvole, o introverso o musone, schivo, riflessivo o, al
contrario espansivo, incontenibile o sensibile, suscettibile, permaloso.
Niente di male… ognuno di questi che ho citato non è che un
modo di stare nel mondo e nelle cose: una presa, una modalità di cogliere gli
oggetti e le relazioni, un gesto interno che ci fa descrivere il mondo in un
certo modo.
De-scriverlo: metterlo lì, presentarlo a noi stessi come se
lo scrivessimo in un certo modo, raccontandocelo con un gesto che non è passivo
ma solo in parte conscio.
Sono tratti del carattere, modi quasi innati o, comunque
appresi in tenera età, che determinano le nostre percezioni e, poi, quasi
contemporaneamente le nostre risposte a ciò che ci circonda, dentro, nel nostro
mondo psichico, e “fuori”.
Ciò che può renderli patologici è l’automaticità: la
fissazione (causata dai più svariati eventi) su uno solo di essi che diventa
ponderante e dominante a discapito degli altri, favorendo una direzione e, in
un certo senso, uno squilibrio.
E’ l’automatismo che andrebbe curato e, per farlo occorre
curare l’attenzione: mettere l’attenzione sul modo in cui stiamo attenti,
imparare a prenderci cura dei modi in cui dirigiamo il nostro sguardo.
Il consiglio di Freud ai terapeuti, la regola che dava come
primo presidio di cura per la loro attenzione era: “Si tenga lontano dalla
propria attenzione qualsiasi influsso della coscienza e ci si abbandoni
completamente alla propria ‘memoria inconscia’, oppure in termini puramente
tecnici: si stia ad ascoltare e non ci si preoccupi di tenere a mente
alcunché”.
Questo è il primo strumento per curare la fissità, il primo e
più importante diluente di un’attenzione troppo fissata.
Non è qualcosa che può essere insegnato in termini puramente
teorici: l’attenzione non si insegna con un “dire” ma con un fare… se vuoi
percepire comincia ad agire e, se vuoi cambiare la tua attenzione comincia a stare attento in un modo diverso.
Ai pazienti veniva detto di “dare diritto di cittadinanza
all’inconscio”, senza censurare niente, favorendo il flusso e lasciando stare
la coerenza, prediligendo le libere associazioni senza curarsi della logica o
del solito modo di procedere. Non è facile all’inizio, ma dopo un po’ si prende
il gusto del flusso di coscienza, ci si accorge di come le cose possono
associarsi in modi diversi e si sperimenta una sorta di “prima liberazione”: il
pensiero può scorrere più fluidamente, le idee sono più libere di emergere,
cose strane vengono alla mente.
E così, in questo Pandemonio, ad esempio, l’attenzione può
diventare una delle ragazze di cui parla D.F. Wallace “… il tipo di ragazza
imprendibile, fatalmente bella che fluttua per i corridoi di liceo nei sogni
degli eiaculatori notturni” una tipa, insomma, che non riesci a conquistare ma
che puoi sognare, e che sognandola puoi allargare i tuoi orizzonti e,
idealizzandola un po’ ti ispira come può fare una musa…
L’attenzione può cambiare, cambiando il modo in cui
percepisci il tempo che può diventare non il solito Cronos che mangia i suoi
figli, non il tempo cronologico che scorre inesorabilmente in avanti ma Kairos:
il momento in corso, in cui le cose accadono mentre il tempo scorre, in cui
l’attenzione può essere messa, la puoi mettere, sugli incontri e sullo stupore
di vedere che le cose che hai di fronte sono nuove, non invecchiate e non le
stesse, lontane quindi dalle ripetizioni e dalla coazione e dal solito ritorno
dell’uguale, e esenti, per forza, dalla noia.
E se lasciamo che la nostra attenzione fluttui possiamo
staccarci per un attimo dalla tirannia dell’io, trovarci nel flusso e con la
possibilità di liberarci momentaneamente da noi stessi che, come sa chiunque si
sia qualche volta “sciolto”, è un gran sollievo!
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