Il Libro rosso, o Liber Novus, di
Carl Gustav Jung non è solo un libro splendido, strano, commovente, unico – è scritto in
caratteri miniati e corredato di illustrazioni immaginifiche alla William Blake
– ma è anche un documento cruciale per la storia delle idee. Non è solo un
dialogo serrato con la propria anima, i cui modelli sono il Faust di Goethe e
lo Zarathustra di Nietzsche, un'autoanalisi svolta sull'orlo di un autentico
naufragio esistenziale, ma è soprattutto il lavoro che segna il distacco da
Freud.
Jung era entrato in contatto col
padre della psicoanalisi nel 1906 per poi diventare presidente della Società
psicoanalitica. Il rapporto tra i due è ampiamente mitologizzato e il Libro
rosso chiarisce che la fonte primaria dell'opera junghiana non può essere
rintracciata in Freud e nella psicoanalisi. Concetti come quello dei tipi
psicologici (introverso e estroverso per esempio), il processo di
individuazione e l'inconscio collettivo vengono elaborati qui per la prima
volta e sono distanti dall'impronta freudiana.
L'interesse del Libro rosso va
anche al di là del mito e dell'aura di mistero alimentati dal divieto di
pubblicazione imposto a lungo dagli eredi, superato grazie al paziente lavoro
di persuasione dell'infaticabile e acutissimo curatore, lo storico della
psicologia indiano Sonu Shamdasani. Perché in realtà questo testo, tenuto
"segreto" dallo stesso Jung, non contiene nulla di pruriginoso o di
scandaloso. Il suo carattere messianico e allucinatorio non ha a che fare con
l'uso di droghe. Le immersioni nel sogno, nel mito e nello spirito religioso
non sono i sintomi di una conversione, o concessioni a un'idea di superiorità
dell'irrazionale o a pensieri in stile New Age, benché tutto ciò sia la
testimonianza di un processo di rinnovamento e di rinascita di sé, elaborato
nel contesto di una personale riflessione cosmologica. Qui si gettano piuttosto
le basi per lo studio dei meccanismi universali dell'animo umano, andando alla
ricerca di quei modelli di comportamento di carattere istintuale e culturale che
Jung definirà come «archetipi» e che oggi si suggerisce di approfondire e
verificare a partire dalle neuroscienze e in particolare dagli studi sulle emNel
1957 Jung scrive: «Gli anni più importanti della mia vita furono quelli in cui
inseguivo le mie immagini interiori. A essi va fatto risalire tutto il resto.
Tutto cominciò allora, e poco hanno aggiunto i dettagli posteriori. La mia vita
intera è consistita nell'elaborazione di quanto era scaturito dall'inconscio,
sommergendomi come una corrente enigmatica e minacciando di travolgermi. Una
sola esistenza non sarebbe bastata per dare forma a quella materia prima. Tutta
la mia opera successiva non è stata altro che classificazione estrinseca, formulazione
scientifica e integrazione nella vita. Ma l'inizio numinoso che conteneva ogni
altra cosa si diede allora».
Il Libro rosso è anche una sorta
di modello per un lavoro che ognuno dovrebbe fare su di sé, un "esercizio
spirituale" – l'uso e la riflessione sulle immagini rimandano anche alle
tecniche di Sant'Ignazio – volto a scandagliare le parti più nascoste e più irrazionali
dell'io e dal quale non si può che uscire rafforzati. Un esercizio che ci
riguarda tutti, perché, – scrive Shamdasani – «al pari di molti altri
psichiatri e psicologi, Jung non considerava la malattia mentale un fenomeno
antitetico allo stato di salute, ma riteneva andasse collocata all'estremo
limite di uno spettro continuo».ozioni di Antonio Damasio e di Vilayanur S.
Ramachandran.
Tutto era cominciato nel 1913. In
un viaggio in treno verso Schaffhausen, Jung ebbe la visione di una terribile
alluvione che inondava l'Europa – macerie, galleggianti e migliaia di morti –
che, come avrebbe detto più tardi, preconizzavano i disastri delle Prima guerra
mondiale. Jung, quarantenne e professionalmente affermato, sfida a viso aperto
visioni e sogni di questo tipo, non sapendogli dare una interpretazione immediata.
Inizia così, nel pieno di una crisi personale, l'esperimento su se stesso (che
poi avrebbe chiamato il suo «confronto con l'inconscio») che proseguirà fino al
1930. Sviluppa uno specifico metodo di esplorazione psicologica – detto
«immaginazione attiva» – finalizzato a consentirgli di «andare alla base dei
processi interiori», «tradurre le emozioni in immagini» e «cogliere le fantasie
che sollecitavano dal sottosuolo».
In un primo tempo Jung annota le
sue fantasie nei Libri neri, quindi le rielabora aggiungendovi una serie di
riflessioni e le trascrive in scrittura calligrafica, corredandole di
illustrazioni, nel Liber novus, rilegato in pelle rossa, da cui il nome Libro
rosso. L'originale è stato esposto, nell'ultimo anno, insieme ad altri
materiali a New York e in California. La mostra inaugurata ieri a Zurigo espone
anche le sculture che appartennero a Jung e, per la prima volta, gli originali
dei Libri neri e le pergamene su cui egli scriveva in caratteri miniati. Sapeva
che il suo non era il lavoro di un "artista", né voleva abbandonare
la propria mentalità "scientifica", benché fosse dalla consapevolezza
dei limiti di quella che era scaturito il proprio disagio di fronte al fluire
dinamico dell'irrazionale e dell'inconscio. «Il lavoro sull'inconscio va fatto
in primo luogo per noi stessi – scriveva Jung –, anche se indirettamente andrà
a beneficio dei nostri pazienti.
Il pericolo è quello della follia
profetica, spesso in agguato quando si ha a che fare con l'inconscio. È il
Diavolo che dice: disprezza la ragione e la scienza, eccelsi poteri dell'uomo.
Questo fatto non va mai dimenticato, anche se siamo costretti a riconoscere
l'esistenza dell'irrazionale».
Da “Il sole 24 ore”
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