I Disability Studies vogliono
trasformare la società: ora c’è la rivista italiana
Intervista a Simona D'Alessio
All’estero se ne parla già da un po’.
Nel mondo anglosassone addirittura da un bel po’. In Italia, invece, i
“Disability Studies” non c’erano ancora, almeno non con una veste ufficiale.
Organizzazioni come la FISH (Federazione Italiana per il Superamento
dell’Handicap) e DPI Italia (Disabled Peoples’ International) si sono dedicate
ad approfondirli, ma occorreva un manipolo di liberi ricercatori universitari
per fondare, svincolati dal mondo accademico baronale, il primo gruppo di
studio e la prima rivista tutta italiana che se ne occupa
Nel nostro Paese,
organizzazioni come la FISH (Federazione Italiana per il Superamento
dell’Handicap) e DPI Italia (Disabled Peoples’ International)
dedicano già da un po’ parte della loro attività ai cosiddetti Disability
Studies. Perché hanno capito che si tratta di un’azione politica
fondamentale.
Anche il mondo
accademico istituzionale negli ultimi anni ha iniziato ad avvicinarsi a questi
argomenti – in modo ancora frammentato e quasi soltanto dal punto di vista dei
diritti umani – e lo ha fatto chiedendo la collaborazione proprio alle suddette
associazioni. Ma non era ancora successo che nascessero un gruppo di studio
e una rivista a essi dedicata.
Ora, dallo scorso
marzo, c’è (per vederla, cliccare qui) e la sua nascita è avvenuta nel modo più
interessante, perché non è stata concepita negli ambienti “baronali” dei
corridoi universitari, ma è scaturita dall’ingegno di un gruppo di giovani
ricercatori indipendenti. Tra questi, di donne (per ora) ce n’è soltanto
una. Si chiama Simona D’Alessio e tra le sue doti utili al gruppo c’è
senz’altro quella di fare da collante e coordinare l’avanzamento della ricerca.
La chiamavano “la mamma” prima ancora che mamma lo diventasse per davvero. La
sua storia è quella di un’insegnante di sostegno che si è resa conto che la
pratica si può cambiare solo dopo che si è cambiata la teoria. Se si
vuole che le cose vadano in un certo modo, insomma, occorre prima che le
persone responsabili siano convinte che quello sia il modo in cui debbano
andare. Allora Simona ha studiato e si è formata, fino a diventare una delle
massime esperte italiane di questo settore innovativo.
Oggi insegna inglese
part-time, fa la neomamma e collabora con l’European
Agency for Development in Special Needs Education.
«Quest’ultima – ci spiega – è un’organizzazione europea indipendente,
finanziata sia dai Ministeri dell’Istruzione dei ventisette Paesi membri,
europei o che gravitano attorno all’Unione Europea, sia dalla Commissione
Europea. Quest’ultima sostiene l’Agenzia tramite il Jean Monnet
Programme, che fa parte del Programma Lifelong
Learning Programme (LLP), lo stesso che finanzia ad esempio l’Erasmus,
grazie a cui gli studenti universitari frequentano per un anno le università
straniere». (Barbara Pianca)
Qual è il ruolo
dell’Agenzia Europea per lo Sviluppo dei Bisogni Educativi Speciali?
«Siamo una piattaforma
internazionale di scambio che mette in contatto i vari Paesi membri, per
avviare confronti sulle politiche dedicate alle persone con disabilità
nell’ambito dell’educazione. Io personalmente mi occupo di educazione
inclusiva. Ma la rivista che ho fondato insieme agli altri non c’entra con
l’Agenzia, è un’iniziativa del tutto indipendente».
La rivista è la prima
in Italia dedicata ai “Disability Studies”. Cosa sono esattamente?
«Sono una nuova
materia interdisciplinare il cui obiettivo è studiare la disabilità da una
nuova prospettiva e non più solo come fenomeno medico individuale. Una
materia interdisciplinare perché richiama studiosi ed esperti di storia,
diritto, educazione, scienze sociali, sociologia, psicologia
e filosofia, che osservano la disabilità intendendola come una
costruzione sociale.
Una persona vive uno
stato di disabilità – è in un certo senso ‘”disabilitato” – perché la
società in cui è inserita ha degli elementi di inaccessibilità a vario livello
che la opprimono e discriminano. La disabilità, insomma, è da intendersi più che
altro come una forma di oppressione sociale in cui le persone con
disabilità sono costrette a vivere a causa del modo in cui è strutturata la
società.
Ogni studioso cerca
nel proprio campo gli ostacoli specifici (povertà, disoccupazione, politiche
educative e sociali disabilitanti, barriere architettoniche, nella
comunicazione e culturali e atteggiamenti sociali) ed esplora le proposte per
superarli. Non interessa qui la condizione medica. Non interessa riabilitare o
assistere. Interessa trasformare, pensare cioè a una società capace di
rispondere alle esigenze di tutti, anche a quelle delle persone con
disabilità».
Avete dei riferimenti
extranazionali?
«Certo. Devono essere extranazionali per forza perché da
noi manca una vera e propria tradizione di Disability Studies. Essi nascono a
partire dagli anni Settanta in ambiente prevalentemente anglosassone:
Nordeuropa, Inghilterra e Nordamerica. Siamo in contatto soprattutto con il
movimento britannico, capitanato da Mike Oliver e Len Barton, che
hanno teorizzato il modello sociale proposto dall’UPIAS (Union of the Physically Impaired Against
Segregation)».
Qual è il ruolo
politico dei Disability Studies?
«Questa domanda è centrale perché i
DisabilityStudies nascono con uno scopo esplicitamente politico, quello
cioè di promuovere il cambiamento sociale verso un mondo in cui le persone con
disabilità partecipino attivamente alla progettazione collettiva. Vogliamo liberare
dall’oppressione chi la subisce, identificando le barriere che lo opprimono
e permettendo a chi è stato sempre escluso di recuperare un ruolo attivo nella
vita sociale.
Le persone con
disabilità sono state lungamente escluse dai processi decisionali e ancora oggi
l’inclusione è spesso più che altro formale. Significa che alle persone con
disabilità viene al massimo consentito di scegliere tra alcune variabili già
predisposte, ma difficilmente esse siedono al tavolo di discussione fin
dall’inizio, quando le decisioni devono ancora venir prese. La nostra proposta
è invece quella di capovolgerele relazioni di potere esistenti, dove i
professionisti della medicina, del welfare e non solo decidono senza consultare
chi l’oppressione la vive sulla sua pelle. Questo implica investire la ricerca
di un ruolo etico, vale a dire assumersi la portata sociale e politica della
ricerca, intesa come potenziale sorgente di cambiamento e responsabilizzazione
dei suoi partecipanti alla ricerca».
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con
Disabilità ha contribuito a modificare la situazione nel senso auspicato dai
Disability Studies?
«Mi pare più che altro a livello macro, per ora. Nel piccolo,
nel concreto, i cambiamenti faticano a emergere. Però si tratta di uno stimolo
fondamentale che mette in luce i princìpi cui ogni Stato aderente cercherà poi,
a suo modo e a seconda dei suoi tempi, di conformarsi».
Qual è il ruolo
dell’Università in tutto questo?
«Il ruolo dell’Università dovrebbe essere
quello del cosiddetto critical friend, ossia di osservatore in grado di
offrire una critica costruttiva, necessaria alla trasformazione
culturale e al miglioramento delle condizioni di vita delle persone con
disabilità e non. In generale dovrebbe contribuire a creare una società più
giusta e più equa da cui tutti possiamo trarre beneficio.
Purtroppo oggi le
Università non sempre sono un faro per la guida verso il cambiamento,
soprattutto in Italia, dove spesso si assiste a un’azione conservatrice (dal
punto di vista culturale, ma non solo) delle relazioni di potere esistenti e
quindi a un mantenimento dello status quo… è triste ma è così. Sono però
fiduciosa che qualcosa cambi nel prossimo futuro, sia grazie al lavoro che stanno
facendo le organizzazioni delle persone con disabilità come la FISH, sia
grazie a quello di studiosi di stampo internazionale i cui lavori cominciano ad
entrare nelle nostre biblioteche. Di fatto, però, ad oggi manca ancora una
sistematizzazione dei DisabilityStudies a livello accademico in Italia. A parte
due eccezioni, non ho trovato finora nessun Ateneo interessato a
muoversi in questo senso».
Quali sono le due
eccezioni?
«L’Università di Bergamo, grazie soprattutto al professor
Roberto Medeghini, fondatore della rivista «Milieu», dedicata alle
culture dell’inclusione, e al professor Walter Fornasa, ai quali ci
appoggiamo per il nostro progetto editoriale. Anche due dei fondatori della
nostra rivista, Giuseppe Vadalà ed Enrico Valtellina (ricercatore
con sindrome di Asperger che però si dovrebbe spostare nell’Ateneo veneziano),
sono ricercatori a Bergamo.
L’altra eccezione è
l’Università di Reggio Calabria, dove lavora Angelo Marra,
ricercatore e attivista con disabilità, autore di uno dei primi testi italiani
dedicati al tema della disabilità da un punto di vista giuridico. Marra, che è
stato anche lui uno dei primi ideatori della nostra rivista, è il creatore di
una mailing list nazionale chiamata Disability Studies Italy».
Dove inserirebbe i
Disability Studies nei percorsi di studio universitari?
«All’interno dei corsi
di sociologia dell’educazione, pedagogia speciale (che io non chiamerei
“speciale” perché secondo me è un termine discriminante), scienze della formazione,
medicina, filosofia e giurisprudenza».
Com’è nata l’idea
della rivista?
«Nasce su iniziativa personale mia e di Giuseppe Vadalà. Ci
incontravamo ai convegni e confrontandoci abbiamo condiviso il desiderio di
intervenire nella situazione attuale, modificandola. La nostra è anche una
scelta di rottura con il mondo accademico istituzionale che, come ho appena
spiegato, è lento e conservatore.
Dopo aver parlato con
Giuseppe, ho fatto una ricerca in internet per trovare altri ricercatori
indipendenti nel nostro campo e così ho conosciuto Marra, che si è aggiunto a
noi due. Abbiamo cominciato nel 2009 a scrivere i primi testi, a collaborare, a
discutere. In un secondo momento ci hanno affiancato anche Valtellina e Stefano
Onnis, etnoantropologo della Sapienza di Roma. Ci abbiamo messo due anni a
realizzare il primo numero, che ha l’intento di dare una voce al dibattito
italiano. Ora cercheremo di mantenere la cadenza semestrale. Stiamo
lavorando al secondo numero, che vorremmo incentrare sulla ricerca emancipativa,
ma il fatto è che facciamo tutto questo su base volontaria e quindi nei ritagli
di tempo. Siamo liberi ricercatori che credono in questo progetto, ad oggi del
tutto privo di finanziamenti».
Ci può presentare il
primo numero?
«Nel primo numero ci sono sette articoli (incluso l’editoriale),
più una traduzione ed una recensione.Vi ha anche collaborato Giampiero
Griffo del direttivo della FISH. Non esiste un tema monografico per questo
primo numero, ma poiché i DisabilityStudies in Italia ancora non esistono in
modo strutturato, abbiamo cercato di rendere forte la nostra voce, dichiarando
che è arrivata l’ora di offrire loro uno spazio di dialogo e di dibattito.
Siamo in pochi e se
non facciamo rete sarà difficile contribuire alla nascita e diffusione di
queste nuove teorie. La nostra è una voce alternativa, non per forza migliore o
peggiore, ma decisamente diversa e nuova».
Ma perché si è dovuto
aspettare così a lungo per avere una rivista italiana dedicata a questa
materia, mentre altrove gli studi sono ormai strutturati da diversi anni?
«Intendo scrivere un
testo su questo argomento: secondo me – è una mia considerazione personale – in
Italia l’influenza della Chiesa Cattolica e dei professionisti della medicina
ha rallentato i processi di emancipazione delle persone con disabilità.
Molte delle associazioni storiche, ad esempio quelle raccolte sotto il cappello
della FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con
Disabilità), erano associazioni per le e non delle persone con
disabilità. Il loro scopo era soprattutto di solidarietà e assistenza.
Operavano per ottenere aiuti e finanziamenti.
La qualità innovativa
della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) sta
proprio nel proporre la capacità di autorappresentarsi. Ma la sua azione è
ostacolata da forme diffuse di pensiero assistenzialistico di derivazione
medica e, in secondo luogo, religiosa. La religione, spesso, spiega la
disabilità come una “volontà divina” cui non bisogna opporsi. Propone
l’accettazione, che a livello sociale ha avuto un effetto anestetizzante
perché ha impedito alle persone di credere nelle proprie potenzialità e nei
propri sogni.
Non
voglio esagerare, riconosco anche il ruolo positivo della Chiesa. Grazie
infatti alla sua influenza, le persone con disabilità prima rinchiuse in casa
sono state portate fuori e hanno ottenuto una dignità. Ma purtroppo
proprio quello stesso approccio caritatevole ha poi bloccato il passo
successivo, che è quello della rivendicazione sociale».
Una rivista che si occupi di disabilità è sicuramente una grande opportunità verso la conoscenza nel progetto di integrazione dei disabili in una società sempre più attenta e consapevole del valore della diversità.
RispondiElimina"Nati due volte" di Giuseppe Pontiggia, il celebre romanzo poi trasposto in opera cinematografica e l'altro romanzo " E li chiamano,disabili" di Candido Cannavò, sono i primi e ben riusciti tentativi di porre l'attenzione di un pubblico sempre più vasto su questo problema troppo spesso sottovalutato.. abbiamo ancora molto da imparare, per cui plaudo alla nascita di questa rivista italiana che si pone l'obbiettivo meritorio di trasformare in meglio la nostra società,
Grazie Thea, sei sempre eccezionalmente attenta e profondamente coinvolta.
RispondiEliminaRingrazio te Gina,sei stata il mio faro, verso la mia discreta ed imperfetta conoscenza del problema della diversabilità..
RispondiEliminaTi auguro un felice anno scolastico,denso di soddisfazioni e di gioia, quella che tu sempre riesci a dispensare. Un abbraccio.