I
meccanismi di difesa dell'Io
In via preliminare, ci sembra utile
individuare i motivi della difesa.
Da che cosa si difende l’Io? Una risposta
potrebbe essere quella che si riferisce al conflitto o, più esattamente, al
conflitto neurotico.
Se
facciamo risalire i meccanismi difensivi dell’Io al conflitto neurotico, siamo
costretti ad entrare nel campo delle psiconevrosi. Non è che siamo obbligati a
fissare l’eziologia dei meccanismi di difesa al conflitto neurotico perché ci
sono dei meccanismi difensivi che non sono secondari ad una nevrosi. Quando la
pulsione raggiunge lo scopo, anche se si osserva la presenza di un meccanismo
difensivo, possiamo dire che il tutto si è svolto nell’ambito della normalità.
Tuttavia, in questo caso, dobbiamo postulare la trasformazione dello scopo
originario della pulsione in un altro, più adeguato ai fini del
soddisfacimento; e questo per motivi oggettivi o soggettivi. Ma
procediamo con ordine. Freud in “L’Io e l’Es” e in “Nevrosi e psicosi” fa
risalire il conflitto neurotico allo scontro fra due impulsi, vale a dire, tra
l’Es e l’Io. Fenichel, nel suo “Trattato di psicoanalisi”, esplicitando la
formulazione freudiana, spiega che quando si crea un’ arginatura dell’Io, nei
confronti della pulsione che vuole trovare uno sbocco, vale a dire, la
gratificazione, si crea un conflitto che, a lungo andare, può portare alla
nevrosi.
Il
fatto è che l’uomo cerca, naturalmente, di sfuggire al dolore e, se proprio è
costretto a patirne, di allontanarsene il prima possibile, per ripristinare
l’omeostasi interna. E’ questo un principio biologico, prima ancora che
psicologico.
E
così, già dai primi mesi di vita, il bambino attiva delle difese per
proteggersi dal dolore. In senso generale, una prima difesa che il bambino
attiva, aiutato in ciò dagli adulti, è quella che si riferisce alla vita. Con
ciò vogliamo dire che il bambino, in quanto non ha ancora gli strumenti per
padroneggiare e tollerare la realtà, se la inventa, la trasforma e la “nega”
con la fantasia. E’ aiutato in ciò, come dicevamo prima, dagli adulti: le più belle
e convincenti fiabe sono state scritte, appunto, dagli adulti. Con le favole si
entra in un mondo dove i prati sono più verdi di quelli veri, i fiori hanno
colori più variopinti e vividi e, poi, allontanandoci da queste immagini
bucoliche, prevale la giustizia, il coraggio, l’ottimismo e,
naturalmente, il lieto fine dove tutti “vissero felici e contenti”.
Senza
dubbio, queste invenzioni hanno un valore difensivo e, in quanto funzionano,
hanno un valore adattivo.
In
questi casi, non si può parlare di conflitto: il bambino, non solo accetta la
favola, ma pretende che sia sempre la stessa, che non venga cambiata neanche
una virgola tutte le volte che è raccontata.
Tuttavia,
se questo è senz’altro vero per qualche tempo, è altrettanto vero che il
bambino, a partire da un certo punto del suo percorso evolutivo, vuole anche la
verità. E allora si chiede, e vuole chiarimenti dall’adulto, se la befana
viaggia davvero a cavalcioni sulla sua scopa magica, e Babbo Natale porta davvero
i doni con la slitta volante trainata da magiche renne che volano di casa in
casa a portare i doni ai bambini buoni. E naturalmente, ad un certo punto, si è
costretti, da parte dell’adulto, a confessare che si tratta di fantasie, e , da
parte del bambino, a prendere atto di questa amara verità.
A
partire da questo momento, per difendersi dalla presa di coscienza di verità
spiacevoli, i meccanismi difensivi devono esser più plausibili e più
sofisticati. Perché questo è il punto. I meccanismi difensivi dell’Io vogliono
attenuare la fatica del vivere, sfuggire a sensazioni spiacevoli o francamente
dolorose.
A
questo punto si pone un problema. I meccanismi difensivi sofisticati e
plausibili fanno correre il rischio di falsificare la realtà. E’ esattamente
ciò che succede nell’infanzia con le fiabe: solo che qui la falsificazione
della realtà rientra nel controllo consapevole dell’adulto il quale
gradualmente confessa al bambino che ciò che gli è stato raccontato non è vero.
Ma all’adulto chi dice che le falsificazioni della realtà e, soprattutto, le
falsificazioni della realtà psichica interna sono fantasie, cioè, non sono
vere? Evidentemente, è l’adulto stesso che se lo deve dire, confrontandosi con
se stesso, e cioè con le sue illusioni, gli inganni e gli autoinganni. Come può
portare a compimento un’operazione del genere? Sostituendo il principio del
piacere con quello di realtà. Il primo principio tende al soddisfacimento del
piacere a qualsiasi costo e in forma immediata, il secondo conosce l’attesa e consente
il soddisfacimento dei bisogni realistici. Detto in altri termini, il principio
del piacere vuole l’uovo subito, quello di realtà preferisce la gallina domani
e a patto che ci siano pollai disponibili.
Detto
così, le cose sembrano facili. In realtà è talmente difficile non ingannarsi,
non difendersi, abbandonare le proprie armature, che in alcuni casi il rimedio
(la difesa) è peggiore del male (la verità). E’ il caso dei meccanismi di
difesa patogeni che si osservano nelle psiconevrosi.
Ora
possiamo passare all’elencazione e descrizione dei meccanismi di difesa. Essi
sono: la sublimazione, la negazione, la proiezione, l’introiezione, la
rimozione, la formazione reattiva, l’annullamento, l’isolazione, la
regressione.
Sublimazione
Abbiamo
preferito inserire la “Sublimazione” al primo posto tra i meccanismi difensivi
perché questa difesa può essere considerata normale. Le altre , pur potendole
osservare in persone normali, più facilmente si trasformano in difese patogene
ed è per questo che sono presenti, in varia misura, nelle psiconevrosi.
Nella
sublimazione, come in tutti i meccanismi difensivi, la pulsione cambia lo scopo
o l’oggetto, come osserva Fenichel nell’opera citata sopra, ma, a differenza
delle difese patogene, realizza alla fine la sua scarica.
In
effetti il punto è proprio questo. I meccanismi difensivi dell’Io, nel
tentativo di sfuggire a stati d’animo penosi, solitamente “negano” o
“proiettano” o “rimuovono” l’affetto legato alla pulsione, con la conseguenza
che la loro carica, controllata dalla controcarica psichica dell’Io , non
riesce a manifestarsi e quindi a consumarsi.
Nella
sublimazione, invece, la carica legata alla pulsione, dopo un’adeguata
trasformazione dello scopo, si consuma in un’attività socialmente accettata e
con significati e contenuti adattivi per il soggetto.
Volendo
esplicitare meglio quanto abbiamo detto, se si vuole sublimare una pulsione
aggressiva è opportuno, intanto, ritirare l’energia dalla pulsione,
successivamente attivare un’operazione psichica che possa consumare l’energia
delle cariche aggressive attraverso il nuovo processo psichico. In questo modo,
attraverso la sublimazione, si può evitare di esibire un comportamento
aggressivo canalizzando, per esempio, l’energia della pulsione in un’intensa
attività intellettuale. In questo caso l’Io trova comunque il suo
soddisfacimento, non già nella gratificazione diretta, ma nel suo derivato
pulsionale.
Perché
un’operazione del genere sia possibile, gli impulsi pregenitali, sperimentati
nell’infanzia, devono essere trasformati in genitalità. E questo perché, mentre
gli impulsi pregenitali sono trattenuti dalle controcariche psichiche dell’Io
che creano uno stato di arginatura, quelli genitali trovano una canalizzazione
libera che consente o la scarica diretta o quella indiretta, dopo la
modificazione dello scopo, attraverso appunto la sublimazione.
Negazione
Con
questo meccanismo difensivo, antico in senso filogenentico ed ontogenetico, si
cerca di sfuggire a stati d’animo di sofferenza, negando la realtà spiacevole
che ha provocato lo stato di disagio.
Quella
della negazione è una difesa che si può osservare abbastanza frequentemente nei
bambini. Ciò è dovuto al fatto che il bambino, intanto, è regolato dal
principio del piacere che non gli consente di tollerare frustrazioni troppo
forti e a dilazionarle e, poi, perché la sua capacità di operare un esame di
realtà corretto è limitata o, quando è troppo piccolo, assente.
Da
quanto detto si capisce facilmente che mano a mano che l’Io del bambino si
sviluppa, certe grossolane alterazioni della realtà diventano sempre più
difficili, perché sempre meno verosimili.
Messe
così le cose, si può dire che la forza della negazione è inversamente
proporzionale al grado di maturità e forza dell’Io. Perfino nel bambino si può
osservare una negazione “leggera”, nel senso che è presente, sul piano della
coscienza, la capacità di distinguere tra fantasia e realtà. Il bambino,
attraverso il gioco, può negare la realtà e rifugiarsi nella fantasia, rimanendo,
tuttavia, consapevole del fatto che sta giocando e le cose stanno in tutt’altro
modo.
Nell’adulto
la difficoltà o impossibilità ad accettare quel tipo di realtà spiacevole
sottende una scissione dell’Io, che non necessariamente deve avere contenuti
psicotici, in quanto limitata e transeunte, ma che rappresenta comunque uno
scollamento tra la parte cosciente dell’Io e la dimensione pulsionale
inconscia. Questo significa che nel meccanismo della negazione è presente anche
quello della rimozione. Il soggetto preferisce non ricordare, vale a dire,
censurare le tracce mnestiche che potrebbero consentirgli una corretta analisi
della realtà anche se spiacevole, anziché riconoscerla e conseguentemente
accettarla.
Un
paziente in trattamento psicoanalitico , riferiva al suo analista che essendo
uscito dal ristorante insieme agli amici con i quali si era intrattenuto nel
corso della serata, discutendo dell’opportunità di concludere la serata in
discoteca aveva avuto la netta sensazione che quel discorso era stato già fatto
e si era concluso con la decisione di andare tutti a casa. In realtà le cose
non finirono così. Si decise, per come si era convenuto, di recarsi in
discoteca. L’analisi dimostrò che il paziente, volendo andare a casa, aveva
rimosso gli accordi della comitiva prima della cena e negò l’evidenza, cioè la
volontà del gruppo di concludere la serata in discoteca. Il fenomeno del dejà
vu, ricordato da Fenichel (op. cit.), attraverso l’utilizzazione di ricordi
schermo secondo il meccanismo del comando a ricordare, gli aveva dato
l’illusione di poter andare a dormire, rimuovendo i veri ricordi (gli accordi
presi in precedenza), negando l’evidenza( la volontà precisa da parte degli
altri).
Proiezione
Marta
Olivetti Belardinelli, nel suo bel libro “Identificazione e proiezione”, cita
un passo dei “Racconti popolari serbi” di Franjo Tragrancic per introdurre e
spiegare il meccanismo difensivo della proiezione: “Un tale che aveva mal di
denti incontrò un altro che stava urlando a squarciagola e gli chiese che cosa
avesse; e quando il poveretto gli rispose che una vipera l’aveva morso,
osservò:- credevo che ti facesse male un dente!-“.
Come
si può vedere, l’artista spesso coglie, intuitivamente, con la sua sensibilità,
certe verità importanti. In questo caso è colto e descritto, in modo semplice
ed efficace, il meccanismo della proiezione.
Per
cogliere i contenuti di questo meccanismo difensivo, bisogna rifarsi alle
primissime esperienze del bambino collegate all’atto del mangiare.
I
cibi appetibili, solitamente, vengono “ingoiati”, quelli disgustosi, al
contrario, vengono “sputati”. C’è da dire, però, che la valutazione di
appetibilità non sempre dipende dalla bontà del cibo; in alcuni casi, i motivi
che portano al rifiuto del cibo, perché non appetibile, sono nascosti e
complessi. Il bambino inappetente o l’adulto anoressico rifiutano il cibo non
perché disgustoso in sé ma per i significati che l’atto del mangiare assume nel
soggetto. E così un bambino che rifiuta il cibo può inconsciamente rifiutare la
madre che dà il cibo, l’adulto anoressico può combattere gli impulsi orali
cannibalici e quindi ostili che l’atto del mangiare, nei suoi vissuti inconsci,
rappresenta.
Il
fatto che quando si va al ristorante, solitamente, si mangia di più può
dipendere, sì, dall’atmosfera ludica che anima i membri della comitiva che si è
recata al ristorante; un altro motivo, però, può essere rintracciato nel fatto
che non si conosce il cuoco. L’anonimato della relazione cuoco-commensali rende
improbabile l’attivazione di quei vissuti di ambivalenza o di franca ostilità
che spesso sono alla base dei fenomeni di inappetenza. L’assenza di ostilità,
in questi casi, può favorire processi psichici di tipo introiettivo che portano
a mangiare, in alcuni casi, ben oltre il bisogno fisiologico del cibo. E’ come
se il soggetto voglia indugiare nel piacevolezza del rapporto con il fantasma
materno antico, quello della madre buona che dà il latte e che solleva
dall’angoscia e dal senso di abbandono e di morte.
Questa
interpretazione può spiegare la dinamica di fondo del meccanismo della
proiezione. Alcuni soggetti tendono a "sputare" contenuti psichici
personali. Tuttavia, l’atto del portare fuori un contenuto psichico spiacevole
non può essere sufficiente. Allora, se il contenuto, per esempio, è un
sentimento di forte ostilità inaccettabile alla coscienza, il soggetto non solo
lo "sputa", ma, per liberarsene anche dal punto di vista della presa
di coscienza, lo attribuisce ad un’altra persona attraverso i meccanismo,
appunto, della proiezione.
Introiezione
L’introiezione,
prima ancora di essere una difesa, è un meccanismo psichico che si può
osservare nei primissimi mesi di vita del bambino. Nel primario rapporto
madre-figlio, in questa diade importantissima dalla quale dipende la qualità
del processo evolutivo, si radicano vissuti che spesso perdurano per tutta la
vita. Per esempio, è abbastanza riconosciuto un po’ da tutti che la radice
dell’ottimismo o del pessimismo risiede nell’esperienze, in senso
emotivo-affettivo, fatte dal bambino nel corso del suo primo anno di vita.
All’inizio della sua vita, il bambino vive una forte dipendenza dalla madre,
per cui si può dire che tra madre e figlio, nonostante sia stato reciso il
cordone ombelicale, c’è una vera e propria simbiosi. Nella prima fase del
rapporto, il bambino considera il seno della madre come una propaggine del
proprio corpo; la presenza della madre che dà il latte è assimilata alla vita,
la sua assenza alla morte. In questa fase orale del processo evolutivo l’atto
dell’ingoiare, del mangiare, dell’incorporare ha una valenza psicologica
estremamente importante al punto da condizionare, in positivo o in negativo, il
successivo processo evolutivo.
Come
accade sempre, i vissuti psichici intensi non si dimenticano, anzi tendono a
riattivarsi in occasione di situazioni forti che richiedono notevole dispendio
di energie. All’inizio, l’introiezione non solo non è una difesa contro gli
istinti, al contrario è la gratificazione immediata e completa dell’istinto. Il
senso di benessere che scaturisce da questa gratificazione, che diventa ad un
certo punto un vero e proprio vissuto di onnipotenza, porta il bambino a
conservare l’oggetto che garantisce il benessere ed a identificarsi con lui.
Tutto questo è positivo. Senza introiezioni e successive identificazioni, il
bambino è destinato ad abortire il processo evolutivo. Ma, come osserva
Fenichel (1951), “l’incorporazione, benché sia un’espressione "d’amore”,
distrugge concretamente gli oggetti in quanto tali - come cose indipendenti nel
mondo esterno”. Il bambino ad un certo punto si rende conto di questo fatto e
ne approfitta, utilizzando l’introiezione con propositi ostili. Nel corso
della vita la relazione oggettuale si modifica, diventa più transitiva, tiene
conto del punto di vista e cioè dei bisogni dell’altro: ma “ se incontra delle
difficoltà, può regredire all’identificazione, ed ogni ulteriore scopo
istintivo può regredire all’introiezione. "L’uso dell’introiezione come
meccanismo di difesa, offre un esempio di come meccanismi primitivi ed
automatici vengano domati ed usati dall’Io per i suoi propositi”.(ibid.).
Rimozione
La
rimozione fu il meccanismo di difesa più studiato o, per prima, studiato da
Freud. Ciò è dovuto al fatto che la rimozione è il meccanismo di difesa
principale della nevrosi isterica. In questo senso non sorprende l’interesse di
Freud per questo tipo di difesa, giacché la prima nevrosi di cui egli si occupò
fu appunto quella isterica. Da considerare, di passaggio, che proprio
attraverso lo studio dell’isteria, Freud arrivò alla psicoanalisi vera e
propria, passando dall’ipnosi e dal metodo catartico(il caso di Elisabeth von
R.).
Nel
trattamento dell’isteria, Freud si accorse, già al tempo del trattamento
ipnotico, che le sue pazienti non ricordavano gli eventi patogeni e,
soprattutto, le emozioni connesse agli eventi che poi avevano determinato i
sintomi. Scoprì, altresì, che il riportare alla coscienza gli eventi
responsabili della nevrosi, sia pure in stato di trance, aiutava la paziente a
liberarsi dal sintomo. Tuttavia, l’altra cosa che dovette rilevare fu che la
paziente, dopo qualche tempo, tendeva a riammalarsi, o riattivando lo stesso
sintomo o sostituendolo con un altro. In altri termini, la rimozione (l’evento
dimenticato e le emozioni ad esso collegate) continuava ad agire, sia pure in
forme diverse, convincendo, così, Freud che la rimozione aveva un valore funzionale
al mantenimento dell’equilibrio della paziente. Comprese, allora, che non
bastava riportare in superficie i ricordi della paziente, né consentire
all’isterica di abreagire la psicodinamica patogena; occorreva che la paziente
integrasse emozionalmente nella coscienza il ricordo disturbante per potersene
liberare. E qui si accorse quanto fosse difficile, per la paziente, ricordare
liberamente e, per l’analista, superare le resistenze che si frapponevano fra
l’evento ed il suo ricordo e la presa di coscienza.
Gli
sforzi di Freud tendenti al superamento delle resistenze delle sue pazienti
consentirono la comprensione della dinamica inconscia del funzionamento
psichico e la forza delle difese. L’isterica voleva guarire dalla sua malattia,
da un lato, ma, dall’altro lato, faceva capire in modo abbastanza evidente che
voleva tenersi la sua nevrosi. Questo era dimostrato anche dalla “belle
indifference” dell’isterica, già notata da Charcot nei suoi studi sull’isteria
condotti alla Salpetriere. Osservando attentamente il comportamento delle
pazienti isteriche si poteva notare che la paziente isterica, pur soffrendo la
patologia, si poneva nei confronti del sintomo con un certo distacco, vale a
dire, con quell’atteggiamento di indifferenza che non si correlava, sul piano
logico e psicologico, con la gravità dei sintomi. Si pensi ad Anna O., la
paziente di Breur: soffriva di parafasia, strabismo convergente, gravi disturbi
della vista, paralisi da contrattura completa nell'arto superiore destro e nei
due arti inferiori, incompleta nell'arto superiore sinistro, paresi della
muscolatura della nuca. Questi disturbi sottendevano dinamiche endopsichiche
estremamente coinvolgenti sul piano emotivo-affettivo che evidentemente erano
considerate dalla paziente più pericolose e, quindi, più gravi degli stessi
sintomi. Di qui le strenue resistenze per non ricordare e l’attivazione di
formidabili meccanismi difensivi per mantenere inconscio il materiale patogeno.
A
questo punto, bisogna precisare che, se il materiale patogeno rimane inconscio,
tuttavia continua ad esistere. Di qui la formazione di derivati pulsionali e
una diffusa stanchezza nel paziente dovuta all’attivazione di controcariche
psichiche dell’Io per tenere a bada la pulsione che vorrebbe trovare uno sbocco
e, quindi, la sua scarica.
Come
si può vedere, il conflitto è tra l’Io e l’Es. Da un lato, la pulsione
che tende alla scarica secondo modelli di funzionamento arcaici, dall’altro, le
esigenze dell’Io di proteggersi dalle pretese eccessive della pulsione, o
considerate tali, che portano, appunto, all’attivazione della difesa. Il senso
di questo conflitto sta nel fatto che entrambi i punti di vista, quello
razionale e quello istintivo, hanno una loro validità. Non si può dar torto
alla pulsione che, per sua natura, tende alla scarica e, cioè, alla sua
gratificazione. Ha ragione l’Io a controllare una pulsione che, avendo
contenuti pregenitali, non ha diritto di cittadinanza in un’organizzazione
psichica adulta, cioè genitale.
Formazione reattiva
"
Molti atteggiamenti nevrotici sono ovvi tentativi di negare o di reprimere
alcuni impulsi o di difendere la persona contro qualche pericolo istintivo.
Sono atteggiamenti convulsi e rigidi, che ostacolano l’esprimersi di impulsi a
loro contrari , i quali, purtuttavia, irrompono a volte nei modi più vari. In
questi casi, la psicoanalisi come psicologia “smascherante”, può provare che
l’opposto atteggiamento originale esiste ancora nell’inconscio. Questi
atteggiamenti, secondari ed opposti, sono chiamati formazioni reattive”
(Freud,1910).
La
caratteristica interessante di questo meccanismo difensivo è che ingloba la
personalità del soggetto che l’attiva. Normalmente la difesa dell’Io si rivolge
ad una pulsione specifica che tende a manifestarsi all’esterno. Alcuni soggetti
hanno un vissuto diffuso e generalizzato nei confronti delle richieste
istintive che è di paura e di non accettazione. L’organizzazione psichica di
questi soggetti tende ad una impostazione definitiva, che si tradisce per la
sua rigidità, in base alla quale la possibilità di scarica della pulsione è
improbabile per il semplice fatto che è stata predisposta una canalizzazione
alla pulsione che la porta sistematicamente lontano dallo scopo, almeno fino a
quando non arriva il tracollo della difesa:
“
Le formazioni reattive evitano le repressioni secondarie, mutando la
personalità in modo definitivo "una volta per tutte". La persona che
si è costruita una formazione reattiva non sviluppa certi meccanismi di difesa
da usarsi quando è minacciata da un pericolo istintivo; essa ha cambiato la
struttura della sua personalità, sulla base della continua supposta presenza di
questo pericolo, in modo da trovarsi pronta se il pericolo si verifica. La
pulizia o il senso dell’ordine del nevrotico coatto forniscono esempi; egli
combatte, per mezzo di questi tratti caratteristici contro le sue richieste
istintive di sporcizia e di disordine. La rigidità di tale pulizia e senso
d’ordine e l’occasionale irrompere della sporcizia e del disordine tradisce la
qualità di reazione di questi tratti di carattere.” ( Fenichel op. cit.)
E
così, una madre apprensiva che controlla il figlio esageratamente perché non si
faccia male nelle sue attività, quando esibisce il controllo in modo rigido ed
ingiustificato, può tradire il bisogno di controllare la sua ostilità nei
confronti del figlio che, ove non fosse controllata, potrebbe manifestarsi
sotto forma di aggressione più o meno grave.
Gli
esempi potrebbero essere numerosi. Una calma esagerata può sottendere la paura
di perdere il controllo dei propri impulsi, una mitezza che non tiene conto di
alcuna provocazione o minaccia esprime il più delle volte incapacità a
confrontarsi con la pulsione aggressiva, un atteggiamento sfrontato ed
arrogante, tipico, per esempio, degli adolescenti, senso di inadeguatezza. Ciò
che stiamo cercando di dire è che la rigidità del comportamento qualifica
e tradisce la formazione reattiva: non è l’attenzione in sé della madre che
protegge il figlio ad essere un disvalore, la mitezza può esprimere delicatezza
di sentimenti e bontà, un adolescente presuntuoso può darsi che stia portando
avanti un processo di individuazione ed affermazione del proprio sé che possa
distinguerlo dagli altri, operazione psichica senz’altro normale e lodevole.
A
conclusione di quanto detto, bisogna considerare che il comportamento normale è
soprattutto plastico. I livelli adattivi di una persona si misurano nella sua
capacità di trasformare l’ambiente esterno, quando ciò è possibile, rendendolo
sintonico con i propri bisogni, oppure, modificare il suo modo di operare
quando l’ambiente esterno non consente altre soluzioni. Nella formazione
reattiva si osserva un comportamento sempre uguale a se stesso, vale a dire,
sempre aderente a bisogni difensivi che non tengono conto della realtà esterna
e della sua verità.
Annullamento
Nelle
nevrosi ossessive è piuttosto frequente l’osservazione di questo meccanismo
difensivo. Con l’annullamento si cerca di soddisfare contemporaneamente due
bisogni: quello istintivo rimosso e quello della difesa. Un soggetto che prima
di andare a letto sente il bisogno di controllare più volte se ha chiuso il
rubinetto della bombola del gas vive una dinamica ambivalente. Ad un primo
livello, la bombola del gas, attraverso una serie di catene associative (il
fuoco, l’incendio, lo scoppio) elicita richieste istintive di tipo distruttivo,
ad un secondo livello, la chiusura del rubinetto “annulla” la richiesta
istintiva creando le condizioni perché non si possa avverare. In questi casi
non si ha soltanto paura che la dinamica pulsionale possa passare all’esterno,
si vive anche il desiderio di avvicinarsi alla tentazione. La chiusura del
rubinetto della bombola del gas è una attività di controllo e quindi di difesa,
ma è anche secondaria ad una ripetuta tentazione di creare, sul piano
fantasmatico, l’impulso temuto. Questo è il motivo che spiega la compulsione
dell’atto: il soggetto si alza cento volte dal letto per controllare la bombola
del gas perché ripetutamente si ripropone l’impulso distruttivo. Quando
alla fine l’annullamento viene considerato efficace il soggetto finalmente non
si alza più e riesce ad addormentarsi.
Fenichel
riferisce il caso di “ un paziente irreligioso, obbligato a pregare in modo
ossessivo per la salute della madre malata, che sviluppò in seguito il sintomo
coatto di battersi leggermente la bocca dopo aver pregato. Era un annullamento
del sintomo reprimente, un ritorno di quel desiderio represso che si augurava
la morte della madre, e che significava: “ Mi ricaccio in bocca le parole della
preghiera”(ibid.).
Il
meccanismo difensivo di cui stiamo trattando può essere ricondotto al pensiero
magico del bambino. Nelle prime fasi di sviluppo il bambino pensa che il
pensiero abbia una sua realtà e , quindi, una sua forza. Il nevrotico ossessivo
è dominato dall’onnipotenza del pensiero. Egli crede che ciò che pensa si
possa veramente realizzare. E questo è anche uno dei motivi che rende difficile
il trattamento del nevrotico ossessivo. Durante il trattamento, il paziente
ossessivo difficilmente si lascia andare ai suo sentimenti, alle sue emozioni;
trasferisce il tutto nella dimensione razionale: è spesso un paziente lucido,
brillante sul piano intellettivo, ma non riesce a vivere la dinamica
pulsionale, limitandosi a riproporla in astratto in analisi e ad annullarla in
acquisizioni teoriche. Così facendo crede di fare tutto il possibile per
guarire, mentre in realtà sta divagando e, spesso, porta a spasso anche
l’analista.
Isolazione
Anche
questo meccanismo difensivo si può osservare nelle nevrosi
ossessive. In questo caso è presente il collegamento ideativo con
l’evento patogeno , manca il coinvolgimento dal punto di vista emotivo-affettivo.
Il paziente non ha il problema di ricordare, di cogliere i nessi tra i suoi
sintomi e la dinamica di fondo, ciò che gli manca è la traccia emotiva che
porta alla dinamica pulsionale. In analisi il paziente è partecipativo,
collabora, non attiva forti resistenze al trattamento, nel senso di dimenticare
la seduta, di proiettare sull’analista contenuti psichici personali, di
rimuovere sogni o eventi importanti come materiale d’analisi. La difficoltà con
questo tipo di paziente è di fargli "sentire" l’analisi. Spesso si ha
l’impressione che nel corso della seduta gli analisti siano due, l’analista
vero ed il paziente, ma ci sia anche un terzo paziente fantasma che è
analizzato dal paziente vero. La tendenza ad isolare l’idea dall’impulso fa sì
che il soggetto possa parlare dei suoi impulsi sessuali senza la minima
emozione d’imbarazzo o vergogna. In alcuni casi, il soggetto trasforma impulsi
omicidi in idee ossessive senza particolari turbamenti “ perché il
nevrotico ossessivo è capace di sentire queste idee come puri pensieri,
sicuramente isolati dalla motilità”(ibid.).
Questi
pazienti sono i più difficili da trattare non solo per la loro mancanza di
calore nei confronti della nevrosi. Anche tecnicamente è difficile condurre
l’analisi perché ci sono grosse difficoltà a convincere il paziente a
canalizzare i suoi pensieri nelle libere associazioni. Di per sé il nevrotico
coatto è schematico, deve sempre seguire un percorso prestabilito, si guarda
bene dalle improvvisazioni, è poco spontaneo ed inautentico. D’altra parte non
potrebbe essere diversamente. La mancanza di contatto con la parte più intima
di sé, quella più vera, rende questi pazienti, spesso molto dotati
intellettualmente, incapaci di comprendere fatti e situazioni abbastanza
semplici, perfino, per persone non particolarmente dotate.
Regressione
Freud
collegava la regressione alla fissazione. Per fissazione s’intende un
attaccamento particolare ad una fase evolutiva che può essere rivisitata in
momenti difficili della vita. Ognuno di noi può aver vissuto un momento dello
sviluppo particolarmente gratificante e sicuro; da questa fase evolutiva
ci siamo distaccati a malincuore e, in seguito, abbiamo vissuto, se non rimpianti,
sicuramente, nostalgie.
Per
dare l’idea della regressione, Freud ha fatto ricorso ad un’immagine
suggestiva. Ha paragonato lo sviluppo e le forze dell’Io ad un esercito in
marcia verso un obiettivo. Mano a mano che l’esercito avanza, vengono lasciati
dei presidi, delle postazioni lungo il percorso per motivi logistici. Se
l’esercito incontra delle difficoltà nella sua marcia, ha la possibilità di
ritirarsi sulle postazioni arretrate, dove si può difendere meglio e
riorganizzarsi.
Nella
regressione accade proprio questo. Durante il suo percorso di crescita e
maturazione verso l’obiettivo della condizione adulta, l’Io può incontrare
delle difficoltà e, quando questo accade, può ritirarsi su posizioni più
arretrate del suo sviluppo, in particolare, su quelle che sono considerate più
gratificanti e sicure.
Se
le cose stanno così, si può capire che la regressione dipende dalla forza
dell’Io, dalle difficoltà incontrate nel corso del suo sviluppo, dalla forza
delle posizioni evolutive alle quali l’Io regredisce.
Si
può capire già così, che le regressioni possono essere leggere, se l’Io è forte
e non incontra nella vita particolari difficoltà, oppure importanti in caso
contrario.
La
regressione è abbastanza trasparente nei bambini. In un bambino di due anni che
prende una banale influenza, non è infrequente osservare una perdita del
linguaggio, acquisito da poco tempo. L’allontanamento, anche provvisorio di un
genitore, può causare la perdita dell’acquisizione del controllo sfinterico.
Anche
negli adulti si possono osservare delle leggere regressioni, sia pure per
motivi banali; lo sanno bene le mogli quando i mariti prendono l’influenza o
hanno subito un banale intervento chirurgico: i viaggi tra la cucina e la
camera da letto dove soggiorna il marito, in alcuni casi, si possono misurare
nell’ordine dei chilometri.
Non
sempre, però, le cose sono così semplici o comiche. Un bambino di dieci anni,
per il quale siamo stati consultati di recente, aveva attivato una forte
regressione, in seguito ad un’alterazione in negativo della dinamica familiare,
che lo aveva portato a rifiutare il cibo ed a nutrirsi soltanto di
omogeneizzati.
Fenichel
osserva che la regressione è un tipo di meccanismo difensivo atipico: l’Io è
piuttosto passivo nella regressione, subisce gli eventi e cerca gli equilibri
che può trovare. In effetti, lo si può vedere dagli esempi riportati, nella
regressione l’Io non attiva dei processi psichici che, ancorché inconsci,
dimostrano di possedere una precisa intenzionalità. Più semplicemente l’Io, di fronte
alle difficoltà, s’indebolisce, si ferma, torna indietro su posizioni più
leggere e aspetta che il momento difficile passi e lui recuperi le forze per
riprendere il suo cammino.
Naturalmente,
nelle psiconevrosi il discorso è un po’ diverso. Qui la regressione non è di
poco conto, non si torna indietro di qualche passo che, oltretutto, in alcuni
casi, serve per spiccare un grande balzo in avanti. Nelle nevrosi si può
regredire, stiamo seguendo sempre Fenichel, da un’organizzazione psichica di
tipo genitale, che rappresenta la normalità in una persona adulta, ad una
organizzazione di tipo pregenitale. Quando ciò accade, si può immaginare con
ragionevole sicurezza che il soggetto, nel corso del suo sviluppo, non ha
superato la fase pregenitale in forme complete, ha rimosso desideri e bisogni
collegati a quel periodo, e, in seguito, in un momento di difficoltà, cerca
quei desideri rimossi ed anche la loro gratificazione.
Un
altro tipo di regressione è quella che si volge “ al narcisismo primario, o
allo stadio di sviluppo che precede la differenziazione finale di Io e di Es.
Se questa più profonda regressione ha luogo, si ha una ripresa del più antico
tipo di difesa – il blocco dell’Io.”( Fenichel op. cit.).
Come
si può vedere, in alcuni casi il rimedio è peggiore del male, in altri ha
contenuti adattivi, pur sottintendendo una certa vulnerabilità dell’Io.
A
questo punto, è il caso, forse, di tirare le fila del discorso. I meccanismi
difensivi dell’Io operano sempre al di fuori della sfera del conscio, esprimono
un conflitto tra l’Io e l’Es, dimostrano i limiti di ogni essere umano.
Tuttavia, la scoperta e l’accettazione di questi limiti è un sicuro indizio di
maturità, quando si riesce a prenderne coscienza e a procedere secondo verità.
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