Emozioni e cervello
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“…un’emozione allo stato selvatico
può essere addomesticata da un’emozione cosciente…”
J. Hillman
può essere addomesticata da un’emozione cosciente…”
J. Hillman
Charles Joseph
Whitman è stato un Marine americano tristemente noto per aver compiuto
una strage il 1 Agosto 1966 ad Austin. Quel giorno Whitman, dopo aver
ucciso durante la notte la madre e la moglie, salì sulla torre
dell’Università e con 46 colpi di fucile uccise 16 persone e ne ferì
altre 30. Alla fine fu ucciso dalla polizia che trovò una lettera
scritta di suo pugno in cui chiedeva che, “dopo che tutto fosse finito”,
si eseguisse un’autopsia sul suo cadavere. Autopsia che rivelò la
presenza nel cervello dell’assassino di un tumore all’amigdala: una
formazione sottocorticale implicata nella modulazione e nella percezione
di emozioni primarie in particolare la paura e la collera (più precisamente i meccanismi di attacco-fuga e le emozioni ad essi collegate).
Questo non è che uno
(e ovviamente dei più eclatanti) casi clinici che “dimostrano” un nesso
diretto fra certe strutture del cervello e certe specifiche difficoltà
nel controllo delle emozioni.
E’ anche, insieme a
tanti altri studi di lesioni dell’amigdala e di parti del sistema
limbico, uno dei cavalli di battaglia di chi sostiene che le emozioni e i
comportamenti non sono che il frutto del buono o cattivo funzionamento
del cervello e che solo un intervento chimico o, in certi casi
chirurgico, può davvero risolvere i problemi di controllo delle emozioni.
E’ un tipico ragionamento da pensiero forte,
una pensata del tipo: “vedi, un danno all’amigdala produce mancanza di
empatia e una sorta di autismo emotivo… in certi altri casi impedisce il
controllo e l’inibizione della paura e della collera… quella parte del
cervello è il centro di queste funzioni… dobbiamo trovare un farmaco che
agisca e sia efficace lì, su quella porzione di cervello e dobbiamo
sapere che le persone che hanno difficoltà con il controllo delle
emozioni sono dei malati di… ecc.”.
Questo ragionamento,
come spesso accade quando si parla di esseri umani, è vero solo in
parte e solo nei casi limite: se si escludono i casi di lesioni
evidenti, di tumori e di comportamenti estremi non si può e non si
dovrebbe parlare di malattia quando si parla di difficoltà nella
gestione delle emozioni.
Farlo significa cadere in una serie di iper-semplificazioni che spiegano una parte del problema ma che lasciano “chi soffre del disturbo” solo e malato finché i ricercatori non troveranno la cura. Comporta inoltre il rischio di cadere nella trappola di ridurre l’uomo ad un organismo e il corpo a qualcosa di isolato dal mondo il che implica il solito errore della descrizione unilaterale: ho trovato una spiegazione di un fenomeno e, quindi, ho spiegato il fenomeno.
Farlo significa cadere in una serie di iper-semplificazioni che spiegano una parte del problema ma che lasciano “chi soffre del disturbo” solo e malato finché i ricercatori non troveranno la cura. Comporta inoltre il rischio di cadere nella trappola di ridurre l’uomo ad un organismo e il corpo a qualcosa di isolato dal mondo il che implica il solito errore della descrizione unilaterale: ho trovato una spiegazione di un fenomeno e, quindi, ho spiegato il fenomeno.
Charles Whitman era
stato addestrato fin da piccolo all’uso di armi da fuoco da un padre
autoritario ed estremamente rigido, era entrato nell’esercito degli
Stati Uniti ed era diventato un cecchino, soffriva da anni di cefalea
che “tentava di curare con l’uso di anfetamine” (sic)…
Insomma, non proprio il training più adatto ad aumentare l’intelligenza emotiva.
Probabilmente il tumore all’amigdala si sarebbe sviluppato lo stesso ma
credo che le domande che ci si dovrebbe porre sono: avrebbe sparato lo
stesso se la cultura in cui fosse stato immerso fin da bambino avesse
“spinto in un’altra direzione”? Si sarebbe comportato diversamente se
invece che nell’esercito avesse passato anni a studiare antropologia o
medicina o teologia? O se avesse chiesto aiuto invece di ricorrere ad un
automedicazione a base di anfetamine?
Sono domande che interrogano su aspetti diversi della persona e che presuppongono una visione dell’essere umano inteso come un sistema: non solo corpo o solo mente o solo ambiente ma mente-cervello/corpo-relazione.
In un sistema mente-cervello-relazione le emozioni diventano qualcosa di molto più ampio e l’individuo è visto come un essere vivente che è immerso nelle emozioni,
che le determina e ne è determinato, che le esprime e le subisce mentre
sente, intorno a sé, quelle degli altri e ne è compenetrato.
Diceva Hillman: “Le
emozioni hanno sempre valore per la sopravvivenza e rivelano sempre
qualche verità sul reale, ma si tratta di una verità simbolica, non
meramente sociologica o biologica (dell’ambiente o del corpo). Non
possiamo pertanto condannare un’emozione senza prima averle dato
udienza, senza aver cercato di cogliere la sua trasformazione nel
simbolico.” (J. Hillman Emotion 1960 corsivi miei).
Dare udienza ad un’emozione è ascoltala con un orecchio diverso:
smettere di considerarla un semplice sintomo o una reazione al mondo o
“un qualcosa che nasce dentro e contro cui o per cui non posso fare
niente”. Darle udienza è compiere un gesto che “gli emotivi” spesso non
fanno e che i riduzionisti evitano con cura; è spostarla in una parte
diversa del cervello: è portarla in un diverso ambiente e leggerla diversamente, pensarla e osservarla mentre la si vive.
Trasformarla nel simbolico significa non agirla: non sparare perché sono arrabbiato, fuggire perché sono spaventato…; e nemmeno cacciarla via come un sintomo:
coprirla con il primo farmaco a disposizione, cercare di non sentirla,
vergognarmene, nasconderla… Significa, invece, darle spazio e amplificarla: metterla in un contesto più ampio, vedere chi l’ha già provata, capire che non è solo mia e spesso appartiene ad una psiche più ampia, tanti hanno avuto paura, sono stati tristi, si sono arrabbiati e “su questo hanno pensato, scritto, dipinto, raccontato”.
Nel nostro cervello,
alcuni centimetri sopra all’amigdala, ci sono strutture che, nell’Homo
sapiens, si sono sviluppate e specializzate proprio in questo lavoro: vedere “come se”, simbolizzare, aggiungere senso, sublimare.
Quando pensiamo con
più profondità e riflettiamo su ciò che stiamo vivendo, quando non ci
limitiamo ad esser vissuti da ciò che proviamo ma diamo un senso e una
direzione al nostro sentire, quando accettiamo un’emozione e
comprendendola le diamo uno sfondo in cui possa davvero esprimersi,
stiamo usando e allenando questa funzione superiore che ci
differenzia dagli animali e che ci permette di vivere fuori dalle
anguste pareti del nostro cranio e immersi seppur separati dal mondo che
ci circonda.
Stiamo anche facendo
i conti con la nostra emotività e osservando i nostri aspetti
nevrotici, quelli in cui le emozioni tendono ancora a farla da padrone e
a condurre il gioco. Ma, per dirla ancora con Hillman: “Quante volte le
nevrosi, con la loro emotività distorta e immatura, si rivelano anche
una forma di adattamento creativo… Troppo spesso il terapeuta che ha una
visione troppo angusta della vita emotiva considera la nevrosi un
tentativo abortito di sviluppo e si precipita a recare sollievo. Oggi ci
si aspetterebbe quasi che gli amici di Giobbe o i compagni di Gesù nel
Getsemani avessero pronta la loro brava confezione di tranquillanti.
Insomma, le emozioni, anche le più anomale, vanno prese terribilmente
sul serio prima di diagnosticarle come aberranti e immature e prima di liquidarle come meri prodotti del cervello o disturbi da sopprimere o accontentare passivamente.” ( J. Hillman Emotion 1960 corsivi miei)
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