Ansia: un primo antidoto
Posted di drdedalo
“L’ansia è quel che più
uccide l’amore. Crea i fallimenti.
Fa in modo che gli
altri si sentano come tu ti sentiresti
se una persona che sta
affogando si aggrappasse a te.
Vorresti salvarlo ma
sai che, con il suo panico,
potrebbe strangolarti “
Anaïs Nin
Tutti portiamo un cronico fardello di ansia: una sorta di
secondo corpo non visibile ma percepibile internamente.
E’ lì che possiamo andare ogni volta che ci chiedono o ci chiediamo
“come ti senti?”: diamo un’occhiata e sappiamo quanto in pace o in conflitto,
in armonia o in dissonanza, attivati o disattivati siamo.
E’ un giudizio soggettivo che non ha niente a che fare con le
misurazioni esterne: una persona può sembrare calma e sentirsi terribilmente
ansiosa, può dissimulare e nascondere ma, proprio per questo, a volte, essere
ancora più agitata.
Solo coloro che ci conoscono bene sono in grado di cogliere
quei piccoli segnali che fanno la differenza e ci sono frangenti in cui se ne
accorgono prima gli altri, della nostra ansia, perché noi siamo impegnati a
difenderci dalla sua presa e nel tentativo di non sentirla attiviamo quelle
difese che ci sembra che possano allontanarla.
Spesso mi capita di sentire l’ansia di un paziente appena
entra in studio: mi accorgo di qualcosa nel suo respiro… non fluisce come al
solito… ha quelle intermittenze che noto quando parla di cose che lo agitano,
lo preoccupano, lo fanno soffrire.
E’ il suo solito fardello ma oggi pesa di più: più acuto,
appuntito e ingombrante, più difficile da portare.
Ci sono mille fattori che intervengono a modificare la
percezione soggettiva di un sintomo. Ci sono momenti in cui quello che sembrava
un piccolo peso ci sembra un macigno insostenibile e altri in cui sentiamo che
niente può piegarci. Dipende dalla durata dello stimolo, dalla quantità di
attenzione che gli dedichiamo (quanti filtri riusciamo a mettere, quanto
riusciamo a distrarci, su cos’altro siamo impegnati), quanto abbiamo riposato,
come abbiamo dormito e sognato, che farmaci abbiamo assunto… tutto questo gioca
un ruolo nel contribuire a cambiare il modo in cui percepiamo, in diversi
momenti, “lo stesso sintomo”.
Che quindi, naturalmente, non è mai “lo stesso”. Cambia in
base a come lo portiamo ed è per questo che in seduta, dopo un po’ che insieme
si osserva un’emozione, uno stato d’animo e la quantità di ansia che li gonfia,
li amplifica o li colora, dopo un po’ che si guarda con attenzione il dolore di
cui il paziente è portatore… quel dolore tende a scomparire: cambia intanto che
viene espresso, si attenua, diventa più sopportabile.
L’interesse del terapeuta unito all’interesse del paziente
sembra aggiungere qualcosa al sistema: certi “oggetti” che prima erano presenti
solo dentro al paziente vengono spiegati, raccontati e osservati da entrambi;
ciò che viene aggiunto è un osservatore composto: due punti di vista su ciò che
viene descritto e ascoltato e differenziato da “tutte le altre volte”.
Questo osservatore ibrido diventa, per qualche non ancora ben
chiarito motivo, curativo. L’ansia spiegata e raccontata, intravista e
estrovertita tende a svanire. Il fardello condiviso diventa meno pesante.
Sono convinto che quel che succede in questi “momenti
terapeutici” sia l’esatto contrario di ciò che Anaïs Nin descrive nell’aforisma
che ho citato nell’incipit: si riesce, a volte, a tendere una mano a chi sta
affogando nella propria ansia e, dopo un po’, si guadagna terra, ci si toglie
insieme da uno stato di paura e di rigidità in cui le difese stesse, nel
tentativo di sconfiggerlo, aumentano e determinano il sintomo.
E credo che questo succeda perché, nel dialogo, ci si
avvicina ad una definizione meno claustrofobica di psiche, ci si libera dai
confini stretti di una mente piccola e troppo soggettiva.
Hillman dice: ” Fin da Platone ‘psiche’ è stata riferita a
un’anima avvolgente, esterna al di là della nostra testa e della nostra pelle
umana, al di là dei confini di ‘me’, al di là delle relazioni intra e
interpersonali, perfino al di là del mondo in quanto mio ambiente ecologico e
mio campo proiettivo. Come diceva Jung: non è la psiche in me, ma io nella
psiche.”
Quando cadiamo preda dell’ansia iniziamo a dibatterci in un
mondo che non va al di là del nostro piccolo corpo fisico, cominciamo a
sentirci limitati e non accettati, desiderosi di approvazione e spaventati
dalla possibile rottura del legame; la psiche diventa una piccola mente
soggettiva e il desiderio diventa bisogno.
Poi, miracolosamente, appena ci sentiamo capiti, appena ci
accorgiamo di essere un po’ meno soli, i confini tornano ad allargarsi. In una
psiche più vasta ci ricordiamo di saper nuotare e non è mai il terapeuta a
salvarci! E’ il cambiamento di visione, l’assunzione di una mappa più
intelligente che ci permette di riprendere, letteralmente, i sensi.
L’ansia non se ne va ma fa quello che ogni emozione dovrebbe
fare: viene espressa e: “Se, come in molte teorie, definiamo l’emozione come
un’azione trattenuta all’interno dell’organismo, allora le emozioni vogliono
fare quello che dice la parola stessa : ex-movere uscire fuori, e la rabbia è
in realtà, violenza interiorizzata, frustrata. E l’ansia non è che paura non
detta, non espressa e contenuta in una rigida corazza” (J. Hillman 1989,
corsivi finali miei).
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