giovedì 11 aprile 2013

Tratto da "Siddharta" di Herman Hesse



La voce del fiume

Lentamente fioriva,lentamente maturava in Siddharta il riconoscimento, la consapevolezza di ciò che realmente sia saggezza, qual fosse la meta del suo lungo cercare. Non era nient’altro che una disposizione dell’anima, una capacità, un’arte segreta di pensare in qualunque istante, nel bel mezzo della vita, il pensiero dell’unità, sentire l’unità e per così dire respirarla. Lentamente questo fioriva in lui, gli raggiava incontro dal vecchio volto infantile di Vasudeva: armonia, scienza dell’eterna perfezione del mondo, sorriso, unità.
Ma la ferita bruciava ancora: con amaro desiderio Siddharta pensava a suo figlio, nutriva in cuore l’amore e la tenerezza per lui, si lasciava consumare dal dolore, commetteva tutte le pazzie dell’amore. Non da sé si sarebbe mai spenta questa fiamma. E un giorno, che la ferita bruciava intensamente, Siddharta attraversò il fiume, sospinto dalla nostalgia, e scese dalla barca deciso ad andare in città e cercare suo figlio. Il fiume scorreva calmo e lieve – era la stagione asciutta – ma la sua voce aveva uno strano suono: rideva! Era chiaro che rideva. Il fiume rideva, rideva apertamente alle spalle del vecchio barcaiolo.
[...]
Il fiume rideva. Sì, era così, tutto ciò che non era stato sofferto e consumato fino alla fine si ripeteva, e sempre si soffrivano di nuovo gli stessi dolori. Ma Siddharta rimontò nella barca e fece ritorno alla capanna, ripensando a suo padre, ripensando a suo figlio, deriso dal fiume, in disaccordo con se stesso, vicino alla disperazione, e meno vicino a ridere sonoramente di sé e del mondo intero. Ahimè! non ancora fioriva la ferita, ancora si ribellava il suo cuore contro il destino, non ancora germogliavano serenità e vittoria dal suo soffrire. Tuttavia sentiva qualcosa come una speranza, e quando fu rientrato nella capanna sentì un irresistibile desiderio di aprirsi a Vasudeva, di rivelargli tutto, di raccontare tutto a lui, ch’era maestro nell’ascoltare.
Vasudeva sedeva nella capanna e intrecciava una cesta. Non guidava più la barca, i suoi occhi cominciavano a indebolirsi, e non solo gli occhi, ma anche braccia e mani. Soltanto la gioia e la serena benevolenza del suo viso fiorivano immutate.
Siddharta si pose a sedere accanto al vecchio, cominciò a parlare lentamente. Raccontò quelle cose di cui non avevano mai parlato, della sua andata in città, quella volta, della ferita ardente, della sua invidia alla vista dei padri felici, della sua vana lotta contro questi desideri di cui conosceva benissimo la stoltezza. Riferiva ogni cosa, anche le più penose, tutto poteva dire, tutto si sforzava di dire, tutto poteva raccontare e rivelare. Scopriva la propria ferita, raccontando anche della sua ultima fuga, quel giorno stesso, come si fosse imbarcato, fanciullino, col proposito di recarsi in città, e come il fiume ne aveva riso.
Mentre parlava – e parlò a lungo – mentre Vasudeva ascoltava tranquillo in volto, Siddharta sentiva quest’attrazione di Vasudeva più forte di quanto l’avesse mai sentita, sentiva i suoi dolori, i suoi affanni svanire, sentiva la sua segreta speranza prendere il volo e di laggiù venirgli di nuovo incontro. Mostrare la propria ferita a questo ascoltatore era lo stesso che lavarla nel fiume, finché diventasse fredda e una cosa sola col fiume. Mentre ancora continuava a parlare e a confessarsi, Siddharta sentiva sempre più che questo non era più Vasudeva, non era più un uomo che l’ascoltava, che questo immobile ascoltatore assorbiva in sé la sua confessione come un albero la pioggia, che questo uomo immobile era il fiume stesso, era Iddio stesso, era l’Eterno. E mentre Siddharta cessava di pensare a sé e alla propria ferita, questa scoperta del mutato essere di Vasudeva si impossessava di lui, e quanto più egli se n’accorgeva e ci s’immergeva, tanto meno la cosa diventava meravigliosa, tanto più egli scorgeva che tutto era in regola e naturale, che già da lungo tempo, forse da sempre Vasudeva era stato così, soltanto egli non se n’era mai reso conto pienamente. Sentiva ch’egli ora vedeva il vecchio Vasudeva come il popolo vede gli dèi, e che un simile stato non poteva durare; nel suo cuore cominciava già a prender congedo da Vasudeva. Con tutto ciò continuava a parlare.
Quand’egli ebbe finito, Vasudeva levò su di lui il suo sguardo affettuoso, un po’ indebolito dagli anni, non parlò, ma gli diffuse incontro in silenzio amore e serenità, comprensione e sapere. Prese per mano Siddharta, lo condusse al sedile presso la riva, sedette con lui, e sorrise al fiume.
«Tu l’hai sentito ridere» disse. «Ma non hai sentito tutto. Ascoltiamo, udrai ancor altro».
Ascoltarono. Lieve si levava il canto del fiume dalle molte voci. Siddharta guardò nell’acqua e nell’acqua gli apparvero immagini: apparve suo padre, solo, afflitto per il figliolo; egli stesso apparve, solo, anch’egli avvinto dai legami della nostalgia per il figlio lontano; apparve suo figlio, solo anche lui, avido ragazzo sfrenato sulla strada ardente dei suoi giovani desideri, ognuno teso alla sua meta, ognuno in preda alla sofferenza. Il fiume cantava con voce dolorosa, con desiderio, e con desiderio scorreva verso la sua meta, la sua voce suonava come un lamento.
«Odi?» chiese lo sguardo silenzioso di Vasudeva. Siddharta annuì.
«Ascolta meglio!» sussurrò Vasudeva.
Siddharta si sforzò d’ascoltar meglio. L’immagine del padre, la sua propria immagine, l’immagine del figlio si mescolarono l’una nell’altra, anche l’immagine di Kamala apparve e sparì, e così l’immagine di Govinda, e altre ancora, e tutte si mescolarono insieme, tutte si tramutarono in fiume, tutte fluirono come un fiume verso la meta, bramose, avide, sofferenti, e la voce del fiume suonava piena di nostalgia, piena di ardente dolore, d’insaziabile desiderio. Il fiume tendeva alla meta, Siddharta lo vedeva affrettarsi, quel fiume che era fatto di lui e dei suoi e di tutti gli uomini ch’egli avesse mai visto, tutte le onde, tutta quell’acqua si affrettavano, soffrendo, verso le loro mete. Molte mete: la cascata, il lago, le rapide, il mare, e tutte le mete venivano raggiunte, e a ogni meta una nuova ne seguiva, e dall’acqua si generava vapore e saliva al cielo, diventava pioggia e precipitava giù dal cielo, diventava fonte, ruscello, fiume, e di nuovo riprendeva il suo cammino, di nuovo cominciava a fluire. Ma l’avida voce era mutata. Ancora suonava piena d’ansia e d’affanno, ma altre voci si univano a lei, voci di grida e di dolore, voci buone e cattive, sorridenti e tristi, cento voci, mille voci. Siddharta ascoltava. Era ora tutt’orecchi, interamente immerso in ascolto, totalmente vuoto, totalmente disposto ad assorbire; sentiva che ora aveva appreso tutta l’arte dell’ascoltare. Spesso aveva già ascoltato tutto ciò, queste mille voci nel fiume; ma ora tutto ciò aveva un suono nuovo. Ecco che più non riusciva a distinguere le molte voci, le allegre da quelle in pianto, le infantili da quelle virili, tutte si mescolavano insieme, lamenti di desiderio e riso del saggio, grida di collera e gemiti di morenti, tutto era una cosa sola, tutto era mescolato e intrecciato, in mille modi contesto. E tutto insieme, tutte le voci, tutte le mete, tutti i desideri, tutti i dolori, tutta la gioia, tutto il bene e il male, tutto insieme era il mondo. Tutto insieme era il fiume del divenire, era la musica della vita. E se Siddharta ascoltava attentamente questo fiume, questo canto dalle mille voci, se non porgeva ascolto né al dolore né al riso, se non legava la propria anima a una di quelle voci e se non s’impersonava in essa col proprio Io, ma tutte le udiva, percepiva il Tutto, l’Unità, e allora il grande canto delle mille voci consisteva di un’unica parola, e questa parola era Om: la perfezione.
«Senti?» chiese di nuovo lo sguardo di Vasudeva. Chiaro splendeva il sorriso di Vasudeva, sopra tutte le rughe del suo vecchio volto aleggiava luminoso, così come l’Om si librava su tutte le voci del fiume. Chiaro splendeva il suo sorriso quando guardava l’amico, e chiaro splendeva ora lo stesso sorriso anche sul volto di Siddharta. La sua ferita fioriva, il suo dolore spandeva raggi, mentre il suo Io confluiva nell’Unità.
In quell’ora Siddharta cessò di lottare contro il suo destino, in quell’ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità.



"Quando qualcuno cerca" rispose Siddharta "allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori di quella che cerca, e che egli non riesca a trovar nulla, non possa assorbire nulla, in sè, perchè pensa sempre unicamente a ciò che cerca, perchè ha uno scopo, perchè è posseduto dal suo scopo. Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare significa: esser Libero, restare aperto, non avere scopo."
 

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