Ergastolo: è ora di dire basta
di Umberto Veronesi
La condanna a vita è incivile come una condanna a morte. Per
questo è nata un'associazione per eliminarla. Guidata da un grande medico. Che
qui ne spiega le ragioni
(12 novembre 2012)
Quest'anno alla Conferenza Science for Peace di Milano
parleremo di dignità della persona, di un mondo più equo e di convivenza in
diversità e libertà: tre temi legati alla difesa dei diritti umani
fondamentali. Perché questi tre argomenti legati alla scienza e alla pace?
Perché la pace è il primo dei diritti dell'uomo e la condizione di rispetto di
tutti gli altri - diritto alla conoscenza compreso - e la scienza, io credo, ha
il dovere morale di promuoverlo. Non ho mai creduto in una ricerca scientifica
che non si occupi delle ricadute sociali delle sue scoperte, e anzi ho sempre
sostenuto che la scienza (nel mio caso scienza medica, ma lo stesso vale per la
fisica, la chimica, e così via) quando conquista un nuovo sapere sull'uomo e la
sua natura, abbia il dovere di diffonderlo, condividerlo e offrirlo al
dibattito pubblico, perché sia applicato alle varie discipline.
La ricerca scientifica ha dimostrato che la violenza non fa
parte della biologia dell'uomo. Lo provano le indagini genetiche,
antropologiche e biologiche. Il messaggio del nostro Dna è la perpetuazione
della specie: procreare, educare, abitare, fare sapere, costruire ponti e
legami che rendono più sicura la vita. In sintesi il nostro genoma
"pensa" l'essere, non la distruzione. Uccidere e fare guerre
rappresenta un'infrazione al messaggio genetico, che ci spinge invece verso
relazioni costruttive. Promuovere la pace significa quindi sostenere il
disarmo, incoraggiare l'abolizione dei conflitti armati, fare opposizione a
tutte le forme di violenza, soprattutto se istituzionalizzate. Prima fra tutte
la pena di morte, perché è un omicidio di Stato, che inevitabilmente genera una
distorsione. Se lo Stato uccide, lo posso fare anch'io: lo Stato non può
uccidere in nome dei cittadini rendendo omicida tutti quanti rappresenta. Ma
anche l'ergastolo a vita (ostativo) è una forma di pena di morte o una pena
fino alla morte, perché una persona condannata a morire in carcere, entra in
cella per affrontare un'agonia lenta e spietata. Tanto dolorosa, da far
scrivere a Carmelo Musumeci, un ergastolano con cui intrattengo un carteggio da
molti mesi: «Fatemi la grazia di farmi morire».
Per questo Science for peace si è schierato con quanti si
impegnano perché l'ergastolo a vita venga eliminato dal nostro sistema
giudiziario. E' un gruppo appena nato, di cui fanno parte Giuliano Amato,
Bianca Berlinguer, Andrea Camilleri, Don Luigi Ciotti, Erri de Luca, Margherita
Hack, Franca Rame, Stefano Rodotà, e altri diciassettemila cittadini che hanno
già sottoscritto un manifesto contro l'ergastolo. Le motivazioni vanno ben di
là della questione giuridico-legislativa: sono ragioni morali, etiche,
culturali e anche scientifiche. Gli studi più recenti in neurologia hanno
dimostrato che il nostro sistema di neuroni è plastico e si rinnova, perché il
cervello è dotato di cellule staminali proprie in grado di generare nuove
cellule. Questo dimostra scientificamente che la persona che abbiamo messo in
carcere, non è la stessa vent'anni più tardi e che per ogni uomo esiste per
tutta la vita la possibilità di cambiare, evolversi, adattarsi.
Chi ha visto il film di Matteo Garrone "Reality",
non può immaginare che l'attore protagonista, un ergastolano nella realtà,
venga rinchiuso in cella per sempre alla fine del set. Noi crediamo nel
principio di una giustizia tesa al recupero e la rieducazione della persona,
che eviti trattamenti contrari al senso di umanità, e dignità della persona,
come recita la nostra Costituzione. Ma una giustizia che condanna "per
sempre" è soltanto vendetta, perché esclude la possibilità di un
ravvedimento e un reinserimento nella vita sociale. E' una giustizia che
punisce senza capire le cause profonde di un crimine, e così facendo perde
anche la sua efficacia. Molti giuristi sostengono che la criminalità gioisce di
fronte ad una condanna di ergastolo, perché sa che la persona non verrà
recuperata e non potrà dunque agire sfavorevolmente al sistema criminale.
Sappiamo, tuttavia, che scardinare dall'opinione pubblica il principio della
vendetta richiede un grande sforzo collettivo. La non-violenza non è questione
giuridica o politica, ma prima di tutto di cultura, e la nuova cultura nasce
soltanto dal confronto delle opinioni, dal dibattito e lo scambio fra diverse
forme di pensiero, come ci impegneremo a creare nella Conferenza di Milano.
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