Sulla dissociazione: frammenti
“Non è che tu non sia reale.
Pensiamo
tutti di essere reali e non c’è
niente
di sbagliato. Sei reale. Ma quando
pensi di essere realmente reale,
esageri”
Un Lama
Buddhista citato da R.Thurman
Dicevo in uno degli ultimi post
che “L’interfaccia che determina il modo in cui noi siamo nel mondo, il nostro
esserci, è così come ci viene data ed è il punto di partenza da cui il bambino
inizia, già immerso in un mondo che non è geometrico e in cui più che diventare
geometri dobbiamo imparare ad essere dei bravi giocolieri.” Mi riferivo alla
fragilità e alla fallacia di aspettarsi un equilibrio stabile e
all’inutilità di irrigidirsi nell’aspettativa di una realtà misurabile e
controllabile in ogni momento e, mentre scrivevo la frase di cui sopra, pensavo
già al “geometra”: quella parte di noi che, incurante di ogni consiglio di
flessibilità e di ogni invito alla consapevolezza del mutamento, erige muri che
dovrebbero separare il bene dal male e garantire durata e benessere a chi
sta… protetto.
Protetto da cosa? Cosa mettiamo dall’altra parte e cos’è questa
suddivisione per parti: dentro/fuori, io/gli altri, familiare/perturbante?
Quando Winnicott disse “il bambino non esiste” si
riferiva all’impossibilità di osservare il bambino nei suoi primi mesi di vita
senza osservare anche la madre. Tutti noi all’inizio “non siamo
esistiti”: c’erano delle sensazioni, dei bisogni, delle funzioni fisiologiche,
delle percezioni ma niente di paragonabile a quello che sentiamo o crediamo di
essere ora; niente di simile ad un centro di controllo e smistamento o ad un
regista che decide quali stimoli accettare, quali risposte scegliere, quali
strategie adottare. “I bambini piccoli o i neonati non hanno idea di cosa
provano. Sono mossi dalle emozioni, posseduti da esse, ma le loro menti non
hanno ancora la capacità di ricordare simboleggiare o definire o capire cosa
accade. Per queste funzioni essi dipendono esclusivamente dalle figure di
accudimento.” (Epstein) Chi accudisce il bambino ha il compito di
presentargli il mondo ed è partendo da quella presentazione che il piccolo di
essere umano si costruisce una prima mappa, un primo filtro per scandire le
percezioni e un sistema per cogliere le differenze.
Se siete in grado di leggere questo post, di essere d’accordo,
di dissentire o di dubitare lo dovete ad un processo che vi ha permesso, fin
dall’inizio, di distinguere differenze e di sopravvivere all’impatto del mondo.
E il mondo non era là fuori! Non lo era finché non abbiamo
imparato a distinguere e a tollerare la differenza. Il corpo stesso era
estraneo. Guardate un bambino alle prese con un fenomeno oscuro come… un po’ di
aria nello stomaco: vedrete una sorta di spavento, un terrore che esprime
“oddio, che sta succedendo?”, una sorta di panico che viene attenuato non
appena un adulto lo solleva e con qualche colpetto sulla schiena e qualche
parola rassicurante lo aiuta a passare attraverso ad un evento sconosciuto che,
qualche mese dopo, non verrà nemmeno preso in considerazione.
Ora immaginate lo stesso bambino di fronte ad un’emozione non
interpretata, un bambino da solo alle prese con un fatto difficile e doloroso e
senza un adulto che lo sostiene nell’impresa, senza nessuno che gli insegni a gestire
quell’oggetto. Cercherà di tenerlo fuori! “Come possono confermare i
terapeuti che hanno lavorato nell’ambito della dissociazione, la preoccupazione
principale del Sé di fronte ad un trauma sta nel proteggersi per evitare di
essere sopraffatto o danneggiato (…). L’Ego prende in mano la situazione
allontana le minacce e tira avanti in uno stato limitato o ridotto. Altri
aspetti della personalità, come le emozioni insopportabili evocate dai traumi,
sono relegate in zone periferiche, spesso fuori dalla consapevolezza.”
(Epstein).
Ecco il muro: ciò che non è capito e reso assimilabile viene
escluso, messo da parte, spostato fuori dai confini dell’io. Così si può tirare
avanti ma colui che procede, anche se sopravvissuto all’evento
sconcertante, non è più intero: va avanti, sì, ma portando con sé una scissione
e usando energie preziose per tenere su il muro, per escludere certi aspetti
dolorosi che, come scoprì Freud, ritornano come sintomi o spingono come
nemici al di là della barriera rendendo finta la sensazione di sicurezza
che chi si è dissociato spesso ostenta.
Il prezzo da pagare è molto alto, la dissociazione è una delle
difese psicologiche più costose e nessuno ne è totalmente esente. Ci sono casi
molto gravi: persone che, di fronte a traumi insostenibili sono letteralmente
andate a pezzi e si sono scisse in personalità diverse e indipendenti, ci sono
individui in cui l’assenza di cure ha lasciato un segno così profondo da
renderli quasi “inadatti alla vita”, incapaci di tollerare esposizioni che
altri considerano normali. E poi c’è chi solo a volte fa i conti con certi
insostenibili sintomi e prova a ributtarli dietro al muro: uno reale che… a
volte esagera considerandosi realmente reale; se stesso in quanto separato
da.
Sì, perché questo è il primo vero indicatore di dissociazione:
proprio come un bambino spaventato e un po’ solo chi si dissocia crea
confini rigidi, si prende sul serio, sta “molto al di qua”, si differenzia
isolandosi, nasconde i sintomi sotto ad un Sé esterno che sembra più
un’armatura che un vestito.
Quando ci sentiamo così, quando questa diventa la forma vitale e
la postura psichica che indossiamo, in questi momenti in cui perdiamo la
leggerezza del giocoliere a favore di uno scafandro da “persona equilibrata”,
la dissociazione diventa la modalità dominante.
E’ in questi momenti che avremmo bisogno di un buon care-giver,
una sorta di madre che: “…comunica al neonato che sa cosa sta succedendo e
imprime all’accaduto una sfumatura ottimista con una combinazione di distacco
ironico e sintonizzazione amorevole” (Winnicott). Una cosa tipo: “ma sì amore…
che spavento che ti sei preso… lo so che è difficile…ma non è la fine del
mondo, è una di quelle cose che passano, adesso vediamo”. Cose così insomma.
Messaggi che favoriscono più la soglia che il muro, più l’idea di un
passaggio e di una continuità che di una divisione.
Ci vuole altro per risolvere certe
dissociazioni. Ma per complesso che sia il messaggio deve contenere la stessa
sostanza: una combinazione di distacco ironico e sintonizzazione amorevole. All’occorrenza,
quanto basta, anche più volte al giorno.
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