La fatale ragnatela di circostanze create dall'uomo...
EPILOGO:
SULL'AMBIGUITA' DELLA SPERANZA.
In questo studio ho cercato di
dimostrare che l'uomo
preistorico,
cacciatore
e raccoglitore di cibo, che viveva in clan e tribù, era
caratterizzato da un minimo di
distruttività e da una collaborazione e
partecipazione ottimali, e che soltanto con la crescente produttività
e divisione del lavoro, la formazione di
ampi surplus e la costruzione
di
stati con gerarchie
ed élites, fecero
la loro comparsa
la
distruttività e la crudeltà su vasta scala,
sviluppandosi nella stessa
misura in cui si sviluppavano la civiltà e il
ruolo del potere.
Questo studio ha portato valide
argomentazioni a favore della tesi che
aggressione e distruttività potranno
nuovamente essere ridotte a un
ruolo insignificante nel contesto delle
motivazioni umane? Io credo di
sì, e mi auguro che sia così anche per
molti dei miei lettori.
Nella
misura in cui
è data "biologicamente" nei
geni umani,
l'aggressione non è spontanea, ma è una reazione di difesa contro le
minacce agli interessi vitali
dell'uomo, alla sua crescita, alla sua
sopravvivenza e a quella della specie. Questa
aggressione difensiva
era
relativamente limitata in
certe condizioni primitive, quando
nessuno poteva costituire una grande
minaccia per gli altri.
Ma da
allora
l'uomo ha avuto
uno sviluppo straordinario. E' legittimo
dedurne,
dunque, l'ipotesi che
l'umanità completerà il
cerchio,
costruendo una società in cui nessuno è
minacciato; non il bambino dai
genitori,
non il genitore dal superiore; nessuna classe sociale da
un'altra classe, nessuna nazione da una
super-potenza. Raggiungere
questo
scopo è terribilmente
difficile per ragioni
economiche,
politiche,
culturali e psicologiche, tanto
più che le nazioni
del
mondo adorano idoli, e idoli diversi, e
perciò non si intendono, anche
se
si capiscono a parole.
Ignorare queste difficoltà è follia,
ma
dallo studio empirico di tutti i dati
emerge la possibilità reale di
costruire
in un futuro prevedibile un simile mondo, purché vengano
rimosse tutte le barriere politiche e
psicologiche che si
oppongono
alla sua edificazione.
D'altra
parte le forme "maligne" d'aggressione - sadismo e necrofilia
- "non" sono innate, e possono quindi essere sostanzialmente
ridotte,
se
le condizioni socioeconomiche si evolvono in modo da
favorire lo
sviluppo completo delle esigenze e delle
capacità umane genuine,
lo
sviluppo
dell'attività e del
potere creativo dell'uomo
come suo
autentico obiettivo. Sfruttamento e manipolazione producono
noia e
superficialità, storpiano
l'uomo, e tutti i fattori che
paralizzano
psichicamente l'individuo lo trasformano necessariamente
in sadico o
distruttore.
Questa
mia posizione verrà
definita da alcuni
«ultraottimistica»,
«utopica», o «non-realistica». Per valutare
i meriti di questa critica
mi sembra opportuna una discussione sul
concetto dell'ambiguità della
speranza e della natura di ottimismo e
pessimismo.
Poniamo che abbia in mente di passare un
week-end in campagna e che il
tempo
sia incerto. Potrei dire: «sono
ottimista» per quanto riguarda
il tempo.
Ma se il mio bambino è gravemente malato e la sua vita è in
bilico,
dire: «sono ottimista»,
suonerebbe strano a
orecchie
sensibili, perché, in un simile contesto,
l'espressione avrebbe un che
di freddo e distaccato. Eppure non potrei
certo dire: «Sono "convinto"
che mio figlio sopravviverà», perché,
in quelle circostanze, la mia
convinzione non ha alcuna base realistica.
E allora cosa potrei dire?
Forse
l'espressione più adeguata
sarebbe: «Ho fede che mio figlio
vivrà».
Ma «fede», con le sue
implicazioni teologiche, non
è una
parola del giorno d'oggi. Eppure è la
migliore, perché la fede implica
un elemento estremamente importante: il
desiderio intenso, ardente che
mio
figlio viva, e
perciò ogni sforzo possibile da parte mia per
ottenere la sua guarigione. Non sono
semplicemente un osservatore,
separato
da mio figlio,
come quando uso
l'espressione «sono
ottimista». Sono parte della situazione che
osservo; sono "impegnato";
il mio bambino, sul quale io, il
«soggetto», faccio un pronostico, non
è un «oggetto», la mia fede è radicata nel
mio rapporto col bambino; è
un misto di conoscenza e partecipazione.
Questo è vero, naturalmente,
solo se per fede si intende «fede
razionale» (E. Fromm, New York 1947)
(0-A),
basata sulla chiara consapevolezza di tutti i dati pertinenti,
e non «fede irrazionale», un'illusione
basata sui nostri desideri.
"L'ottimismo è una forma alienata di
fede, il
pessimismo una forma
alienata di disperazione". Soltanto con la fede o con la disperazione
si può rispondere «responsabilmente» e
«ragionevolmente» all'uomo e al
suo futuro. La fede razionale, come la
disperazione razionale, si basa
sulla più completa conoscenza critica
di tutti
i fattori che
sono
funzionali
alla sopravvivenza umana.
La base della fede razionale
nell'uomo è la presenza di una possibilità
reale di salvezza; la base
della
disperazione razionale è l'incapacità di intravedere una simile
possibilità.
Un punto è necessario sottolineare in
questo contesto. Molti
sono
disposti
a denunciare, come
non-realistica, la fede nel
progresso
dell'uomo; ma non riconoscono che la
disperazione è spesso altrettanto
non-realistica. E' facile dire: «L'uomo è
sempre stato assassino». Ma
la
dichiarazione non è esatta,
perché non prende in considerazione
tutti i meandri della
storia della distruttività. E'
altrettanto
facile
dire: «Il desiderio
di sfruttare il prossimo fa parte della
natura umana», ma di nuovo, in tal modo,
si trascurano (o deformano)
determinati fatti. In breve, asserire che «la natura umana è
cattiva»
non è più realistico dell'asserzione opposta:
«la natura umana
è
buona».
Solo che la prima alternativa è più facile: chiunque
voglia
dimostrare la cattiveria dell'uomo trova
molto facilmente dei seguaci,
perché
offre a ciascuno
un alibi per
i propri peccati,
e
apparentemente non
rischia nulla. Eppure
la diffusione della
disperazione irrazionale è di per
sé distruttiva, come
ogni non-
verità:
scoraggia e confonde.
Non meno distruttivo è predicare una
fede irrazionale o annunciare falsi Messia:
seduce e poi paralizza.
Disgraziatamente, però,
l'atteggiamento della maggioranza
verso il
futuro
dell'uomo non è né di
fede né di
disperazione, ma di
indifferenza totale. E in quelli che non sono del tutto
indifferenti,
prevale
l'atteggiamento di «ottimismo»
o di «pessimismo». Gli
ottimisti credono ciecamente nel
dogma della marcia
continua del
«progresso». Sono
abituati a identificare la
grandezza umana con le
conquiste
tecniche, la libertà
umana con la
libertà "dalla"
coercizione
diretta e la
libertà consumistica di scegliere fra una
presunta gamma di merci. La dignità,
lo spirito collaborativo, la
gentilezza dei primitivi li lasciano
completamente freddi; quel che li
impressiona è il risultato tecnico, la ricchezza,
la durezza. Secoli
di dominio su popoli di razza diversa
tecnicamente arretrati hanno
lasciato il loro marchio sulle menti degli
ottimisti. Come potrebbe un
«selvaggio»
essere umano e uguale, per non dir poi superiore, agli
uomini che possono arrivare alla luna, oppure distruggere milioni di
esseri viventi semplicemente premendo un
bottone?
Per il momento almeno, gli ottimisti se la passano abbastanza bene,
e
possono permettersi il lusso di fare gli «ottimisti». O almeno è quel
che
credono loro, perché
sono talmente alienati,
che persino le
minacce incombenti sul
futuro dei figli
dei loro figli
non li
preoccupano seriamente.
In
realtà, i «pessimisti»
non sono molto diversi dagli ottimisti.
Vivono altrettanto agiatamente e sono
altrettanto disimpegnati. Come
gli
ottimisti, non si
interessano del destino dell'umanità. Non
conoscono la disperazione, altrimenti non sarebbero e non potrebbero
essere
così soddisfatti. Mentre questi
usano il loro pessimismo come
paravento per proteggersi da ogni istanza
interiore di fare qualcosa,
ostentando
l'idea che "non
si può fare nulla", gli ottimisti si
difendono contro la stessa istanza
interiore persuadendosi che, tutto
sommato, ogni cosa marcia nella direzione
giusta, che "non c'è bisogno
di far nulla".
La
posizione espressa da
questo libro è
incentrata sulla fede
razionale nella capacità umana di
districarsi da quella
che sembra
essere una fatale ragnatela di circostanze
create dall'uomo. Non è la
posizione degli «ottimisti» o dei
«pessimisti», ma di
radicali che
hanno
fede razionale nella capacità
umana di evitare
la grande
catastrofe. Questo radicalismo umanista va
alle radici, e perciò alle
cause: cerca di liberare l'uomo dalle
catene delle illusioni; postula
la necessità di
cambiamenti fondamentali, non
solo nella nostra
struttura
politica ed economica,
ma anche nei nostri valori, nel
nostro concetto di obiettivi umani, e nella
nostra condotta personale.
Aver fede significa osare, pensare l'impensabile, ma agire
entro i
limiti
di quel che
è realisticamente possibile;
è la speranza
paradossale che venga il Messia, ogni giorno,
senza perdersi d'animo
se
non viene all'ora
giusta. Questa speranza non è né passiva né
paziente;
al contrario, è
attiva e impaziente,
e ricerca ogni
possibilità di azione entro la sfera delle
possibilità reali. Meno che
mai
è passiva per
quanto riguarda la
crescita e la liberazione
individuale. Certo,
la struttura sociale determina gravi limitazioni
per lo sviluppo individuale. Ma quei presunti radicali che negano la
possibilità
o persino l'auspicabilità di
cambiamenti personali
all'interno
della società moderna,
fanno uso della loro ideologia
rivoluzionaria per
giustificare le loro
resistenze personali a
cambiamenti interiori.
La
situazione dell'umanità,
oggi, è troppo seria per
consentirci di
dar retta ai demagoghi - soprattutto quelli
che sono
attratti dalla
distruzione
- o ai leaders che usano soltanto il cervello, perché il
loro cuore ormai si è indurito. Il pensiero critico e radicale darà i
suoi
frutti soltanto quando si unirà alla più preziosa qualità umana:
l'amore per la vita.
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