“Questo è il grande errore dei medici del nostro tempo:
tenere separata
l’anima dal corpo”.
La Medicina
Psicosomatica studia i rapporti che intercorrono tra il nostro mondo interno e
le reazioni corporee.
Nelle reazioni psicosomatiche, in generale, manca l’operazione di elaborazione
degli eventi che ci causano sofferenza e la partecipazione della intera
personalità a questi possibili accadimenti della vita appare limitata. Manca la
consapevolezza del collegamento tra gli eventi dolorosi della vita e gli
effetti negativi che essi possono causare all’organismo.
Un esempio banale, utile per capire:
“Mi è venuto un
tremendo mal di testa perché ho lavorato troppo” – stress da super-lavoro –,
dice una persona; “
Mi è venuto un
tremendo mal di testa e non lo so perché”, dice un’altra.
Quest’ultima persona dimostra di avere qualche difficoltà ad
accedere alla comprensione del suo “star male” e potrebbe continuare a lavorare
aggravando il suo sintomo, mentre la prima, consapevole della possibile origine
del suo mal di testa, potrebbe scegliere di fermarsi di lavorare e magari
concedersi dei momenti di pausa rispettosi del suo modo di essere e del suo
livello di fatica.
Le persone che tendono a funzionare come la persona citata
per seconda, possono essere candidate ad avere sintomi di natura psicosomatica,
cioè hanno maggiore probabilità di sviluppare una sofferenza psicosomatica.
Il modello
psicosomatologico di interpretazione della malattia e dello “star male”,
ribalta, d’altra parte, lo schema classico il quale prevede la lesione
dell’organo quale base del suo mal funzionamento, nello schema secondo cui il
protrarsi di uno stress intenso può generare una disfunzione di quell’organo e,
quindi, il suo mal funzionamento e, addirittura, se non si riescono a porre
ripari in tempi normali, una sua lesione.
Ricerche
Molte ricerche hanno dimostrato che i condizionamenti
psicologici e sociali sono una classe di fattori che si trovano presenti in
tutte le malattie e in tutti i disturbi fisici anche se il loro peso può
variare da disturbo a disturbo, da un individuo all’altro.
Dalla letteratura
internazionale si ricava che il disturbo psicosomatico è caratteristico di
quelle persone che presentano difficoltà nei processi di mentalizzazione, ossia
di elaborazione psichica delle emozioni attraverso le operazioni del pensiero,
sia intellettuale e cosciente sia immaginativo e fantastasmatico.
Inoltre, le
caratteristiche della loro personalità sono incentrate su un’accentuazione del
pensiero operativo, queste persone sono sempre rigidamente aderenti alla realtà
concreta e difficilmente
la loro vita è ricca di vita fantastica.
Teorie a confronto:
Freud, Reich, Lowen et al.
Secondo S. Freud, la
sofferenza psicosomatica e, in senso lato, il disturbo psichico, nascerebbe da
un conflitto tra la soddisfazione di un desiderio e la constatazione della
impossibilità o, quantomeno, della difficoltà nel realizzarlo.
Secondo un altro grande del pensiero
psicoanalitico, W. Reich,
tutti i processi vitali seguono i fenomeni di carica e scarica. Per cui, quando
la scarica risulta impedita, l’organismo vive in uno stato di carica senza
sfogo e se questa condizione diventa cronica, si forma una corazza caratteriale
a livello psichico e una corazza muscolare a livello fisico, in tal modo
l’organismo arriva a svolgere una operazione di controllo delle emozioni e una
potente struttura di difesa da esse.
Mentre quindi Freud
poneva attenzione soltanto alla produzione verbale dei suoi pazienti, Reich
introdusse nella psicoanalisi anche l’osservazione del corpo, come
l’espressione degli occhi e del viso, la qualità della voce e i vari tipi di
tensione muscolare. Descrisse per primo quello che oggi noi chiamiamo il
linguaggio del corpo.
Le teorie di Reich
hanno prodotto lo sviluppo dell’analisi bioenergetica, metodica
psicoterapeutica elaborata da A. Lowen.
Questo approccio,
unico nel suo genere, considera la mente e il corpo un’unità funzionale,
inscindibile, tanto che il suo intervento è costituito da una complessa
combinazione di lavoro sul corpo e lavoro psicoanalitico.
Tra gli anni Quaranta
e gli anni Cinquanta, Franz Alexander propose che gli stati conflittuali,
attraverso la mediazione del sistema neurovegetativo, fossero implicati nelle
cause di varie malattie psicosomatiche.
Un’altra teoria molto
significativa è quella proposta dalla Dunbar. Ella sostenne che la struttura
della personalità individuale può condizionare le difese corporee,
predisponendo allo sviluppo di determinate malattie.
Nonostante le molte
obiezioni, gli studi di questa autrice sollevarono un certo interesse nella
comunità scientifica internazionale e favorirono altre ricerche, tra le quali
quelle di Friedman e Rosenman, che portarono all’identificazione di un pattern
di Comportamento definito di “tipo A”, oggi considerato ufficialmente un
fattore di rischio per le malattie cardiovascolari.
L’individuo di “tipo A”
e malattie coronariche
L’individuo “di
tipo A” ha sempre fretta, avverte la pressione del tempo, è eccessivamente
coinvolto nel lavoro, è ambizioso e competitivo, è impaziente e si annoia
facilmente, è ostile ed irritabile, è ansioso ed impulsivo, ha uno stile di
espressione a volte arrogante ed un linguaggio rapido e incalzante, ricerca il
successo e la valorizzazione sociale, è sempre teso, impegnato senza tregua
verso il raggiungimento di obiettivi.
Nel 1981 il “Comportamento
di Tipo A” è stato riconosciuto ufficialmente come fattore di rischio nei
confronti delle malattie coronariche, riconoscimento di portata storica per la
psicosomatica, che venne condiviso anche dalla Organizzazione Mondiale della
Sanità.
Vent’anni di studi
ulteriori, tra il 1970 e il 1990, hanno chiarito che sensibile alle reazioni
emozionali non è solo il sistema nervoso vegetativo ma anche, e notevolmente,
il sistema endocrino, inaugurando il filone di ricerca della
psiconeuroendocrinologia.
Mentre, a partire
dagli anni ’80, anche il sistema apparentemente più lontano, il sistema
immunitario, risultò avere connessioni con il sistema nervoso e molto sensibile
allo stress.
Psiconeuroendocrinoimmunologia
Vengono così gettate
le basi della neuroimmunomodulazione e nasce la psiconeuroendocrinoimmunologia.
Com’è noto, animali stressati – ad esempio ripetutamente spaventati – producono
meno anticorpi e spesso si ammalano con più facilità rispetto ad animali di
controllo non stressati.
Lo stress può indurre aumentata mortalità in seguito
all’esposizione ad agenti infettivi. Persone in lutto per la morte di un
proprio caro possono risultare immunodepresse.
Sifneos, negli anni
Sessanta, parlò di “alessitimia”, letteralmente “emozione senza lessico”;
secondo questo autore le persone affette da disturbi psicosomatici avrebbero
incapacità ad esprimere verbalmente le loro emozioni, la loro attenzione sarebbe
interamente centrata sugli oggetti concreti e sulla realtà esterna tanto da
essere “sbilanciate” anche sotto l’aspetto neuropsicologico, nel senso che predominerebbe, in queste
persone, la neocorteccia a danno del sistema libico, mancando ogni integrazione
tra componenti intellettive ed emozionali.
In Italia, il
compianto Ferruccio Antonelli nel 1981 iniziò a parlare di “brositimia”, letteralmente
“sentimento ingoiato”.
Secondo questo autore,
le persone affette da disturbi di natura psicosomatica, presenterebbero
difficoltà nel reagire alle avversità della vita, tanto che questo loro stile
di vita risultò essere il principale responsabile delle loro sofferenze, la più
chiara espressione della somatizzazione dell’ansia. “Mandare giù”, d’altra parte, ricorda il comportamento dello struzzo:
non risolve i problemi ma li dirotta all’interno lasciandoli irrisolti.
Di Alfredo Ferrajoli
La Medicina e le Malattie Psicosomatiche
In ambito medico è ormai largamente condivisa l’idea che il
benessere fisico abbia una sua influenza su sentimenti ed emozioni e che a loro
volta questi ultimi abbiano una certa ripercussione sul corpo. Non a caso il vecchio concetto di
malattia intesa come “effetto di una causa” è stato sostituito con una visione
multifattoriale secondo la quale ogni evento (e quindi anche una
affezione organica) è
conseguente all’intrecciarsi di molti fattori, tra i quali sta assumendo sempre
maggior importanza il fattore psicologico. Si ipotizza inoltre che
quest’ultimo, a seconda della sua natura, possa agire favorendo l’insorgere di
una malattia, o al contrario favorendone la guarigione.
Per tanto tempo, la medicina tradizionale si è avvicinata al
paziente utilizzando il principio di causalità e cercando di spiegare le
malattie fondandosi su dati obiettivi e correlabili fra loro in modo diretto,
in modo schematico e classificatorio.
La tendenza attuale,
non solo del medico che si occupa di psicosomatica, ma di ogni medico in
generale, è quella di perseguire una visione unitaria del soggetto e della sua
malattia, ricostruendo quel filo narrativo che dà significato alla sua vita e
nella quale la patologia è venuta traumaticamente a inserirsi.
Questo cambiamento di paradigma è importante se si pensa che
uno dei più assidui, benché spesso più delusi, frequentatori dell’ambulatorio
del medico di famiglia è il paziente che lamenta sintomi somatici di cui non si
riesce a individuare alcuna origine organica.
Frustranti per i medici, a volte non meno che per i malati, i
disturbi psicosomatici costituiscono anche quantitativamente una casistica
tutt’altro che trascurabile della medicina generale.
Un gruppo di ricercatori del Department of Public Health and
Policy di Londra afferma che un quinto delle prime visite mediche è motivato da
sintomi che non trovano spiegazione né risoluzione nell’approccio organicistico
tradizionale e che mettono a dura prova, anche per anni, le capacità
diagnostiche e le risorse relazionali del medico.
A metà degli anni Novanta un’indagine del Censis calcolava
che un italiano su quattro va dal medico di base, per la prima volta, spinto da
un malessere fisico che affonderebbe però le sue radici altrove: nello stress o
in un disagio psicologico, esistenziale. Adesso la proporzione è cresciuta: uno
ogni tre, dice chi lavora nel settore.
Nella trattatistica medica il termine psicosomatico era
assente fino a circa un cinquantennio fa; oggi è presente ovunque: non c’è
trattato che non vi dedichi un capitolo. Nell’ampia letteratura esistente
questo termine viene utilizzato in contesti e con significati diversi: ma che
cosa si intende veramente con esso?
Il termine
“psicosomatico”, entrato ormai nel linguaggio comune, è di derivazione
etimologica greca e risulta composto dalle due parole: “psiche” (da psychè -
soffio vitale, anima) e “soma” (da soma-corpo).
In passato si parlava di psicosomatica riferendosi ad essa
solo in relazione a quelle malattie organiche la cui causa era rimasta oscura e
per le quali (quasi per esclusione) si pensava potesse esistere una “genesi
psicologica”. Oggi
al contrario si parla
non solo di psicosomatica, ma di “un’ottica psicosomatica” corrispondente ad una concezione della
medicina che guarda all’uomo come ad un tutto unitario, dove la malattia si
manifesta a livello organico come sintomo e a livello psicologico come disagio
e che presta attenzione non solo alla manifestazione fisiologica della
malattia, ma anche all’aspetto emotivo che l’accompagna. Secondo quest’ottica è possibile
distinguere malattie per le quali i fattori biologici, tossico-infettivi,
traumatici o genetici hanno un ruolo preponderante e malattie per le quali i
fattori psico-sociali, sotto forma di emozioni e di conflitti attuali o remoti,
sono determinanti. In questo senso l’unità psicosomatica dell’uomo non
viene persa di vista e i sintomi o i fenomeni patologici vengono indagati in
modo complementare da un punto di vista psicologico e fisiologico.
Evoluzione storica
La psicosomatica nasce verso la fine del diciannovesimo
secolo in relazione ad un profondo mutamento di paradigma nella
rappresentazione del mondo che si è venuto a produrre nella coscienza umana: il
passaggio dalla dimensione fisica newtoniana, il mondo degli oggetti, a quella
della relatività speciale, il mondo degli eventi.
Dalla concezione
dell’uomo come macchina biologica predeterminata costituita da componenti la
cui minima alterazione viene considerata un’anomalia di funzionamento rispetto
all’espletamento di un programma dato, considerato come immutabile, si è
passati gradualmente ad una visione olistica e dinamica della realtà.
Gli studiosi che progressivamente hanno iniziato a
riconoscere una sinergia evidente e un rapporto causa-effetto bidirezionale tra
psiche e soma, sono riusciti anche a sottolineare che esistono malattie
psichiche, parzialmente tali, a metà tra psichico e somatico, prevalentemente
organiche e totalmente tali. Quasi tutta la patologia umana è psicosomatica o
somatopsichica.
Gia nell’antica Grecia
esistevano due tendenze (che poi ritroveremo sempre nel dibattito mente-corpo):
da una parte, la Scuola Ippocratica che assumeva i concetti più dinamici,
umorali e psichici (diciamo più “psicosomatici”), dall’altra, la Scuola di Cnido
che era ad orientamento meccanicistico e organicistico.
Ippocrate, Platone e
Aristotele avevano capito che esistevano delle malattie ex emozione; in realtà
la malattia ex emozione è nota da secoli. Già un proverbio di Solomone diceva
che il “cuore allegro è un’ottima medicina e uno spirito abbattuto essicca le
ossa”. Ai discepoli di Crotone, Pitagora insegnava che “i grandi turbamenti
passionali e forti patemi d’animo possono essere la causa di molti malanni
fisici”.
Ma è appunto Ippocrate
che introduce meglio il concetto dei rapporti tra psiche e soma quando, nel suo
libro, Sulla Natura dell’uomo propone la teoria dei quattro umori: sanguigno,
flemmatico, bilioso (collerico), melanconico: è il primo esempio di una
tipologia psicosomatica.
Ippocrate è psicosomatologo
anche sul piano pratico quando capisce che lo strano malessere di Perdicca,
figlio e successore di Alessandro il Macedone, dipende dal suo amore per Fila, già concubina del padre e della
volontà di rispettarla per non profanare le memorie del suo grande genitore. Platone è l’autore di una grande
frase rimasta famosa e sempre attuale:
“Questo è il grande
errore dei medici del nostro tempo: tenere separata l’anima dal corpo”.
La civiltà romana si
allinea con quella greca, specie con Virgilio ( Spiritus intus alit, totamque
infusa per artus mens agitat malem et magno se corpore miscet ) e poi con
Giovenale ( Orandum est ut sit mens sana in corpore sano ).Per Asclepiade
l’anima ha atomi leggeri per cui entra in tutti gli organi; Cornelio Celso conta
la serenità come cura. Nel Medioevo la Scuola Salernitana suggerisce che ognuno
può essere medico di se stesso purché si conceda letizia d’animo, giusto riposo
e sobrietà di cibi.
La corrente degli Scolastici sentenzia: “Anima humana est
tota in toto corpore et in qualibet eius partes”.
Il discorso viene
ripreso a grandi linee nel 1700. Baglini sottolinea l’importanza patogena delle
passioni dell’animo. Lancisi aggiunge che tali passioni possono portare persino
alla morte. Ravazzini, fondatore della medicina del lavoro, intuisce che “gli
abitanti delle città e gli amanti delle lettere sono abitualmente deboli di
stomaco”.
Nell’800 l’ipotesi
psicosomatica è accantonata per l’esplosione della medicina organicistica: al
microscopio le “passioni non si vedono”, ma le vedono i medici di famiglia, che
comunque tengono aperto il discorso. Nonostante ciò è proprio all’interno di
questo secolo che vengono collocati alcuni contributi definiti come antesignani
della Medicina Psicosomatica.
Infatti il filosofo J.
Stuart Mill (1806 -1873) sosteneva che “la mente non è un’entità autonoma, ma
solo una funzione a base somatica e quindi è meccanica e totalmente
interpretabile secondo gli stessi processi che spiegano le altre funzioni del
corpo. Nessuna incompatibilità tra mente e corpo, la psiche è una qualità
funzionale del corpo stesso. Di conseguenza ogni aspetto del sentire e della
condotta della persona è osservabile e comprensibile a partire dall’analisi del
funzionamento del corpo o del sistema nervoso”.
Sempre in questo periodo, secondo alcuni studiosi, viene
utilizzato per la prima volta il termine “psicosomatico”: siamo nel 1818, nel corso della medicina
romantica ed Heinrot (poeta, poi diventato professore di psichiatria a Lipsia)
sosteneva che le passioni sessuali esercitavano una notevole influenza su
malattie quali tubercolosi, epilessia e cancro. Egli elaborò il concetto di “conflitto interno”
quale causa eziopatogenetica di malattie mentali (e non), sostenendo essere il
peccato la causa principale dei disturbi di un individuo in quanto i peccati
commessi scuotono il senso morale creando un conflitto.
Heinrot, però, considerava le malattie psichiche e fisiche
come il risultato di una diretta espressione della colpa dell’uomo e non in
senso psicodinamico. Solo a partire dagli anni ‘30 la psicosomatica incomincerà
ad essere studiata secondo questo orientamento.
Anche se le
interazioni psicofisiche si conoscevano da tempo è alla psicoanalisi che
dobbiamo un notevole contributo alla nascita della psicosomatica, da quando
Freud introduce la nozione di inconscio nella scienza medica (“i processi
psichici riposano sull’organismo”) e distingue nel sintomo un aspetto
psicologico (che considera suo campo di studio) ed uno organico (che non può
affrontare).
Freud, ricorda come tutto lo psichico si sviluppi in costante
riferimento all’esperienza somatica. Nonostante la sua posizione in proposito
non sia chiara, evidentemente oberato dall’immane compito di difendere la
psicoanalisi dagli attacchi forsennati cui venne sottoposta fin dal suo
esordio, Freud probabilmente ritenne di non dare ulteriore scandalo andando a
scuotere ulteriormente le fondamenta dell’organicismo medico. Egli nel 1923 scrisse a Viktor
von Weizsäcker dicendosi pienamente consapevole dell’esistenza di fattori
psicogeni nelle malattie aggiungendo, però, che avrebbe preferito vedere i suoi
allievi limitarsi, a scopo di apprendistato, alla ricerca nel campo delle
nevrosi.
Invece fu proprio uno
dei suoi allievi più stretti, Felix Deutsch, che coniò nel 1922 il termine
medicina psicosomatica attribuendo ad esso una connotazione psicodinamica.
Deutsch, dopo molti sforzi e studi per ampliare il concetto
di conversione isterica, scriveva che questi processi si potevano trovare anche
in malattie caratterizzate da disturbi non solo funzionali ma fondamentalmente
materiali e organici.
Ritornando a Freud, se si ricerca nella sua Opera Omnia gli
unici riferimenti a materiale che oggigiorno definiremmo come inerente alla
psicosomatica li troviamo a proposito dell’epilessia e dei disturbi psicogeni
della vista. Scrivendo
dell’epilessia Freud è già assolutamente certo di un passaggio diretto
psiche-soma e prefigura tutto lo svolgersi successivo dell’elaborazione
psicosomatica: “...La reazione epilettica come possiamo definire questo quadro
nel suo insieme, si pone senza dubbio al servizio della nevrosi, la cui essenza
consiste nell’eliminare per via somatica masse di eccitamento che il soggetto
non riesce a padroneggiare psichicamente”.
Freud spiega il perché
del “salto dallo psichico al somatico”e il fisiologo americano Cannon comincia
a spiegarne il come, seguito da Mc Clean e Moruzzi.
Seguendo un’impostazione di tipo più fisiologico, Cannon ritiene che le malattie
psicosomatiche siano dovute allo stress, ossia a risposte emozionali troppo
intense o troppo a lungo mantenute che mettono in moto risposte fisiologiche o
psicologiche il cui scopo è quello di attenuare lo stress. Il comportamento
messo in atto può essere di “attacco” di “fuga” secondo Cannon, o di
“adattamento” secondo Selye. Quando gli sforzi del soggetto falliscono perché
lo stress supera la capacità di risposta, allora si è esposti ad una
vulnerabilità nei confronti della malattia dovuta ad un abbassamento delle
difese dell’organismo.
Sempre nei primi del novecento, in Italia, D’Antona usa per
primo il termine “rapporti psicosomatici”; il chirurgo Schiassi sostiene, nel
suo libro “Mens agitat molem” la psicogenesi dell’ulcera; Girolami scrive un
saggio sulle morbosità psichiche che determinano alterazioni somatiche; Pende
critica l’eccessivo organicismo del medico e si dichiara convinto che l’anima
agisce sul corpo e dell’anima, soprattutto la parte inconscia che è in diretto
rapporto con i fondamentali bisogni fisiologici dell’individuo.
La malattia
psicosomatica incomincia ad assumere sempre più la connotazione di malattia ex
emozione e attira l’attenzione di varie categorie di scienziati: diventa
oggetto di studio e di ricerche, diventa scienza nel senso pieno della parola.
Nel secondo dopoguerra la medicina psicosomatica si sviluppa
con l’aspirazione a definire un nuovo corpo della medicina, pertinente a un
gruppo di malattie con una chiara correlazione tra fattore psichico e il
disturbo somatico. Si delinea così, soprattutto negli Stati Uniti, una corrente
nosografia che raccoglie un gruppo di patologie “specificamente psicosomatiche”
tra cui l’asma bronchiale, l’ulcera peptidica, l’artrite reumatica,
l’ipertensione arteriosa. Dunbar rappresenta un pioniere nella ricerca in
questo campo e nei suoi lavori ( Psycosomatic diagnosis – 1948) si propone di
istituire un collegamento tra profili di personalità e malattie psicosomatiche
servendosi di questionari, test proiettivi e scale psicometriche.
E’ stato riscontrato
che, in effetti, esistono caratteristiche comuni a tutti i coronaropatici ,a
tutti i cancerosi, così come sembrano simili tra loro gli ulcerosi, i colitici,
i collezionatori di incidenti (accident proneness). La Dunbar ha stilato una
serie di profili caratterologici riconosciuti costanti tra gruppi di pazienti
affetti da una stessa malattia. La psicosomatosi sarebbe dunque una sorta di
predisposizione che particolari eventi possono slatentizzare e trasformare in
malattia.
Poco dopo escono, sempre in America i primi volumi dei vari
“padri” della psicosomatica scientifica: Alexander, Hall, Halliday, Hamilton,
Weiss ed English, Wittkower, Wolff.
Alexander nel 1946
parlava di “specificità di conflitto”. Egli sosteneva che come il riso è la
risposta alla gioia e il pianto al dolore, così l’ipertensione lo è alla
collera e alla paura, l’ipersecrezione gastrica all’emergenza, l’asma all’impulso
inconscio e represso di gridare per chiedere l’aiuto della madre, e così via.
Nasce il linguaggio simbolico degli organi.
Nel 1952 Alexander
approfondisce il lavoro fatto in precedenza dalla Dunbar ed elabora assieme ad
altri (Schur e Benedekt), per quanto concerne la specificità delle malattie
psicosomatiche maggiori, un sistema coerente che istituisce un parallelismo tra
conflitti intrapsichici specifici (in termini psicoanalitici) ed alterazioni
psicologiche.
Secondo Alexander le
malattie psicosomatiche derivano da innervazioni anomale, legate ad un’alterata
distribuzione del sistema neurovegetativo, il quale induce alla “lotta” o alla
“fuga” in situazioni conflittuali o durante il riposo. Pertanto in caso di
atteggiamenti cronici di rivalità, aggressività,
ostilità, il sistema simpatico naradrenergico è sottoposto alla pressione di
emozioni represse, dell’aggressività e della competitività e vive in un regime
di eccitazione naradrenergico. Quando le tendenze di attacco e fuga sono
bloccate, ne deriva uno sconvolgimento neurovegetativo interno che rischia di
cronicizzare sviluppando la patologia psicosomatica.
In pratica, Alexander sosteneva che stati emozionali
conflittuali fossero implicati nell’eziopatogenesi di varie malattie
psicosomatiche attraverso la mediazione del sistema neurovegetativo (SNV).
Secondo la sua ottica, i due diversi compartimenti del SNV,
l’ortosimpatico e il parasimpatico, sono implicati in malattie diverse, ad
esempio il parasimpatico nell’ulcera peptica e l’ortosimpatico
nell’ipertensione essenziale.
Tuttora molte delle sue intuizioni restano valide, anche se
necessariamente rivedute e aggiornate.
Attualmente, il fatto che stimoli emozionali possano produrre
modificazioni della frequenza o dell’attività cardiaca, della pressione
arteriosa o della vasomotilità, dell’attività elettrodermica, della pupilla o
della secrezione e motilità gastrointestinale e di organi sessuali è chiaramente
riconosciuto e accettato.
Gli studi successivi,
in particolare quelli svoltisi tra il 1970 e il 1990, hanno chiarito che
sensibile alle reazioni emozionali non è solo il sistema nervoso vegetativo ma
anche, e notevolmente, il sistema endocrino: praticamente tutti gli ormoni
(ACTH, cortisolo, GH, prolattina, LH, testosterone e altri ormoni sessuali)
rispondono a sollecitazioni emozionali, mentre i neuropeptidi appaiono sempre
più come il punto di contatto tra cervello e organismo, tra mente e corpo.
Grazie a questi studi
è nata la psiconeuroendrocrinologia che ha ampliato le conoscenze sviluppate da
Selye negli anni’ 40 con gli studi sullo stress.
L’asse
ipotalamo-ipofisi-corticosurrene, attraverso il CRF (Fattore per il Rilascio
della Corticotropina- CorticoTropin Releasing Factor-, l’ormone
adrenocorticotropo (ACTH) e il cortisolo, resta sempre il più importante nella
risposta dell’individuo ad agenti stressanti sia fisici che psicologici. CRF ed
ACTH possiedono inoltre importanti azioni a livello centrale. Il CRF ha
numerose azioni comportamentali, come l’ACTH.
Si è visto in molti esperimenti che il cortisolo ed ACTH si
elevano nello stress ma si riducono nel corso di un trattamento di rilassamento
con biofeedback.
Il sistema
ipotalamo-midollosurrenale è il secondo sistema per importanza. Agisce molto
prontamente: nell’arco di uno, due minuti, dopo uno stimolo emozionale, sono
rilevabili nel sangue elevate concentrazioni di catecolamine.
L’asse
ipotalamo-ipofisi-GH è altrettanto importante: fondamentale effetto
psicosomatico è il cosiddetto nanismo iposomatotropico reversibile, in bambini
istituzionalizzati, dove il ritardo della crescita staturale è secondario alla
mancanza di GH, il quale viene nuovamente secreto in seguito a contatto
affettivo.
L’asse
ipotalamo-ipofisi-gonadi è molto sensibile a stimoli dell’area sessuale: LH e
testosterone nell’uomo aumentano in seguito a stimoli visivi di natura sessuale
(a volte anche un colloquio), mentre si riducono in seguito a situazioni di
stress dove il soggetto percepisce una minaccia a sé.
L’asse
ipotalamo-ipofisi-prolattina non è implicato come si credeva un tempo solo
nell’allattamento, ma è attivato nelle condizioni di stress sia nell’uomo che
nella donna. Molti disturbi (amenorree, dismenorree) su base psicogena sono
probabilmente mediate da anomale elevazioni della prolattina stress-indotte.
Un’altra area in
attivo sviluppo e che completa il quadro delle connessioni tra vita psichica e
somatica sono i neuropeptidi; ne sono stati riconosciuti oltre 40. Presenti nel cervello e in vari
distretti ed organi periferici, molti di essi (ad esempio il CRF, i peptidi
oppioidi endogeni come le endorfine e le enkefaline, l’LH-RH, il TRH, i peptidi
gastrointestinali, il neuropeptide Y, fino ai peptidi immunomodulanti), hanno
importanti azioni di modulazione delle funzioni nervose e metaboliche.
Pressoché tutti estremamente sensibili a stimoli e situazioni di stress
emozionale, rappresentano
un ulteriore importante strumento per comprendere le interazioni mente-corpo
sia nel causare che nel guarire un disturbo psicosomatico.
Negli anni ‘80, poi,
le scoperte sono proseguite: anche il sistema apparentemente più lontano, il sistema immunitario, risulta connesso con
il sistema nervoso e risulta anche essere molto sensibile allo stress.
Com’è noto, animali
stressati (ad esempio ripetutamente spaventati) producono meno anticorpi e
spesso si ammalano con più facilità rispetto ad animali di controllo non
stressati. Lo stress può indurre aumentata mortalità in seguito all’esposizione
ad agenti infettivi. La NASA ha studiato le modificazioni del sistema
immunitario negli astronauti sottoposti al forte stress psicofisico del lancio
e del rientro.
Persone in lutto per la morte di un proprio caro risultano
immunodepresse. La connessione tra cervello e sistema immunitario è assicurata
da molte vie. I linfociti hanno recettori per la maggior parte dei neuropeptidi
ed ormoni dello stress, anzi essi stessi producono ACTH ed endorfine. Vengono
così gettate le basi della neuroimmunomodulazione ed è nata la
psiconeuroimmunologia.
Ritornando agli studi
di Alexander, egli assieme ad altri studiosi (French e Pollock) ha limitato il
campo della psicosomatica ad un certo numero di malattie in cui sia evidente
l’associazione a certe tipologie caratteriali o costellazioni emozionali. In
parole povere i pazienti che sviluppano le cosiddette malattie psicosomatiche
propriamente dette avrebbero delle stigmate di personalità ben definite.
Harold Wolff e
collaboratori nel 1953 mettono in dubbio la specificità del conflitto di
personalità asserendo l’esistenza di una risposta funzionale dell’individuo:
sarebbero gli avvenimenti dell’esistenza e non già il profilo psicologico ad
influire sulle risposte patologiche dell’individuo. In pratica, individui che
siano stati colpiti da disgrazie difficilmente sopportabili corrono maggiori
rischi di ammalarsi.
Negli anni ‘50 si
sviluppa in Europa la psicosomatica scientifica con i testi di Aboulker, Antonelli,
Boss, Pierloot, Carballo, Witbrecht e si sofferma negli anni ‘60 con i
contributi di Balint, Bonneton, Bugart, Delay, Jores, Marty, Tzanck.
Questi europei costituiscono la seconda generazione della
psicosomatica scientifica a
cui si associano gli americani Cobb, Grinker, Lief, Murray, Seguin.
Importante é stato il
contributo di Balint che ha enfatizzato l’interazione medico-malato
valorizzando l’utilizzo, da parte del medico, della sua stessa personalità nel
rapporto col paziente.
Tra gli europei Boss,
seguendo l’ipotesi dell’analisi esistenziale secondo cui lo psichico esprime la
modalità con cui un corpo è nel mondo, ritiene che la malattia esprima o
l’unica modalità con cui il corpo si apre e si relaziona al mondo, o le
modalità escluse, che non esprimendosi in un vissuto globale si annunciano
patologicamente. Da questo punto di vista le regioni del corpo colpite dalla
malattia appartengono alla relazione con il mondo patologicamente interrotta o
esasperata. Ciò che determina la malattia corporea non è quindi una
somatogenesi o una psicogenesi o una interazione tra le due, ma è un
alterazione del rapporto tra il soggetto e il mondo.
Nel 1953 Grinker, occupandosi degli sudi sulla
psicosomatica, perviene una definizione molto attuale e complessa del termine
“psicosomatico”. Egli afferma
che la psicosomatica è “un approccio che ingloba nella totalità alcuni dei
processi integrati di transazione fra più sistemi: somatico, psichico, sociale
e culturale. Infatti, secondo Grinker, la nozione di “psicosomatica” non
si riferisce né alla fisiologia o alla patofisiologia, né alla psicologia o
alla psicopatologia, ma a un concetto di processo fra i sistemi viventi e alla
loro elaborazione sociale e culturale.
Nel 1966 Meissner e
Minuchin introducono il “Modello familiare sistemico”. Secondo questo modello,
il paziente psicosomatico avrebbe un’immaturità proporzionale al suo grado di
coinvolgimento emotivo nelle interazioni familiari, ed una instabilità
emozionale che è condizionata dalla instabilità delle relazioni tra i membri
della famiglia; perciò una disorganizzazione nel gruppo familiare rompe
l’equilibrio del paziente e produce in lui uno “scompenso somatico”. Questo
disturbo rischia poi di essere cronicizzato per essere utilizzato come
comunicazione all’interno della famiglia. Secondo gli autori l’unica soluzione
efficace possibile è ottenibile con una psicoterapia familiare.
Gran parte della
pediatria psicosomatica si spiega con la triangolazione di un conflitto tra i
genitori ai danni del membro più debole della famiglia che diventa vittima del
conflitto e portatore del sintomo. Mai come nel bambino ogni evento morboso è
“psicosomatico”.
La visione genetica della psicosomatica permette una
stimolante chiave di lettura. Nel bambino la comunicazione inizia dai messaggi
corporei motorio-sensoriali per giungere a quelli verbali-affettivi,
trasformazione che è mediata dalla funzione materna. Nei casi di fallimento dei
processi introiettivi, il disturbo psicosomatico, negli aspetti genetici e
relazionali, è interpretabile come ritorno ad un’espressività corporea di un
disagio o di una sofferenza che non è possibile esprimere mentalmente. Questa
impostazione ha ricadute nell’affrontare i trattamenti terapeutici sia dei
bambini che degli adulti.
Nel 1967 Schmale e
Engel propongono il modello teorico psicosomatico del “Giving-up given-up
complex”. Il modello si riferisce al tipico quadro del paziente che, in
conseguenza di gravi perdite o di eventi che lo schiacciano inducendolo alla
resa, percepisce se stesso come ormai incapace di ogni controllo su di sé o
sull’ambiente, oscillando tra il sentimento di abbandono, con il senso di
mancanza di qualunque possibilità di aiuto dal mondo (helplessness), e il
sentimento di disperazione per cui tutto è ormai inutile (hopelessness), niente
è più possibile, una frattura incolmabile separa il passato dal futuro.
Si prevedono tre
sbocchi possibili a questo “given-up complex”: o qualcosa cambia nell’ambiente
o nell’individuo e questi recupera la sua normalità, oppure intervengono
modificazioni psicopatologiche e il soggetto si ammala psichiatricamente
assumendo comportamenti devianti, oppure egli sviluppa una malattia somatica.
Ne deriva la considerazione che ogni grave evento stressante (p.es. un lutto)
costituisce un notevole fattore di rischio, almeno per alcuni mesi, esaltando
la vulnerabilità ad ammalarsi.
Qualche anno dopo
Bahnson (1969) introduce il modello psicosomatico della “Complementarità
psicofisiologica”. In esso si sostiene che lo stress provoca una regressione
che può essere comportamentale o somatica a seconda di come vengono utilizzate
le difese del soggetto: nel primo caso prevalgono le difese proiettive e di
spostamento che coinvolgono il livello dei rapporti interpersonali e l’esito è
la nevrosi e persino la psicosi; nel secondo prevalgono le difese di tipo
rimozione-diniego (repression-denial) che indirizzano all’interno del corpo la
scarica della regressione, con esito in isteria, psicosomatosi, malattie
organiche, cancro.
Nel modello di Bahnson il cancro appare come alternativa
complementare alla psicosi, mentre la malattia psicosomatica sembra essere,
insieme, un’alternativa ad ogni patologia di tipo mentale e una seconda linea
di difesa (dopo la nevrosi) contro la neoplasia.
Questa teoria rinnova l’invito a rispettare il sintomo e
suggerisce, all’intervento psicoterapico, di puntare alla mobilizzazione di
meccanismi difensivi più economici.
L’alternativa di Bahnson è confermata dalla rarità di
disturbi psicosomatici negli psicotici.
Tra il 1975 e il 1977, Nemiah introduce alcune considerazioni sulla eziologia
delle malattie psicosomatiche contrarie a quelle ipotizzate qualche anno prima
da Cannon. Egli, partendo dalla constatazione che il paziente
psicosomatico presenta un’incapacità di descrivere con precisione i propri
sintomi, un’incapacità ad individuare sensazioni affettive e distinguerle tra
loro, un’inadeguatezza tra esplosioni emozionali e corrispettivi stati
affettivi interni, rigidità, distacco e disarticolazione nella postura e nelle
mimica, ha ipotizzato che
a causa di fattori genetici o di difetti dello sviluppo esisterebbe una carenza
di connessioni neuronali tra le aree del sistema limbico, deputate alla
rielaborazione delle pulsioni e degli affetti, e le aree corticali, sede delle
rappresentazioni consce, dei sentimenti e delle fantasie. Ne consegue che le
stimolazioni delle pulsioni non vengono elaborate a livello corticale, ma
deviate sull’ipotalamo che genera stimolazioni troppo intense e prolungate a
carico del sistema vegetativo.
In seguito Nemiah assieme a Sifneos, sulla base delle
osservazioni cliniche di pazienti che soffrivano di disturbi psicosomatici
introdussero il termine alessitimia (alexithymia), definito operativamente a
seguito della XI Conferenza Europea sulle Ricerche Psicosomatiche, nel 1976.
Alessitimia letteralmente significa “non avere le parole per
le emozioni”. Tale patologia si manifesta nella difficoltà a identificare e
descrivere i propri sentimenti e a discriminare tra stati emotivi e sensazioni
corporee. I soggetti alessitimici sono incapaci di riconoscere i motivi che li
spingono ad esprimere determinate emozioni; hanno difficoltà a mettersi nei
panni degli altri e mancano di empatia. La loro vita immaginativa è ridotta o
addirittura assente (testimoniato, ad esempio, dall’assenza di materiale
onirico) mancano della capacità di introspezione, il loro stile cognitivo è
legato allo stimolo (tipo di pensiero operatorio caratterizzato da una totale
adesione alla concretezza dei dati) e orientato all’esterno e mostrano un
adattamento alla realtà sociale di tipo conformistico.
Diversi fattori socioculturali e neurobiologici sono in gioco
nell’etiologia dell’alessitimia; i teorici della psicoanalisi hanno in
particolare sottolineato il ruolo dei problemi che si verificano nelle prime
fasi dello sviluppo.
I soggetti alessitimici tendono a stabilire delle relazioni
di marcata dipendenza e con alta interscambialità; in alternativa, preferiscono
restare da soli o evitare del tutto gli altri. L’alessitimia è stata associata
ad uno stile di attaccamento insicuro evitante caratterizzato da una ricerca
ossessiva di cure.
Sempre negli stessi
anni Marty (1971), partendo dall’osservazione della povertà di elaborazione
psichica dei malati psicosomatici elabora la teoria del “Pensiero operatorio”
(pensée operatoire). Egli ascrive la comparsa di una malattia psicosomatica ad
un fallimento dei processi di mentalizzazione (elaborazione psichica
dell’emozione attraverso il pensiero, sia nel suo aspetto intellettuale cosciente,
sia in quello immaginativo del fantasma).
Secondo questa teoria,
il paziente psicosomatico è incapace di elaborare i conflitti a livello
mentale, è privo di “vita fantasmatica”, carente di sogni, incapace di
stabilire un transfert; ha un pensiero pragmatico, rivolto esclusivamente al
presente, alla realtà concreta, senza rapporti con fantasie inconsce; sembra
più lo spettatore che il protagonista della sua vita. L’incapacità a gestire i
conflitti, non potendosi legare in formazioni nevrotiche, tende a scaricarsi
primitivamente e distruttivamente a livello somatico portando alla formazione
del sintomo.
Lo spunto pratico che
deriva dai modelli dell’alessitimia e del pensiero operativo consiste nel
considerare il paziente psicosomatico molto diverso da un comune nevrotico e
quindi nel trattarlo con mezzi più adeguati quali il counseling, la behavior
therapy, il training autogeno, l’ipnosi, la psicoterapia di sostegno,
privilegiando queste tecniche ad ogni psicoterapia dinamica.
Invece Levi, (1972), riallacciandosi
storicamente alle ricerche di Cannon (1929), Wolff (1950) e Selye (1957)
introduce il “Modello Psicosociale”. Secondo questo modello gli “stimoli
psicosociali” incidono sul “programma psicobiologico” dell’individuo (e cioè il
suo patrimonio genetico e di esperienze infantili) e possono provocare dei
“precursori di malattia” (che, alla lunga, portano alla malattia somatica)
attraverso una serie di variabili interagenti che altro non sono che le varie
alterazioni specifiche, a carico di organi e funzioni, conseguenti alla
aspecificità dello stress.
Il modello
psicosociale di Levi offre una visione nuova della psicosomatica, non più
limitata nella prospettiva della reazione individuale alle emozioni ma vista in
individui immersi nella loro realtà sociale ed ambientale . Ciò ha dato vita, tra l’altro, alla branca
psicosomatica della medicina del lavoro. Nel 1979 Kobasa introduce il Modello
“Hardiness”. Questo modello sostiene che individui con “bassa hardiness” sono i
più vulnerabili alle psicosomatosi da eventi stressanti.
Hardiness
letteralmente significa ardìre, vigore, resistenza. E’ alla base del coping che
significa fronteggiare, lottare con successo. Una valida rielaborazione
cognitiva può ridimensionare l’evento stressante ed evitare che esso
destabilizzi l’omeostasi e faccia ammalare. Componenti dell’hardiness sono il
commitment (impegno, autostima, coinvolgersi attivamente in ciò che si fa o che
interessa), il control (controllo delle proprie capacità di adattamento), il
challenge (sfida: la normalità sta nel cambiamento più che nella stabilità;
l’evento stressante è una possibilità di crescita più che una minaccia alla
sicurezza).Questo modello sostiene che individui con “bassa hardiness” sono i
più vulnerabili alle psicosomatosi da eventi stressanti.
Nel 1980 Pancheri
tenta una sintesi tra i vari modelli proposti per spiegare le malattie
psicosomatiche; in questo modo perviene al “Modello psicosomatico”. Secondo
questo modello, ogni stimolo, sia esso sociale e/o individuale, produce modificazioni
psicologiche e biologiche determinate dal programma psicobiologico
dell’individuo, con esito in patologia mentale oppure somatica. Il passaggio
dallo stimolo alla malattia avviene attraverso cinque fasi: 1) imprinting o
registrazione nella memoria emozionale, a livello limbico-ipotalamico, di
stress infantili; 2) strutturazione di uno stile personale di risposta
(somatica o comportamentale) agli stress; 3) riattivazione emozionale in
presenza di nuovi stimoli, reali o simbolici; 4) precursori della malattia
(disfunzione); 5) malattia psicosomatica.
Questo modello ha il suo interesse nel fatto che copre vari
livelli di analisi della psicosomatosi (livello psicosociale, psicologico,
biologico, clinico) indicando le potenzialità operative della medicina
psicosomatica lungo l’intero iter della malattia, dalla prevenzione alla
terapia.
L’anno dopo al modello di Pancheri, Antonelli introduce il
termine “Brositimia”. Letteralmente significa sentimento ingoiato, dal greco
brozo - ingoio (da cui brosis - cibo). Si riferisce ad una frequente
espressione dei malati psicosomatici: “io sono nervoso dentro, sicché neanche
sembro nervoso. Io non reagisco, non strillo, io mando giù". Secondo
Antonelli questo stile di vita è il principale responsabile delle loro sofferenze,
la più chiara espressione della somatizzazione dell’ansia Il “mandare giù”
ricorda la tecnica dello struzzo: non risolve i problemi ma li dirotta
all’interno lasciandoli insoluti. E così l’ansia, sofferenza dello spirito, si
aggiunge alla somatizzazione, sofferenza del corpo.
Qualche anno più tardi (1987) Frigoli e collaboratori
introducono l’ermeneutica funzionale come metodo di interpretazione dei
correlati fra psiche, bios e sistema ecologico. In quest’ottica definita
“Eco-Biopsicologia” l’analogia e il simbolo vengono utilizzati come strumento
operativo per porre in relazione i codici semeiologici delle infinite forme del
mondo vivente (aspetto ecologico) con gli analoghi linguaggi del corpo umano
(che nella sua ontogenesi riassume la filogenesi del mondo biologico) per poi ritrovare
tale relazione tra “mondo” e bios umano, negli aspetti psicologici e culturali
dello stesso, grazie ai miti, alla storia delle religioni, e alle immagini
collettive dell’umanità (aspetto psicologico). Si creano così i presupposti per
una “fisiologia psicosomatica simbolica”.
Recentemente (1999) Wilma Bucci ha proposto la “Teoria del
codice multiplo”. Wilma Bucci è docente e direttore di ricerca presso il Derner
Institute della Adelphi University di New York. E’ una psicoanalista che
potremmo inquadrare all’interno di quel composito e variegato movimento
internazionale della sperimentazione clinica e della ricerca empirica e teorica
denominato “integrazione psicoterapeutica”.
Il suo modello costituisce un approfondimento della
differenziazione freudiana del processo primario e secondario; deriva dai
modelli cognitivi attuali ma va anche oltre poiché pone l’accento sul ruolo
delle emozioni nella cognizione umana e sugli aspetti complessi della
traduzione delle esperienze emotive nelle forme verbali.
Nella teoria del codice multiplo vengono differenziate tre
modalità fondamentali in cui gli esseri umani elaborano le informazioni,
comprese quelle emotive, e formano rappresentazioni interne: il modo
subsimbolico non-verbale, il modo simbolico non-verbale ed il modo simbolico
verbale. L’elaborazione subsimbolica riguarda tutti quegli stimoli (dai
sentimenti alle informazioni motorie e sensoriali) non-verbali che vengono
processati “in parallelo”: ad esempio, riconoscere le emozioni nell’espressione
facciale altrui o comporre un brano musicale o riconoscere una voce familiare
nella confusione di una festa.
L’elaborazione simbolica non-verbale riguarda invece quelle
immagini mentali (un volto, una musica, un’espressione) che, pur presenti alla
coscienza, non possono essere tradotte in parole.
La modalità simbolica verbale, infine, riguarda quel
potentissimo strumento mentale mediante il quale l’individuo comunica il
proprio mondo interno agli altri e conoscenza e cultura vengono trasmesse da un
individuo ad un altro.
Nella teoria del codice multiplo i tre sistemi sono governati
da principi differenti ma sono anche ovviamente connessi: Bucci definisce
“processo referenziale” tale complessa connessione che va in senso
bidirezionale dalle emozioni alle parole e viceversa .
Questa teoria ci interessa perché Bucci illustra la
possibilità di applicarla al processo di somatizzazione.
Il processo di malattia somatica appare come una
dissociazione fra i pattern sensoriali e motori di espressione delle emozioni e
le parole, intese come rappresentazioni simboliche degli oggetti di cui
facciamo esperienza a livello subsimbolico.
Inoltre questo modello per molti versi si avvicina al
costrutto di alessitimia in precedenza esposto.
Infatti se la traduzione di alessitimia può essere “emozioni
senza parole”, il modello di somatizzazione secondo il codice multiplo della
Bucci può diventare “stati somatici senza simboli”.
Le entità mediche tradizionalmente classificate come
psicosomatiche (asma, ulcera, colite ulcerosa, ipertensione, artrite) possono
ora esser considerate come disposte lungo un continuum con i sintomi di
conversione. Tali disturbi somatici riflettono dissociazioni più gravi
all’interno degli schemi non-verbali, caratterizzate da livelli più elevati di
attivazione fisiologica degli schemi emotivi che occupano gli stessi canali di
elaborazione specifici per modalità attivati dagli eventi fisici. Sebbene
l’attivazione non abbia apparenti connessioni simboliche, i contenuti dello
schema influenzano anche la forma specifica di disabilità che ne risulta.
In questo senso, il lavoro della Bucci si colloca nel
movimento contemporaneo della psicosomatica (su cui convergono linee di ricerca
diverse, dalla psicoanalisi alle neuroscienze alle teorie cognitiviste) che mira
a ripensare le malattie oltre la vetusta dicotomia mente/corpo o malattie
organiche e malattie psichiche.
Medicina psicosomatica
La medicina psicosomatica può essere definita come lo studio
dei rapporti tra psiche e corpo, studio reso possibile dal presupposto che
fatti psichici influenzano la fisiopatologia e, viceversa, che questa produce
risonanze emotive (fatti somatopsichici); reso scientifico per l’applicazione
dei concetti della psicologia dinamica alla clinica medica, reso pratico
dall’applicazione delle tecniche psicodiagnostiche e specialmente
psicoterapiche nella medicina tradizionale.
La medicina psicosomatica non è esattamente una specialità
definita della medicina tradizionale, nel senso che non è oggetto di corsi di
specializzazione post-universitari. È, piuttosto, una sempre più diffusa
specialità trasversale, che può intervenire nella diagnosi e nella terapia
delle più diverse patologie, anche di notevole gravità.
Quindi lo spazio della Medicina Psicosomatica non è ai
margini delle singole specializzazioni della scienza medica, ma bensì le permea
tutte, capillarmente e universalmente. Le interferenze dello psichico sul
somatico (e viceversa), infatti, sono tali e tante da influire
significativamente su tutti i livelli dell’arte medica: prevenzione, terapia,
riabilitazione. Le dinamiche della soggettività (e cioè lo psichico) si costituiscono
dentro precisi orizzonti socioculturali (condizioni materiali e relazionali di
esistenza, convenzioni istituzionali, sistemi di valori e di mete culturalmente
elaborati, ecc.) che si configurano in modo diverso nei vari contesti e
appaiono oggi quasi ovunque in rapido cambiamento.
Ciò avvicina la psicosomatica all’antropologia medica in
quanto disciplina che esamina il versante socioculturale dei processi di
salute/malattia, le risposte conoscitive e operative che vi fanno riscontro nei
vari contesti, lo spessore culturale dei soggettivi vissuti della patologia. La
medicina psicosomatica può essere intesa anche come una corrente di pensiero
che ha come obiettivi quelli di:
riumanizzare il rapporto medico-paziente affinché il
progresso tecnologico sempre più sofisticato e la proliferazione di
specializzazioni sempre più dettagliate non facciano dimenticare o trascurare
l’Uomo che vive, con il suo carico di esperienze ed emozioni, dietro le cifre e
i referti di una cartella clinica;
recuperare lo stile di un’arte sanitaria centrata più sul
malato che sulla malattia;
restituire la giusta e opportuna dignità sia a chi soffre sia
a chi cura;
integrare, tra i fattori di rischio delle malattie fisiche,
le variabili di personalità, gli stili di vita, i modelli comportamentali, le
relazioni interpersonali.
Malattie psicosomatiche
Nel 1940, in seguito a numerose osservazioni delle
ripercussioni esercitate dallo stato emozionale del paziente sulle
manifestazioni patologiche, inizia l’identificazione di una serie di malattie
psicosomatiche, ovvero patologie nelle quali un problema psicologico si
manifesta attraverso sintomi fisici, altrimenti non spiegabili. Prima di
descrivere le malattie mi sembra utile presentare la distinzione che viene
fatta tra reazioni e malattie psicosomatiche.
Per quanto riguarda le reazioni psicosomatiche esse, pur non
organizzandosi in vere e proprie malattie, si esprimono attraverso il corpo,
coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta vegetativa a
situazioni di disagio psichico o di stress.
Le reazioni psicosomatiche, definite da alcuni anche come
manifestazione psicosomatica di primo ordine, sono fenomeni a corto circuito,
transitori, ai limiti della patologia, determinati da un evento-stimolo, che
hanno un contenuto emotivo in rapporto di derivazione comprensibile con
l’avvenimento causale e che seguono cronologicamente l’evento, cessando con la
cessazione di questo. Nelle reazioni psicosomatiche manca una elaborazione
intrapsichica dell’evento e la partecipazione della personalità è limitata.
Esempio tipico è la reazione di spavento-paura (spavento è la
percezione sensoriale improvvisa di minaccia, paura è la comprensione del
pericolo corso o incombente): tachicardia, iperpnea (aumento degli atti
respiratori), ipertensione, sudore freddo, tremore, svenimento, rossore o
pallore del viso e contemporanee iperemia (aumento di sangue in un determinato
distretto del corpo) o ischemia (mancanza di sangue in un organo o parte di
esso) della mucosa del colon, “pugno sullo stomaco”. La reazione psicosomatica
può essere immediata ma anche ritardata.
A molti life events stressanti la reazione si manifesta dopo
un periodo di latenza: “quando credevo di aver superato l’evento ho cominciato
a sentirmi male”. Sembra che la somatizzazione possa realizzarsi solo dopo che
si siano affrontati i problemi più urgenti e concreti creati dall’evento.
Frequente reazione psicosomatica è la sindrome di insicurezza organica per
mancato recupero dopo un trattamento (chirurgico o con antibiotici) che troppo
in fretta restituisce alle società un soggetto che non sta ancora bene.
Gli stimoli fisici o psichici possono provocare delle
reazioni psicosomatiche. Per esempio consideriamo un soggetto adulto,
fisicamente sano ed emozionalmente equilibrato a cui gli si iniettano due
soluzioni: la prima è una soluzione salina isotonica iniettata in vena che non
produce nessuna reazione; la seconda iniezione endovena contiene la stessa
soluzione salina e in più un milligrammo di adrenalina. Pochi secondi dopo egli
diventa pallido, il suo battito cardiaco aumenta notevolmente di frequenza; può
anche avere tremore, provare una sensazione di oppressione precordiale e un
senso di angoscia. Le sue reazioni emotive agli stimoli esterni possono
diventare sensibilmente intensificate e in questo modo una notizia che prima
gli destava soltanto interesse può scuoterlo notevolmente. Qualcosa di simile
può succedergli con un ricordo, per esempio, di una figlia malata.
Cosa è successo? Possiamo dire che l’adrenalina, iniettata in
dosi notevolmente al di sopra di quella che normalmente si trova in circolo, ha
provocato un’intensa e complessa reazione caratterizzata da fenomeni puramente
somatici, quali il pallore e la tachicardia e da fenomeni cosiddetti emozionali
in cui si osservano aspetti fisici (lacrime) e psichici, quali la
preoccupazione intensa per la figlia malata.
Siamo dunque di fronte a una somatogenesi (in questo caso
fisiogenesi) di una reazione psicosomatica. Somatogenesi dove con la parola
“somato” ci si riferisce solo ed esclusivamente allo stimolo; la reazione è,
invece, in questo caso, allo stesso tempo fisico e psichico.
Il termine psicosomatico nel senso di malattia o sindrome
psicosomatica è utlizzato prevalentemente per quei casi nei quali il bilanciamento
delle risposte alle situazioni nei campi psichico e somatico pende decisamente
per il secondo.
E’ quando i sintomi fisici e psichici vengono riconosciuti
come parte integrante del quadro patologico e non come una reazione
dell’individuo alle malattie stesse. Il passaggio da reazione a malattia è
determinato dalla cronicizzazione sia dello stimolo emotivo (che, da “evento”,
diventa “situazione”) sia della correlata risposta dell’organismo: ciò da vita,
appunto, alle così dette psicosomatosi o malattie psicosomatiche o nevrosi
d’organo.
Esempio: la fisiologica reazione ipertensiva da tamponamento
si risolve spontaneamente in pochi minuti, ma se un soggetto è metaforicamente
“tamponato” di continuo da una insopportabile situazione di disagio, sul lavoro
o in famiglia, sarà in perenne allarme, e la sua pressione arteriosa si
stabilizzerà pericolosamente su livelli elevati determinando una ipertensione
arteriosa psicosomatica. Nella malattia psicosomatica la situazione-stimolo
subisce un’elaborazione intrapsichica (meccanismo che la vecchia terminologia
psichiatrica italiana definiva psicogenetico in contrapposizione a quello
psicogeno del corto circuito) che chiama in causa la personalità. Da qui il
valore della personalità premorbosa come “precursore” di malattia e quindi il
significato degli interventi preventivi e psicoterapici per modificare le
abitudini di vita.
Agli inizi della Medicina Psicosomatica si sono definite
“psicosomatiche” alcune malattie nelle quali i fattori emozionali apparivano
etiologicamente prevalenti o precipitanti: coronaropatie, ipertensione
arteriosa, asma, colite, alopecia atopica, dismenorrea, ecc. Ma poi il concetto
di psicogenesi è stato ridimensionato poiché molte ricerche hanno dimostrato
che le variabili psicologiche e sociali sono una classe di fattori eziologici
in tutte le malattie, anche se il loro peso relativo può variare da malattia a
malattia, da un individuo all’altro e da un episodio all’altro della stessa
malattia nella stessa persona. In effetti, forse, oggi non è più in uso (né
corretto) parlare di malattie psicosomatiche. In tutte le malattie esiste
potenzialmente una componente psicosomatica per la quale si richiede un
approccio di tipo psicosomatico. Per indicare la presenza di una significativa
componente nella patogenesi di una malattia è preferibile parlare di
psicosomatosi.
Altro ridimensionamento riguarda il termine “nevrosi
d’organo”. I più recenti studi di psicoanalisi hanno individuato nei pazienti
psicosomatici un disturbo primitivo di personalità molto più vicino al disturbo
borderline che alla nevrosi. In conclusione si può affermare che le malattie
somatiche sono quelle che più strettamente realizzano uno dei meccanismi
difensivi più arcaici con cui si attua una espressione diretta del disagio
psichico attraverso il corpo. In queste malattie l’ansia, la sofferenza, le
emozioni troppo dolorose per poter essere vissute e sentite, trovano una via di
scarico immediata nel soma (il disturbo); non sono presenti espressioni
simboliche capaci di mentalizzare il disagio psicologico e le emozioni, pur
essendo presenti, non vengono percepite.
I più vari e tipici malati psicosomatici sono coloro che
hanno lesioni corporee mentre non provano o non riescono a simbolizzare
(alessitimia) sofferenze psichiche. Per esempio in etologia lo studio del comportamento
animale ha evidenziato la possibilità che intensi stimoli emotivi provochino
lesioni come ulcere, coliti, ecc. Sono interessanti le osservazioni sulla
comparsa di lesioni corporee in animali impossibilitati a realizzare
comportamenti adeguati alle situazioni.
L’impossibilità di ritirasi dopo un combattimento con un
conspecifico, oppure il dover assistere, nel caso di un babbuino maschio
dominante rinchiuso in gabbia, agli accoppiamenti da parte di individui di
rango inferiore sembrano dar luogo a gravi lesioni organiche ed anche alla
morte.
L’etologia utilizza concetti dinamici e fruisce utilmente del
modello energetico; avvalora quindi la concezione di base dell’approccio
psicosomatico nella “psiche” e nel “soma” siano comunicanti, interscambiabili,
bilanciati. Più esattamente che essi possano svolgersi nell’ambito dei sistemi
integrativi cerebrali sotto forma di affetti e cognizioni, oppure che si
espandono nel resto dell’organismo come fenomeni vegetativi, secretivi,
ormonali.
La malattia psicosomatica ha un’eziologia conflittuale: è
l’elaborazione intrapsichica di una situazione-stimolo che agisce in senso
psicogeno. E’ un complesso meccanismo difensivo ricco di significato
psicologico e sostenuto spesso da una personalità nevrotica. Tra le malattie
psicosomatiche si distinguono: quelle sine materia o “funzionali”, tra le quali
la nevrosi cardiaca, la nevrosi gastrica, la colite spastica; le malattie
psicosomatiche propriamente dette o “nevrosi d’organo” o “psicosomatosi” tra le
quali infarto, ulcera, colite ulcerosa, ipertensione.
Caratteristiche comuni
delle psicosomatosi
La malattia psicosomatica ha quattro caratteristiche
fondamentali. La prima è la “vulnerabilità nevrotica”: un evento traumatizzante
può provocare una psicosomatosi solo perché esso evoca un trauma primario
relegato nell’infanzia. Ad esempio un licenziamento può provocare un’ulcera
solo in soggetti che hanno già vissuto il dramma dell’abbandono di una figura
chiave rassicurante. Per rispondere a un concetto espresso da Flescher, la
psiche è come un cristallo che, se percosso, si sfalda in frammenti secondo
piani conformi alla sua struttura e lungo incrinature già esistenti.
La seconda caratteristica riguarda la “cronicizzazione” sia
dello stimolo emotivo che della risposta organica. Il già citato tamponamento,
per esempio, produce ipertensione: è una difesa biologica che permette
all’individuo di affrontare la lotta.
La terza caratteristica è “l’eziologia plurifattoriale”.
Holliday spiega il problema in questo modo: ascoltate questo frammento di
conversazione. Un conoscente dice a un signore: che cosa ha da piangere il suo
bambino? La madre risponde: “Oh piange per ogni piccolezza, è proprio un
bambino!”; il fratello spiega: “ ha visto un gatto e si è spaventato”; il
conoscente di rimando: “Va bene, ad ogni modo deve avere dei polmoni robusti”.
Queste frasi rappresentano tre punti di vista differenti: quello individuale (è
ancora un bambino), quello ambientale (un gatto ha provocato lo spavento),
quello fisiologico (deve avere dei polmoni robusti). Una medesima causa agisce
dunque su tre campi. Il fenomeno del pianto in quel soggetto evidentemente non
sarebbe mai comparso se il soggetto stesso, primo non fosse stato un bambino,
secondo non avesse incontrato il gatto, terzo non avesse avuto dei buoni
polmoni. Questa teoria dette del “quanto dell’uno e quanto dell’altro”,
garantisce la serietà psicosomatica, che non ha certo la pretesa di volere
assorbire, né vuole correre il rischio di correggere il secolare errore di aver
trascurato la psiche commettendo quello, ancora più grave, di passare
all’eccesso opposto e cioè di trascurare il corpo. Cioè se esiste “qualche”
ulcera psicosomatica, ciò non significa che l’ulcera sia sempre psicosomatica.
La quarta caratteristica è la “somatizzazione”, ossia il
passaggio o meglio il “salto”, come aveva detto Freud, dallo psichico al
somatico.
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