Relazione letta al convegno "L'arcipelago delle emozioni: tra
vissuto, comprensione e spiegazione scientifica",
Perché l'aggressività? Sintesi di alcune ipotesi psicoanalitiche da
Freud a oggi
(Paolo Migone)
Riassunto. Viene ripercorso
sinteticamente lo sviluppo delle ipotesi psicoanalitiche sulla genesi della
emozione aggressiva in Sigmund Freud e in alcuni autori successivi che hanno
affrontato questo tema in psicoanalisi. Seguendo in parte la traccia contenuta
in un saggio del 1981 di Gian Vittorio Caprara, vengono presi in rassegna in
ordine cronologico alcuni dei principali scritti di Freud per esaminare la
evoluzione del suo pensiero sulla pulsione aggressiva, che culmina con il
saggio del 1920 Al di là del principio di piacere. Vengono poi brevemente
presentate le posizioni dei seguenti autori, che spaziano dai primi anni del
secolo fino ai giorni nostri: Alfred Adler, Anna Freud, Melanie Klein, Wilhelm
Reich, Otto Fenichel, Heinz Hartmann, Erich Fromm, Heinz Kohut, Otto Kernberg,
Joseph Lichtenberg, Drew Westen, e Peter Fonagy. Schematicamente, la pulsione
aggressiva (chiamata anche, secondo le diverse formulazioni, istinto di
morte,thanatos, mortido, ecc.) è stata spiegata con due ipotesi di base: come causata
da un fattore interno (aggressività innata o istintuale) o da un fattore
esterno (aggressività come reazione alla frustrazione). Viene suggerito un
superamento di questa dicotomia, anche perché in parte legata a concezioni
dello sviluppo della mente non aggiornate alle più recenti acquisizioni in
campo neurobiologico che prevedono un intergioco continuo, fin dalle prime ore
di vita, tra sviluppo del cervello e stimoli ambientali.
L'aggressività può essere
definita una "parola valigia" (Storr, 1968) poiché porta con se
significati molto diversi tra loro: una emozione aggressiva ingiustificata
oppure anche giustificata, una competizione legittima nel luogo di lavoro, un
atteggiamento mentale, un confitto tra nazioni, e così via. Uno dei problemi
nasce dal fatto che il termine aggressività può alludere simultaneamente al
correlato comportamentale di una emozione (agitazione, tachicardia, rossore in
volto, ecc.) e a uno stato psicologico, cioè una qualità astratta, un
atteggiamento mentale o una propensione interna che possono anche non
manifestarsi a livello comportamentale. Questa differenza tra comportamento e
atteggiamento è invece ben specificata nella lingua inglese, dove esistono,
rispettivamente per il primo e il secondo significato, i due termini aggression
e aggressiveness. Il termine aggressività quindi spesso viene usato in modo
equivoco creando confusione nell'abbondante letteratura sull'argomento, poiché
può essere applicato indiscriminatamente all'uomo che difende la propria vita
in caso di attacco e all'omicida che infierisce sulla sua vittima. Il concetto
di emozione aggressiva varia quindi a seconda che questa sia considerata ora un
istinto, ora un comportamento, ora una emozione reattiva ad un evento
frustrante e/o stressante, e così via. L'etimologia stessa del termine
aggressività testimonia in modo efficace la complessità di significati che essa
può assumere: dal latino ad = "verso, contro, allo scopo di", e
gradior = "vado, procedo, avanzo".
Considerato quindi che
l'aggressiva può avere cause, manifestazioni e conseguenze molto varie, non
sorprende che esso sia stato oggetto di studio nei più svariati campi di
ricerca: biologico, psicologico, psichiatrico, forense, sociale, etico, con
attributi e caratteristiche peculiari per ognuno dei vari approcci. In
particolare, sono le spiegazioni psicologiche quelle spesso attirano maggiore
interesse per tentare di comprendere fenomeni altrimenti di difficile
comprensione (è un esempio indicativo il fatto che nella cover story di un
recente numero della rivista Newsweek, intitolata "Evil: What Makes People
Do Wrong?", ben otto delle nove delle persone intervistate erano
professionisti della salute mentale [Bergley, 2001; vedi Gottlieb, 2002]).
Tantissimi sono gli studi sulla emozione aggressiva che meriterebbero di essere
citati, alcuni dei quali sono i seguenti: Akhtar et al., 1995; Arendt, 1963,
1970; Attili et al., 1996; Bandura, 1973; Bergeret, 1984; Berkowitz, 1962,
1969; Bychowski, 1968; Bonino & Saglione, 1978; Bowlby, 1973; Buss, 1961;
Caprara, 1972, 1981, 1995; Costabile, 1996; de Zulueta, 1993; Di Maria & Di
Nuovo, 1984; Dollard et al., 1939; Eibl-Eibesfeldt, 1970; Fonagy et al., 1993;
Fornari, 1964; Fromm, 1973; Gilligan, 1997; Giraud, 1992; Hinde, 1974;
Kernberg, 1992; Kohut, 1972; Lorenz, 1963; May, 1972; Miller, 1980, 1988;
Montagu, 1976; Morris, 1967; Parens, 1973, 1979; Salvini, 1988; Scherer et al.,
1975; Scott, 1958; Searles, 1956; Singer, 1971; Socarides, 1966; Stepansky,
1977; Storr, 1968; ecc.
In questa sede, sulla base anche
di un lavoro precedente (Migone & Rabaiotti, 2003), prenderò in esame solo
un'area circoscritta, e precisamente lo sviluppo delle ipotesi psicoanalitiche
sull'aggressiva da Freud a oggi, passando in rassegna alcuni autori che si sono
occupati dell'argomento fino ad arrivare alla revisione di alcune formulazioni
che ormai si possono considerare datate. Naturalmente questo excursus non può
fare giustizia di tutti gli autori che hanno affrontato questo argomento, e
necessariamente sarà solo una rapida carrellata attraverso alcune idee
psicoanalitiche formulate nel corso del XX secolo, che può servire soprattutto
come base di partenza per ulteriori approfondimenti (la bibliografia è
volutamente approfondita per questo scopo).
Il percorso di Freud
Come è noto, mentre la psicologia
comportamentale studia attentamente il comportamento così come si manifesta
all'osservatore, la psicoanalisi si propone, più ambiziosamente, di studiare
anche gli stati soggettivi e le possibili motivazioni sottostanti, costruendo
ipotesi esplicative sulle dinamiche inconsce, soprattutto alla luce dei
significati legati alla storia personale dell'individuo. Sono in particolare le
forze motivazionali e i significati che il soggetto attribuisce all'esperienza
il principale focus di attenzione della psicoanalisi, ed è in questo senso che
la psicoanalisi è "psicologia dinamica". Queste forze, queste
dinamiche, queste motivazioni o spinte ad agire sono in maggiore o minore
equilibrio tra loro, e il loro insieme unitario e relativamente stabile, frutto
anche della storia personale, rappresenta la personalità. E' per questo che,
come sottolineava Rapaport (1959), la psicoanalisi è anche una psicologia
evolutiva, poiché ciascuna esperienza va vista nel suo sviluppo storico.
Una disamina attenta della storia
del concetto di emozione aggressiva in Freud è stata compiuta da Caprara (1972,
1981, 1995; Caprara & De Caldas Brito, 1979), ed è soprattutto ad essa che
farò continuo riferimento per la sua accuratezza. Caprara (1981, p. 172) fa
giustamente notare che le conclusioni che Freud raggiunse a proposito
dell'aggressività non gli sembrarono mai soddisfacenti, e non esitò a
riconoscerne l'indeterminatezza e la frammentarietà. Ad esempio, come ci
ricorda Jones (1953-57, Vol. III, p. 540), Freud ancora nel 1937, quindi due
anni prima di morire, scriveva a Marie Bonaparte a proposito dell'aggressività:
"L'intero argomento non è stato trattato a fondo, e ciò che ebbi a dire in
proposito nei miei scritti precedenti era così prematuro e casuale da meritare
scarsa considerazione".
Non potevano esservi dubbi
sull'importanza dell'aggressività per una comprensione soddisfacente di tutta
una fenomenologia psicopatologica che comprendeva ad esempio la delinquenza, la
violenza, il masochismo, il suicidio, ecc. Come è noto, Freud tentava di
costruire un modello dell'apparato psichico partendo dalla sua teoria della libido,
"rispetto alla quale l'interesse per l'aggressività è stato per lungo
tempo, e per certi versi resta, in definitiva, un corollario. Tale interesse
matura e si definisce per residuo o per negativo in rapporto a quelle
manifestazioni che non sono, o che non sono soltanto, di natura libidica"
(Caprara, 1981, p. 172). Sono questi fenomeni che Caprara chiama i "vuoti
della teoria della libido" (ibid., p. 173), cioè "al di là del
principio di piacere" (prima il sadismo, poi il masochismo, il suicidio,
ecc.), quelli che spingono Freud a indagare attorno a una pulsione aggressiva,
e mano a mano che la sua ricerca procede e diventa sempre più complessa, non
raramente si notano posizioni diverse e a volte contraddittorie, tanto che, a
seconda che si consideri un'opera piuttosto che un'altra, o un passaggio
piuttosto che un altro, non è impossibile appellarsi a Freud per confermare o
per confutare l'una tesi o l'altra.
Si possono comunque notare tre
fasi nel percorso di Freud mentre lavorava attorno alla emozione aggressiva: in
una prima fase, prima del 1915, l'aggressività viene concepita quasi
esclusivamente come un aspetto della libido o comunque come al servizio della
libido; in una seconda fase, corrispondente a Pulsioni e i loro destini del
1915, l'aggressività viene concepita come indipendente dalla libido e
ascrivibile alle pulsioni dell'Io (o di autoconservazione); e infine in una
terza fase, dopo il 1920, l'aggressività non è più considerata una
manifestazione delle pulsioni dell'Io, ma come manifestazione di una autonoma
pulsione di morte (vedi Caprara, 1981, p. 173; per lo sviluppo della teoria
delle pulsioni in Freud, vedi anche Bibring, 1936; Nagera, 1969, pp. 26-38;
Migone, 1993, 1995 pp. 167-171). Questo criterio cronologico però non
interpreta fedelmente il percorso freudiano, perché il passaggio da una fase
all'altra non sempre corrisponde all'abbandono di ipotesi precedenti, ma ad un
approfondimento di indagine, a una maggiore complessità e riflessione, dove il
mutamento di prospettiva non è sempre reso esplicito. Caprara (1981, p. 174) ha
individuato nell'opera freudiana tre ipotesi differenti che coesistono spesso
parallelamente tra loro: l'ipotesi di una pulsione originaria eterodistruttiva;
l'ipotesi di un'aggressività come reazione alla frustrazione; l'ipotesi che
riconduce l'aggressività alla proiezione di un originaria pulsione
autodistruttiva o di morte.
In una prima fase di ricerca, non
è da escludere che Freud condividesse la diffusa convinzione del suo tempo
circa l'esistenza di istinti autonomi di natura aggressiva, anche se non è
chiaro se l'aggressività alla quale fa riferimento sia in un qualche modo
prodotta da una precedente seduzione subita o sia invece l'espressione di
quegli istinti (ibid., p. 175). Potrebbe avvalorare l'ipotesi istintivista
l'influenza esercitata su Freud dalla lettura di Darwin (Ellenberger, 1976),
come d'altro canto potrebbe avvalorare l'ipotesi ambientalista-reattiva
l'importanza da Freud attribuita, in quei tempi, alla realtà esterna (Rapaport,
1960a, 1960b).
Ne L'interpretazione dei sogni,
del 1899, Freud racconta molti sogni a contenuto aggressivo, ad esempio sogni
di "controdesiderio", di punizione, di morte di persone care, e così
via. Caprara (1981, p. 175) osserva che Freud, se è vero che viene colpito da
questi sogni, mostra una certa resistenza a riconoscere in alcuni di essi la
propria aggressività. Alcuni sogni masochistici vengono spiegati con la
trasformazione della componente aggressiva nel suo contrario (Freud, 1899, p.
152).
L'ostilità, l'ambivalenza, la
rivalità tra genitori e figli e tra fratelli (tematiche che gettano le basi
della successiva elaborazione del complesso edipico) vengono spesso espresse
nei sogni, mostrando quindi una lettura dell'aggressività come reattiva,
difensiva, principalmente funzionale alla soddisfazione di bisogni (come è
noto, saranno Dollard et al. [1939] a sviluppare questa linea di ricerca).
Vediamo quindi tutte le varie ipotesi prima accennate, quelle di
un'aggressività e di un'autodistruttività originarie (che spiegherebbero
rispettivamente il sadismo e il masochismo), e quella reattiva, come risposta
alla frustrazione e volta all'allontanamento di ostacoli o pericoli.
Ma è a partire dal 1905, con i
Tre saggi sulla teoria sessuale, che il discorso sull'aggressività diventa più
sistematizzato. Nel primo dei Tre saggi, quando affronta il problema delle
aberrazioni sessuali del sadismo e del masochismo, Freud (1905, p. 470) dice:
"Il sadismo corrisponderebbe allora ad una componente aggressiva della
pulsione sessuale, resasi indipendente ed esagerata, che usurpa per spostamento
la posizione principale". Qui dunque Freud fa rientrare una componente
aggressiva all'interno della pulsione sessuale. Ma nel secondo dei Tre saggi
subito non esclude l'esistenza di un'aggressività non riducibile a semplice
componente della pulsione sessuale, e sottolinea l'importanza di una
"pulsione di appropriazione" che può assumere connotazioni
aggressive: "Con un'indipendenza ancora maggiore dalle altre attività
sessuali legate a zone erogene, si sviluppa nel bambino la componente crudele
della pulsione sessuale. E' lecito supporre che il moto crudele derivi dalla
pulsione di appropriazione e si presenti nella vita sessuale in un'epoca in cui
i genitali non hanno ancora assunto la loro posteriore funzione" (Freud,
1905, p. 501).
Entrambe le ipotesi, quella di
una pulsione aggressiva originaria e quella di un'aggressività reattiva (sia
alla pulsione sessuale che alla pulsione di appropriazione), sono discusse da
Freud nel Caso clinico del piccolo Hans, del 1908: da un lato Freud accenna a
"tendenze crudeli e violente della natura umana" (p. 563), che negli
stadi infantili sembrano senza freni, e dall'altro accenna alla aggressività
come reazione alla frustrazione. Tuttavia, come osserva ancora Caprara (1981,
p. 179), la resistenza ad accettare l'ipotesi di una specifica pulsione
aggressiva è più marcata che in passato. Scrive ad esempio Freud a proposito
delle posizioni che Adler (su cui torneremo) allora proponeva sulla
aggressività:
Alfred Adler… ha recentemente
esposto l'ipotesi che l'angoscia derivi dalla repressione di ciò che egli
chiama "pulsione aggressiva", alla quale assegna, con amplissima
sintesi, la responsabilità principale di quanto avviene nella vita e nella
nevrosi… Eppure io non posso condividerla, e la ritengo una generalizzazione
atta a trarre in inganno. Non posso risolvermi ad ammettere una speciale
pulsione aggressiva accanto alle pulsioni di autoconservazione e sessuali che
ci sono familiari e allo stesso piano di queste. Mi sembra che Adler abbia a
torto eretto a pulsione speciale quello che è un carattere generale e
indispensabile di tutte le pulsioni, ossia proprio ciò che vi è in loro di
"impulsivo", urgente, quella che potremmo definire la loro capacità di
dare avvio alla motilità. (…) preferisco attenermi ancora alla vecchia
concezione che lascia ad ogni pulsione la facoltà di divenire aggressiva
(Freud, 1908, pp. 583-584)
Qui Freud pare aderire ad una
concezione dell'aggressività simile a quella che viene proposta da vari autori
contemporanei a cui accenneremo dopo. A parte questo, non è da escludere, come
fa notare Stepansky (1977), che nella polemica con Adler riemergessero non solo
problemi personali di Freud con colui che fonderà la Psicologia Individuale (e
quindi timori per l'unità del movimento psicoanalitico), ma anche problemi
irrisolti con Fliess relativamente a diversi aspetti inconsci della personalità
e dell'aggressività di Freud (vedi Caprara, 1981, p. 180).
Con Totem e Tabù, del 1913, Freud
ritorna sulla questione di una pulsione aggressiva, e ne ipotizza una autonomia
su base storico-culturale, attribuendo ad essa una enorme importanza per lo
sviluppo dell'organizzazione sociale. Rimane tuttavia discutibile, fa notare
Caprara (1981, p. 181), se tali tendenze rinviino ad un'aggressività originaria
o, piuttosto, a dei desideri aggressivi rimossi.
Anche in Pulsioni e loro destini,
del 1915, è notevole il rilievo che viene assegnato all'aggressività. Più
chiaramente che in passato, l'aggressività si configura in questo saggio come
una manifestazione delle pulsioni dell'Io tese all'autoconservazione e al
controllo della realtà. In particolare l'aggressività viene a configurarsi come
l'espressione tipica delle pulsioni dell'Io di fronte alla frustrazione.
L'aggressività e l'odio qui scaturiscono non da un originale bisogno e
desiderio di arrecare dolore, poiché "l'infliggere dolore non ha niente a
che fare con gli originari comportamenti finalizzati della pulsione"
(Freud, 1915b, p. 24), quanto piuttosto dal desiderio di allontanare e
respingere ciò che è, in qualsiasi forma, occasione di dispiacere:
L'Io odia, aborrisce, perseguita
con l'intenzione di mandarli in rovina tutti gli oggetti che diventano per lui
fonte di sensazioni spiacevoli, indipendentemente dal fatto che essi abbiano
per lui il significato di una frustrazione del soddisfacimento sessuale o del
soddisfacimento dei suoi bisogni di autoconservazione. Si può addirittura
asserire che gli autentici archetipi della relazione di odio non traggano
origine dalla vita sessuale ma dalla lotta dell'Io per la propria conservazione
e affermazione (Freud, 1915b, p. 33).
In queste ultime parole Freud
addirittura pare arrivi a negare alla sessualità un ruolo primario, in favore
di altre esigenze di autoconservazione ancor più pressanti, operazione che per
certi versi ricorda quella farà un Bowlby (1969, 1973) mezzo secolo dopo,
quando affermerà con vigore una motivazione all'attaccamento totalmente
indipendente da quella sessuale.
Seguendo questo rapido excursus
storico delle posizioni di Freud sulla aggressività, ci avviciniamo alla prima
guerra mondiale, che sicuramente influenzò Freud profondamente. Nel saggio
Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, del 1915, sembra riprendere
vigore l'ipotesi di un'aggressività pulsionale originaria che anticipa i
successivi sviluppi teorici. Di fronte alla guerra sembra impossibile
rinunciare all'ipotesi di impulsi malvagi originari che soltanto l'educazione e
la civiltà, non senza fatica, riescono a tenere a freno: la morte non può più
essere negata e con essa non possono essere negati gli impulsi "a
sopprimere tutti coloro che ci sbarrano il passo… la prontezza ad uccidere…
l'estensione e l'importanza degli inconsci desideri di morte… l'impulso ostile
che avvertiamo nel nostro intimo" (Freud, 1915a, pp. 146-147); di fronte
alla morte occorre "sopportare la vita: questo è pur sempre il primo
dovere di ogni individuo" (p. 148).
Pare che la guerra abbia
esercitato una influenza così profonda su Freud, tanto che cinque anni dopo,
nel suo fondamentale saggio Al di là del principio di piacere, del 1920,
approda alla sua definitiva contestualizzazione dell'istinto di morte, rassegnandosi
all'idea di un istinto autonomo, biologico, deputato al dissolvimento della
sostanza vivente, di quiete assoluta, "al di là del principio di
piacere" o al di là del principio di vita. Ma questo saggio di Freud è
tanto affascinante, geniale e ricco di stimoli quanto contraddittorio e
"noncurante delle contraddizioni e delle correzioni che vengono introdotte
in capitolo successivi lasciando inalterati i capitoli precedenti"
(Caprara, 1981, p. 183), alternante tra il biologico e lo psichico, tra
osservazioni cliniche e teorizzazioni astratte e filosofiche, e, come hanno più
volte osservato Jones (1953-57) e Schur (1972), probabilmente influenzato anche
da dolorose tematiche affettive quali la perdita di alcuni suoi familiari e la
incombenza sempre più sentita della propria morte. In questo saggio Freud
concepisce una polarità vita-morte, che riflette il modo con cui dovremmo
affrontare la vita e nel contempo accettare l'idea della sua transitorietà,
rappresentante effettivamente la polarità dialettica di ogni lavoro clinico e
anche la polarità di ogni tappa evolutiva, intesa come il prevalere dei
processi costruttivi e aggregativi rispetto a quelli distruttivi e
disgregativi. L'esperienza di tali resistenze alla vita è tuttavia diversa
nelle varie tappe evolutive, nelle differenti condizioni di vita in rapporto ai
sostegni forniti dal nostro patrimonio biologico e da ciò che il nostro
organismo trova nell'ambiente, ed è diversa da individuo a individuo.
Nell'opera L'Io e l'Es, del 1922,
viene enunciata la più compiuta formulazione dell'apparato psichico alla quale
giunge l'indagine freudiana. Freud, nel proporre il concetto di Super-Io,
differenziazione dell'Io ed erede del complesso edipico, coglie questa
occasione per riaffermare la dualità delle pulsioni di vita e di morte. A ben
vedere però con l'introduzione del concetto di Super-Io fa il suo ingresso
anche una precisa teorizzazione del rapporto tra individuo ed ambiente, nel
senso che le primitive cure materne, cioè le esperienze infantili e i rapporti coi
genitori, vengono poi interiorizzate ed avranno una influenza nel far pendere
il piatto della bilancia del conflitto tra le forze costruttive e le forze
distruttive all'interno del soggetto. Se un bambino viene amato adeguatamente
imparerà ad amare e a crescere, se invece viene maltrattato e abbandonato
imparerà ad odiare la vita e gli altri esseri umani. Pare dunque che qui si
profilino le tracce di una moderna teoria degli affetti, come autori successivi
(ad esempio un Kernberg, 1982, 1984, 1992, 2001) proporranno, a partire dalle
primitive esperienze piacevoli o spiacevoli, per revisionare la teoria della
motivazione in psicoanalisi sulla base della teoria delle relazioni oggettuali.
La problematica dell'aggressività
viene riproposta da Freud ne Il disagio della civiltà, del 1929, rielaborata in
termini psico-sociali. Viene proposta una antitesi ineliminabile tra l'uomo e
la civiltà, la quale è costruita sulla repressione - e idealmente sulla
rimozione, cioè con una stabile difesa inconscia - delle pulsioni, che per loro
natura sono disadattive. Su questo tema romantico elaborerà anni dopo, a ponte
tra psicoanalisi e marxismo, il Marcuse (1955) di Eros e civiltà, riproponendo
uno scontro immanente tra le forze vitali (l'Eros) e la società civile: il conflitto,
prima ancora di rivelarsi all'interno del soggetto, apparterrebbe alla vita, al
rapporto tra l'uomo e la società in cui vive, se non addirittura tra uomo e
natura, in un "disadattamento" perenne (vengono in mente le parole
del poeta romantico Alfred Tennyson [1809-1892]: "Natura, rossa nel dente
e nell'artiglio"). Ne Il disagio della civiltà il pessimismo di Freud e la
sua convinzione che all'interno dell'uomo esista una forza distruttrice di
natura pulsionale, che minaccia la società civile, raggiungono il loro apice.
In passato Freud sembrava più ambiguo sul ruolo di questa aggressività rispetto
ad un tipo di aggressività che invece era determinata dalla frustrazione della
libido. Ora l'istinto di morte, chiamato anche mortido o Thanatos, pare irriducibile,
porta alla sua necessaria repressione che è poi la causa principale del
"disagio della civiltà", sperimentato come sentimento di colpa e come
angoscia morale. La civiltà è costruita sulla rinuncia pulsionale proprio
perché il Super-Io si forma sulla base dei divieti e delle sanzioni del mondo
esterno, interiorizzato appunto come istanza psichica la cui intensità è
proporzionale alla forza stessa delle pulsioni (vedi Caprara, 1981, p. 193).
Le posizioni di alcuni autori successivi a Freud
Tanti sono gli autori di matrice
psicoanalitica che si sono occupati della emozione aggressiva nell'uomo. Qui
accenneremo brevemente ad alcuni di essi, per darne un panorama sintetico,
senza la pretesa di completezza e ben consapevoli di ometterne tanti che meriterebbero
attenzione. Prenderemo in considerazione Alfred Adler, Anna Freud, Melanie
Klein, Wilhelm Reich, Otto Fenichel, Heinz Hartmann, Erich Fromm, Heinz Kohut,
Otto Kernberg, Joseph Lichtenberg, Drew Westen, e Peter Fonagy.
Alfred Adler
Tra i primi dissidenti del
movimento psicoanalitico (Jung, Adler, Rank, Stekel), fu sicuramente Adler, a
cui si è accennato anche prima, quello che fece una riflessione attenta sulla
aggressività. Adler (1912, 1956) parte dal concetto di "inferiorità
d'organo" per poi arrivare ad una teorizzazione più generale sulla genesi
della aggressività come reazione alla frustrazione. La inferiorità d'organo si
presenta nel caso di oggettive inferiorità fisiche o handicap, ma dato che la
condizione di dipendenza e di immaturità nell'infanzia appartiene a tutti gli
individui, i sentimenti d'inferiorità ed insicurezza che ne derivano
agirebbero, in termini psicologici, come una motivazione costante che mira a
ricercare, nelle parole di Adler, una "compensazione". Adler usa
anche i termini di protesta virile, aspirazione alla superiorità, o volontà di
potenza, per rappresentare le spinte che premono per un superamento della
propria naturale inadeguatezza. Queste spinte dunque non vengono concepite come
pulsioni o istinti, ma come reazioni alla frustrazione, vista come una
esperienza di privazione che ha un ruolo determinante nel comportamento
aggressivo. La compensazione che ne consegue è quindi adattiva, e la Psicologia
Individuale di Adler si potrebbe configurare, in un certo senso, come
antesignana della Psicologia dell'Io che svilupperà poi Hartmann (1937, 1964;
Hartmann, Kris & Loewenstein, 1949, 1964; ecc.).
Anna Freud
Anna Freud (1949a, 1949b, 1972)
si è occupata dell'aggressività, aderendo alla concezione duale delle pulsioni
proposta dal padre. Qui accenneremo brevemente alle sue intuizioni su una delle
modalità di produzione dell'aggressività, la "identificazione con
l'aggressore", descritta nel suo noto libro del 1936 L'io e i meccanismi
di difesa: in modo per così dire preventivo, quindi per difendersi dal dolore,
il soggetto può identificarsi con la persona da cui si aspetta di essere
aggredito. Anche nel gioco, osserva Anna Freud (1936), si può vedere come
l'immedesimarsi da parte del bambino in un oggetto temuto riesce a trasformare
l'angoscia in una attività piacevole. In questa identificazione difensiva, come
peraltro in quasi tutte le difese, operano simultaneamente, a grappolo, vari
altri meccanismi di difesa: in questo caso la negazione (di una realtà esterna spiacevole,
l'aggressione) e la rimozione (di un sentimento interno spiacevole, l'ansia o
la paura). La inversione dei ruoli da passivo in attivo, del resto, fu
descritta dettagliatamente anche da S. Freud in Al di là del principio di
piacere (1920), quando disse che il bambino, dopo aver subìto passivamente una
esperienza spiacevole o traumatica (ad esempio una visita dentistica), in
seguito può ripeterla attivamente, sottoponendo compiaciuto lo stesso
trattamento a un suo compagno di giochi. Un simile meccanismo era stato
descritto bene da S. Freud (1920) nel famoso "gioco del rocchetto",
dove il nipote di Freud, esposto a separazioni dalla madre per lui dolorose,
invertiva i ruoli nel gioco allontanando volutamente e più volte da se un
rocchetto (al grido di "Fort! Da!" [Via! Qui!]) per poi gioire sempre
nel recuperarlo, padroneggiando più volte la situazione in questa riedizione
capovolta del trauma subìto. Anna Freud, elaborando questi temi, spiega bene
come questi meccanismi siano normali e al servizio dello sviluppo (ad esempio
per il padroneggiamento [mastering]), così pure come possano sconfinare nella
patologia: ad esempio quando l'identificazione con l'aggressore può
rappresentare uno stadio intermedio verso lo sviluppo della paranoia, in cui la
colpa viene sistematicamente proiettata all'esterno, così che la costante
aggressività verso gli altri ha una importante funzione rassicurante per il
soggetto. In questo senso, il meccanismo della paranoia, già identificato da S.
Freud (1910) nel caso del presidente Schreber, può essere alla base di molti
casi di comportamento aggressivo, con patogenesi ben studiate anche al di fuori
della psicoanalisi (si pensi solo alla teoria del capro espiatorio, che può
spiegare innumerevoli casi di violenza nella storia dell'umanità).
Melanie Klein
Melanie Klein elabora le
intuizioni di Abraham (1924) sui primi stadi dello sviluppo infantile, in
particolare sulla fase "sadico-orale" (quindi con aspetti
cannibaleschi) e sulle prime soddisfazioni e frustrazioni. La Klein sottolinea
il ruolo degli impulsi distruttivi del bambino, mostrando come questi
contribuirebbero all'anticipata comparsa del Super-Io e quindi anche dell'Io
infantile che deve contenere e proiettare verso l'esterno una originaria
autodistruttività. Le precoci esperienze di frustrazione possono associarsi ad
un aumento delle pulsioni sadiche. Nella teoria kleiniana troviamo quindi un
costante riferimento ad una precocissima distruttività, a fantasie arcaiche di
sadismo orale, uretrale, anale, di distruzione e di annientamento, da cui il bambino
deve proteggere anche se stesso. Questi concetti, e soprattutto quello di
pulsione di morte, vengono spesso usati per spiegare tutto ciò che si oppone
alla vita, sono vere e proprie forze distruttrici e produttrici di angoscia.
Come nota Fornaro (1988, pp. 208-209), la pulsione di morte nella Klein non
viene vista tanto in termini energetici o economici, quanto come
"fantasia", ad esempio fantasia di fusione, divoramento, inglobamento
e annullamento dell'oggetto, paura di distruggere e di essere a propria volta
divorati e distrutti, e così via. Affascinanti appaiono a volte le intuizioni
cliniche kleiniane a proposito di questa forza negativa, di questo
"male" interiore che per esempio può sollevare molto il paziente
nella misura in cui viene "proiettato" all'esterno oppure solamente
esiste oggettivamente un male esterno o un nemico da dover combattere (Migone,
1996).
Naturalmente sono state mosse
molte critiche al pensiero della Klein, dato che pare alquanto improbabile che
siano presenti nel bambino, soprattutto ai primi mesi di vita, fantasie così
differenziate (ambivalenza, invidia, ecc.). Rapaport (1958), ad esempio, a suo
tempo parlò di una "mitologia dell'Es" a proposito della Klein, altri
parlarono di adultomorfismo, e le critiche si sono accentuate nei tempi
recenti.
La Klein quindi fu all'opposto di
coloro che concepirono l'aggressività come reazione alla frustrazione, per lei
la pulsione aggressiva era innata, primaria, originata da un istinto di morte
con cui si deve sempre fare i conti. Anche vari autori non kleiniani hanno
ritenuto di aderire ad un concetto di pulsione di morte per rendere conto a
livello clinico di comportamenti psicopatologici altrimenti non facilmente
spiegabili, e tra questi si possono includere, tra i tanti, Alexander (1929),
Federn (1932), E. Weiss (1935) e Menninger (1938). L'ipotesi dell'aggressività
come reazione alla frustrazione, già avanzata da Freud, fu ripresa invece, tra
gli altri, da Wilhelm Reich e da Fenichel.
Wilhelm Reich
Per W. Reich (1933) l'aggressività,
l'invidia, l'odio, e altre manifestazioni simili sono secondarie a una
frustrazione della libido, non primarie. Non è assolutamente necessario per
Reich ricorrere al concetto di pulsione di morte, cioè ricercare nella natura
le colpe che invece appartengono alle costrizioni di una determinata società
repressiva e violenta (come è noto, Reich intrecciava le sue idee
psicoanalitiche con un discorso di trasformazione della società in senso
socialista, che la liberasse dalla oppressione capitalista). Per Reich è
importante capire in che modo i bisogni fondamentali dell'uomo vengono
frustrati dalla società e come possono invece essere soddisfatti. L'angoscia
nasce dall'energia libidica non scaricata appunto per le costrizioni sociali,
secondo un modello idraulico della libido. Un individuo maturo, cioè con un
carattere genitale, ha una vita sessuale soddisfacente, mentre nella evoluzione
dell'umanità l'aggressività, la distruttività, l'angoscia ecc., così come le
"corazze caratteriali" rigide e inibite, sono il prodotto di una
progressiva limitazione sessuale causata dalla repressione sociale. Siamo
quindi in piena teoria dell'aggressività come reazione alla frustrazione.
Otto Fenichel
Anche Otto Fenichel (pure lui -
come W. Reich, e come anche A. Adler - appartenente al gruppo di analisti
impegnati socialmente, assieme ad Annie Reich, Edith Jacobson, ecc., cioè
sensibili ad una potenzialità liberatrice della psicoanalisi in senso
politico-sociale) vede l'aggressività come reattiva e non come primaria, e nega
l'esistenza di un istinto di morte. Sentiamo cosa scrive nel suo noto Trattato
di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi, del 1945:
Naturalmente non si può negare
l'esistenza e l'importanza degli impulsi aggressivi. Ma non possiamo provare
che essi sempre e necessariamente appaiono per l'esteriorizzarsi di esigenze
autodistruttive ancor più antiche. Forse l'aggressività, in origine, non era
uno scopo istintivo in sé, caratterizzante una categoria di istinti, in
contraddizione con altri, ma piuttosto un modo di lottare degli scopi istintivi
contro disillusioni, o perfino spontaneamente. E' tanto probabile tentare di
raggiungere la meta tramite la distruzione quanto più primitivo è il livello di
maturazione dell'organismo, forse a causa di una tolleranza delle tensioni
insufficientemente sviluppata (Fenichel, 1945, p. 73).
La distruttività quindi per
Fenichel non è necessariamente intenzionale e specifica, quanto una reazione
che può risultare poi inadeguata. La volontà di distruggere e la sua
consapevolezza, cioè la vera aggressività, è una acquisizione secondaria:
Non soltanto l'amore ma anche
l'odio presuppone una completa coscienza dell'oggetto, capacità che non si
riscontra nei bambini piccoli. Questi distruggono gli oggetti, spingono ed
urtano altri bambini e così via, probabilmente non perché abbiano una tendenza
positiva a distruggere, ma perché non se ne curano; il loro interesse per gli
oggetti è limitato alla possibilità che questi hanno di essere fonti di
soddisfazioni o potenziali minacce, non è un piacere positivo di distruggere.
La distruzione come scopo è di un tempo più maturo, o forse è un mezzo per
ottenerne altri (come una qualità con la quale si persegue uno scopo nel caso
di difficoltà o disillusioni) e poi apparirà, in seguito, come scopo in se
stesso (Fenichel, 1945, pp. 102-103).
Il bambino quindi secondo
Fenichel cerca solo di evitare un disagio, non di essere in prima istanza
aggressivo. Anche il masochismo può essere visto in questa luce: la ricerca del
dolore può in certi casi essere il male minore per evitare un danno maggiore o
per controllare l'angoscia. Con riflessioni cliniche che paiono anticipare le
intuizioni di un Kuhut (1971, 1972, 1977), Fenichel mette al centro della
motivazione bisogni di sicurezza e di autostima, e certe modalità di rapporto
con l'ambiente e di soddisfazione dei propri bisogni che vengono poi
consolidate, laddove l'aggressività è sempre il fallimento di un rapporto o di
un obiettivo desiderato.
Sulla linea di Fenichel si
schierano anche tanti altri: Gillespie (1971) e Leo Stone (1971), che parteciparono
al dibattito sull'aggressività (Lussier, 1972; Kestemberg, 1972) a cui fu quasi
totalmente dedicato il 27° congresso della International Psychoanalytic
Association (IPA) di Vienna del 1971, dibattito a cui parteciparono anche
Brenner (1971), Eissler (1971), Rosenfeld (1971), Gaddini (1972), Rangell
(1972), Parens (1973), Solnit (1972), ecc.; gli autori "culturalisti"
come Kardiner (1939), che fanno notare il semplice fatto che esistono anche
culture e popoli non violenti; Fromm (1973), che vedremo più in dettaglio, e
gli psicoanalisti interpersonali o neofreudiani negli Stati Uniti (Sullivan,
Fromm-Reichmann, Horney, Thompson, ecc.); gli "intersoggettivisti"
come Stolorow, Brandchaft & Atwood (1987) che ad esempio vedono
l'aggressività del borderline come una legittima risposta a incomprensioni da
parte del terapeuta; Fairbairn (1954) e Guntrip (1968), della scuola inglese,
che concepiscono la aggressività come una reazione alla mancanza di
gratificazione della "ricerca dell'oggetto" da parte del bambino
(object-seeking); Bowlby (1973) e gli autori che lo hanno seguito nella feconda
linea di ricerca sulla teoria dell'attaccamento (vedi ad esempio de Zulueta,
1993); anche Kohut (1972) e il movimento della Psicologia del Sé, a partire
dalla tradizione ortodossa (ma poi per prenderne le distanze), come vedremo,
segue una strada simile; e così via. La linea teorica ortodossa è invece
continuata da Hartmann e dalla sua Psicologia dell'Io.
Heinz Hartmann
Hartmann, Kris & Loewenstein
(1949), i padri della Psicologia dell'Io e quindi continuatori della tradizione
ortodossa in psicoanalisi, riprendono l'ipotesi di una pulsione aggressiva
primaria così come fu formulata dall'ultimo Freud, e le attribuiscono pari
dignità di quella libidica in una sorta di parallelismo tra le due pulsioni. A
differenza della Klein, però, che la concepiva come derivata dall'istinto di
morte e quindi anche persecutoria, Hartmann, Kris & Loewenstein la
concepiscono come una forza propulsiva diretta verso l'esterno, paragonabile
appunto a quella della libido (vedi Mitchell, 1993, pp. 355-356). In un
notevole sforzo speculativo, essi sostengono che all'origine dello sviluppo il
dualismo pulsionale possa non essere evidente, poiché le pulsioni libidiche e
aggressive non sarebbero differenziate (vedi il concetto di "impasto
pulsionale"), poi mano a mano esse si separano, ciascuno con una propria
carica energetica. Dal punto di vista dinamico e strutturale, la maggior
plasticità della pulsione aggressiva rispetto a quella libidica induce questi
psicologi dell'Io ad assegnarle un'importanza sempre maggiore nella formazione
e nel funzionamento dell'Io e del Super-Io. Infatti viene postulata l'esistenza
di processi di neutralizzazione dell'aggressività e di controinvestimento, i
quali concorrono al consolidamento dell'Io e del Super-Io come strutture
autonome e provvedono loro l'energia necessaria per funzionare autonomamente.
Siamo in piena metapsicologia,
come si può ben vedere, in un programma di elaborazione coerente del progetto
teorico freudiano. Vediamo, a questo riguardo, come viene teorizzata da
Hartmann, Kris & Loewenstein la genesi delle tendenze etero- ed
auto-aggressive:
Il controinvestimento sembra
essere un modo tipico di impiego dell'aggressività (una trasformazione
dell'aggressività) per i fini dell'Io. A servizio dell'Io può essere utilizzata
l'aggressività libera se la capacità di neutralizzazione è intatta. Se invece è
menomata, non solo saranno pregiudicati i meccanismi di difesa, e quindi reso
più difficoltoso il controllo delle pulsioni, ma sarà anche accresciuta, per
effetto del libero fluire dell'energia aggressiva pulsionale che in precedenza
era stata neutralizzata nel controinvestimento, la forza relativa delle
pulsioni nei confronti dell'Io. Questa energia libera può quindi essere rivolta
contro l'esterno. Contro di esso possono anche essere diretti tutti i tipi di
tentativi di difesa che operano al più basso livello di integrazione, come la
proiezione e altri. Una parte di quest'energia può essere rivolta contro di Sé
e, in certe condizioni, può favorire l'autodistruzione (Hartmann, Kris &
Loewenstein, 1964, p. 214).
Queste argomentazioni
metapsicologiche presteranno il fianco alle critiche da parte degli ex-allievi
di Rapaport, in primis Holt (1965), poi G.S. Klein (1976), Gill (1976, 1977),
Schafer (1976), ecc., e dopo, a valanga, di tanti altri tra cui Ellenberger
(1970), Sulloway (1979), e così via. Al di fuori della psicoanalisi, esse
avevano scatenato le accuse di infalsificabilità di Popper, tacciando di pseudoscienza
proprio quella che per Hartmann, Rapaport e gli altri psicologi dell'Io voleva
essere proprio la costruzione di un edificio scientifico per la psicoanalisi.
In particolare, venne ritenuto discutibile il concetto di neutralizzazione,
poiché amplia molto, troppo, le trasformazioni dell'aggressività in fenomeni
clinici quali produttività, creatività, autoaffermazione, e così via,
allargando pericolosamente il divario tra teoria e clinica.
Erich Fromm
Un altro psicoanalista che si è
interessato all'aggressività differenziando la sua posizione da quella
freudiana è Fromm. Nel libro Anatomia della distruttività umanaFromm (1973)
sostiene che esiste un'alternativa alla teoria istintivistica e a quella
comportamentistica. Fromm distingue nell'uomo due tipi completamente diversi di
aggressività. Il primo, che l'uomo ha in comune con gli animali, è l'impulso
programmato filogeneticamente di attaccare o di fuggire quando sono minacciati
i suoi interessi vitali; questa "aggressività difensiva" o
"benigna" è al servizio della sopravvivenza della specie, è
biologicamente adattiva, e si disattiva quando viene a mancare l'aggressione.
L'altro tipo, che chiama "aggressività maligna", e cioè la crudeltà e
la distruttività, è specifica della specie umana e praticamente assente nella
maggior parte dei mammiferi; non è programmata filogeneticamente e non è
biologicamente adattiva; non ha alcuno scopo e, se soddisfatta, procura
piacere; è interpretata da Fromm come patologia caratteriale, dissentendo
dunque dalla teoria freudiana dell'aggressività.
Heinz Kohut
Kohut, lo studioso del narcisismo
e il padre dell'importante movimento della Psicologia del Sé (la cui cornice
teorica ha fatto poi da sfondo a tutta la recente infant research a cui
accenneremo dopo), è stato sempre attento alle dinamiche dell'aggressività, in
particolare della "rabbia narcisistica". Non è certo questa la sede
per esporre in dettaglio il pensiero di questo complesso autore sulla tematica
del narcisismo, ma per avvicinarsi a capire il suo modo di concepire la
pulsione aggressiva si può citare un episodio significativo che Kohut racconta
nel saggio Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica, del 1972. Kohut
(ibid., p. 136) ricorda che una volta Freud (1932, p. 177) criticò la tesi di
un biografo di Guglielmo II che aveva seguito le idee di Adler
nell'interpretare la sua tendenza ad offendersi e a ricorrere alla guerra.
Guglielmo II era nato con un braccio deforme, e quel biografo ipotizzò una sua
ferita narcisistica cronica come reazione a un senso di "inferiorità
d'organo", reazione responsabile del suo carattere vendicavo e
possibilmente anche dello scoppio della prima guerra mondiale. Secondo Freud
invece questa interpretazione non era assolutamente corretta, poiché la ferita
narcisistica non era il trauma di nascere con un braccio deforme, ma il rifiuto
di lui da parte della sua orgogliosa madre che non poteva tollerare di avere un
figlio imperfetto. Kohut naturalmente concorda con questa osservazione di
Freud. Secondo Kohut, infatti, il fattore chiave per un sano sviluppo emotivo è
il rispecchiamento empatico della madre (che è l'oggetto-Sé [self-object]) nei
confronti del bambino, la sua approvazione ed ammirazione, fattori che
permettono la trasformazione dell'investimento narcisistico del Sé grandioso ed
esibizionistico arcaico (tramite quella che lui chiama "internalizzazione
trasmutante") in modo tale da poter integrare la grandiosità e
l'esibizionismo arcaici nel resto della organizzazione psichica: "Io credo
che la distruttività umana, come fenomeno psicologico, sia secondaria; che essa
sorga originariamente come fallimento da parte dell'ambiente oggetto-Sé di
venire incontro ai bisogni empatici ottimali da parte del bambino" (Kohut,
1977, p. 116 ed. or.). Se vi è dunque un mancato rispecchiamento empatico da
parte dell'oggetto-Sé, si crea una "scissione verticale" nella
psiche, per cui il Sé arcaico grandioso-esibizionistico rimarrà latente e potrà
a tratti rompere le difese e paralizzare l'Io con sensi di vergogna e rabbia
intense. Sono insomma questi sentimenti arcaici che permangono in settori
scissi della psiche quelli responsabili, secondo Kohut, di altrettanto arcaiche
e primitive manifestazioni difensive di odio, aggressività o rabbia in
occasione di determinate ferite narcisistiche. Del resto, questo è ben noto
anche da studi di psicologia non psicoanalitica: ad esempio James Gilligan
(1997, 2002), un noto studioso di psichiatria forense e dei fenomeni di
terrorismo, ha intervistato molti detenuti autori di omicidi, violenze o atti
terroristici e ha regolarmente trovato in essi un profondo senso di
umiliazione, vergogna e minaccia alla identità personale come motivazione
fondamentale a compiere gesti gravi anche senza alcun riguardo per le
conseguenze penali.
Otto Kernberg
Kernberg (un autore che, tra
l'altro, si è contrapposto a Kohut nella interpretazione del narcisismo) non
solo ha studiato a fondo le dinamiche dell'aggressività (Kernberg, 1984, 1992)
ma, da una prospettiva classica, ha anche proposto una revisione della teoria
psicoanalitica delle pulsioni che si propone di integrare le teorie
psicoanalitiche degli affetti e delle relazioni oggettuali. Kernberg (1982,
2001), con la sua revisione teoria, cerca di mantenersi equidistante sia da
coloro che propongono di sostituire semplicemente le pulsioni con gli affetti,
sia da coloro che scelgono di rimanere ancorati alla teoria tradizionale delle
pulsioni. I primi rischiano di "accentuare gli aspetti superficiali del
funzionamento inconscio (il ruolo dell'adattamento e la realtà) e di
minimizzare la consapevolezza degli aspetti perturbanti dell'odio primitivo e
della natura primitiva della precoce fantasia inconscia erotica e
sadomasochistica" (Kernberg, 2001, p. 606; vedi anche 1984, pp. 187-189),
mentre i secondi, ignorando la importante influenza delle relazioni oggettuali
e degli affetti, impoveriscono la comprensione clinica "relegando le
pulsioni a strutture mitiche" (ibid.), ereditate filogeneticamente e
responsabili delle fantasie primarie (allo stesso modo con cui Lacan ha
paragonato l'inconscio alla struttura di una lingua naturale). Kernberg quindi,
con questa posizione di compromesso, se da una parte ribadisce il ruolo delle
pulsioni, dall'altra sottolinea la straordinaria importanza degli affetti come
modalità comunicativa tra madre e bambino: sono le tonalità emotive, positive e
negative, quelle che poi si cristallizzeranno come sistemi motivazionali o
"pulsioni" libidiche e aggressive, per cui Kernberg dà al concetto di
pulsione un significato diverso da quello dato da Freud. Nella sua "teoria
delle relazioni oggettuali" (Kernberg, 1975, 1976, 1980; vedi Migone,
1991, 1995 pp. 147-150), le tonalità affettive sono quelle che cementano le
rapppresentazioni del Sé e dell'oggetto in unità che vanno a costruire il mondo
rappresentazionale e poi si consolidano nella struttura tripartita (Io, Es e
Super-Io). Questa proposta quindi vorrebbe dimostrare la falsità della
dicotomia tra teoria delle pulsioni (psicoanalisi classica) e teoria delle
relazioni oggettuali (psicoanalisi relazionale o interpersonale). La posizione
di Kernberg, come vedremo, non è affatto incompatibile con quella di Westen
(1997a), che tratteremo in seguito, che propone un modello per certi versi
simile ma più ancorato alla recente ricerca neurobiologica e cognitiva.
Joseph Lichtenberg
Cruciale nella revisione della
teoria psicoanalitica della motivazione, e quindi di una teoria della pulsione
aggressiva, è stato l'apporto della ricerca in campo infantile, la cosiddetta
infant reseach, i cui gli autori più noti sono Stern, Lichtenberg, Emde,
Greenspan, Beebe, Lachmann, ecc., in genere tutti nordamericani. I limiti di un
modello della mente umana, fondamentalmente monadica e interessata alla mera
soddisfazione tramite scarica pulsionale, già evidenziati da vari autori a
livello teorico e dietro alla spinta del lavoro clinico, sono diventai ancor
più evidenti e supportati dai dati empirici, dove si è dimostrata una
progressiva apertura alle spinte motivazionali plurime, con uno spostamento di
enfasi sull'importanza dei rapporti interpersonali fin dalle prime fasi dello
sviluppo.
Lichtenberg (1983, 1989) è uno
degli autori che hanno compiuto un importante passo avanti in questo lavoro di
confronto e di sistematizzazione fra clinica e ricerca, nella sua elaborazione
di una teoria della motivazione strutturata. La tesi di Lichtenberg (1989) è
che la motivazione sia meglio concettualizzabile come una serie di sistemi
volti a promuovere la realizzazione e la regolazione di bisogni di base. Egli
ha delineato cinque sistemi motivazionali (e vedremo in che modo l'aggressività
può essere rappresentata all'interno di essi), ognuno con probabili correlati
neurofisiologici distinti, costruito intorno ad un bisogno fondamentale, basato
su comportamenti chiaramente osservabili che iniziano nel periodo neonatale.
Nel corso dell'infanzia ogni sistema motivazionale contribuisce alla
regolazione del Sé, in interazioni regolate reciprocamente con le persone che
si prendono cura del bambino. Momento per momento, l'attività di ognuno dei
sistemi può intensificarsi tanto da costituire l'aspetto motivazionale
prevalente de Sé, e più sistemi possono attivarsi simultaneamente, proprio come
note di un pentagramma musicale. I cinque sistemi motivazionali sono i
seguenti: 1) il bisogno di regolazione fisica di esigenze fisiologiche; 2) il
bisogno di attaccamento-affiliazione; 3) il bisogno esplorativo-assertivo; 4)
il bisogno di reagire avversivamente attraverso l'antagonismo o il ritiro; 5)
il bisogno di piacere sensuale e di eccitazione sessuale.
Parrebbe quindi che una spinta
aggressiva possa essere rappresentata all'interno del quarto sistema, quello
"avversivo", che - precisa Lichtenberg - permette al bambino di
imparare ad utilizzare la rabbia in modo adattivo, a rispondere avversivamente
al pericolo, e ad impegnarsi nelle controversie e a risolverle. Questo sistema
produce risposte che possono ricadere in due grandi categorie, quella
dell'antagonismo e quella del ritiro, ed è possibile differenziare nel bambino
emozioni o situazioni che stimolano l'uno o l'altro dei due comportamenti; i
due affetti di questo sistema sono la rabbia e la paura, "detonatori"
rispettivamente dell'antagonismo e del ritiro. A prima vista, potremmo meglio
identificare la pulsione aggressiva nel primo di questi due sottosistemi,
quello deputato all'antagonismo, ma va ricordato che il sistema avversivo per
Lichtenberg presenta una differenza dagli altri quattro sistemi motivazionali.
Mentre negli altri sistemi lo scopo dell'azione è quello di ricreare una
emozione piacevole sperimentata in precedenza, nel sistema avversivo il bambino
non cerca di risperimentare pianto, rabbia, disgusto ecc., ma "nel cercare
di alleviare la sofferenza che può presentarsi in ognuno degli altri
sistemi" (Lichtenberg, 1989, p. 224). Il sistema avversivo quindi
permetterebbe non solo di scaricare una eventuale tensione accumulata, ma
servirebbe anche come segnale per richiamare l'attenzione delcaregiver e
soddisfare meglio i bisogni degli altri sistemi motivazionali (vedi Lingiardi
& Gazzillo, 2001, p. 95). In questo senso, sembra che anche per Lichtenberg
non sussista una pulsione aggressiva autonoma, fine a se stessa, il che
peraltro è coerente con la matrice teorica sposata da Lichtenberg, quella della
psicologia del Sé.
Drew Westen
Westen è uno psicoanalista ricercatore
nordamericano metodologicamente molto sofisticato ed attento alla ricerca
accademica in vari campi, come la psicologia piagetiana e neopiagetiana,
comportamentista, cognitivista, neurofisiologica, ed evoluzionista (vedi ad
esempio Westen, 1999). Recentemente ha abbozzato una teoria della motivazione
basata sulla contemporanea teoria degli affetti. Nel lavoro Towards a
clinically and empirically sound theory of motivation (Westen, 1997a) critica
la tendenza degli psicoanalisti a postulare l'esistenza di ampi e relativamente
pochi sistemi motivazionali (ad esempio la libido, l'aggressività e
l'attaccamento) coi quali si pretende di spiegare comportamenti molto diversi
tra loro senza specificare quali siano gli stimoli attivanti questi sistemi
motivazionali. E' indispensabile infatti, affinché un sistema motivazionale si
manifesti, che esso venga attivato in modo specifico, poiché "la selezione
naturale opera al livello di meccanismi specifici attivati da stimoli precisi,
e non al livello di ampi obiettivi istintuali; questi ultimi sono costrutti
selezionati dai teorici, non dalla natura" (Westen, 1997a, p. 527). Come
sintetizzano bene Lingiardi & Gazzillo (2001, pp. 86-91), il modello
motivazionale di Westen può essere riassunto in questo modo: una storia di
associazioni apprese tra alcune rappresentazioni e specifici stati emotivi
determina l'esperienza di uno o più affetti, i quali motivano l'individuo alla
azione secondo il principio della ricerca del piacere e dell'evitamento del
dispiacere. Ne possono scaturire altri affetti che, a seconda che siano
piacevoli o spiacevoli, rinforzano positivamente o negativamente i
comportamenti e i processi cognitivi che li hanno determinati, come postulato
dalle leggi del condizionamento operante di Skinner o dalla legge dell'effetto
di Thorndike. Nelle parole di Westen, quindi, gli affetti possono essere
definiti come
meccanismi per la ritenzione
selettiva di riposte comportamentali e mentali, incluse difese, formazioni di
compromesso e strategie consce di coping. Gli affetti in quanto motivazioni
hanno una "base biologica" come le pulsioni della teoria classica,
dato che si sono evoluti come soluzioni a problemi dell'adattamento, e le
strutture neurali che li mediano sono registrate nel nostro DNA; ma forniscono
un meccanismo flessibile per la motivazione umana, associandosi, tramite
l'esperienza, con rappresentazioni di stati percepiti, temuti, desiderati, o
valorizzati in altro modo (Westen, 1997a, p. 542).
Per Westen (1997a, 1997b) dunque
all'apice della gerarchia della motivazione vi sarebbe semplicemente il
principio della ricerca del piacere e dell'evitamento del dispiacere, per cui
non vi sarebbe assolutamente bisogno di postulare una pulsione aggressiva, e
neppure di postulare, come fa Lichtenberg, un sistema avversivo a se stante,
poiché il quarto e il quinto dei sistemi motivazionali della teoria di Lichtenberg
(cioè quelli che con Westen possiamo chiamare l'evitamento del dolore e la
ricerca del piacere) costituiscono il meccanismo di base della motivazione tout
court. Westen inoltre critica l'idea di Lichtenberg, tradizionalmente
psicoanalitica, secondo cui le motivazioni si originerebbero solo
nell'infanzia, in quanto ciò è un assunto non dimostrato empiricamente (anzi, è
dimostrato che esperienze successive possono avere un ruolo importante), e
critica anche la miscellanea di concetti - per Westen poco chiara - presi dalla
psicologia del Sé e dal modello di Stern (1985) che stanno alla base
dell'approccio di Lichtenberg.
Peter Fonagy
Fonagy, uno psicoanalista
londinese che ha compiuto importanti studi sulla teoria dell'attaccamento, ha
proposto una eziopatogenesi dell'aggressività e della violenza come conseguenza
di un mancato sviluppo di quella che lui chiama "funzione
riflessiva", detta anche funzione metacognitiva, cioè della capacità del
bambino di costruire una "teoria della mente" propria ed altrui. Il
bambino svilupperebbe due aspetti del Sé in successione (Fonagy, Moran &
Target, 1993; Fonagy & Target, 1993-2000): dapprima si formerebbe un
"Sé pre-riflessivo o fisico" che sperimenta il mondo in modo
immediato, concreto, e in seguito un "Sé riflessivo o psicologico",
capace di vedere sé stesso e il mondo oggettuale alla luce di sentimenti,
credenze, intenzioni e desideri, e di riflettere sull'esperienza in termini
psicologici. Il Sé pre-riflessivo è presente in una forma primitiva dalla nascita
e si sviluppa completamente attorno ai sei mesi (Stern, 1985), mentre il Sé
riflessivo (quello che sarà responsabile della funzione riflessiva) evolve
lentamente nei primi due anni di vita.
Uno degli aspetti più
interessanti delle ricerche di Fonagy è quello di aver mostrato come il Sé
riflessivo, e quindi la funzione metacognitiva, sia un importante fattore
protettivo nei confronti della comparsa di comportamenti aggressivi (e anche di
psicopatologia adulta, soprattutto di tipo borderline [Fonagy, 1991, 1996]).
Inoltre Fonagy ha dimostrato che lo sviluppo della funzione riflessiva dipende
in modo specifico dalla capacità della madre di riconoscere e comprendere gli
stati mentali del bambino, il suo mondo interno, cioè i suoi sentimenti,
pensieri, desideri e intenzioni. Il caregiver quindi, affinché si sviluppi
appieno questa importante funzione nel bambino, dovrebbe saper fungere da
specchio, mostrando di comprendere gli stati intenzionali del bambino: è solo
così che il bambino impara a leggere i propri stati mentali e anche quelli
degli altri.
Ma in che modo la deficitaria
formazione della funzione riflessiva nel bambino costituisce un fattore di
rischio per lo sviluppo dell'aggressività? E' la mancanza di mentalizzazione,
cioè di strutture psichiche adeguate che gli permettano di comprendere se
stesso e le intenzioni degli altri, quella che può spingere il bambino ad usare
il corpo, e quindi anche l'aggressività, come se in un certo senso il corpo
prendesse il posto della mente (Fonagy, Moran & Target, 1993). Non solo, ma
se il bambino viene maltrattato o trascurato può non potersi permettere di
pensare che nella mente dei suoi genitori, cioè delle sue figure di
attaccamento delle quali ha un profondo bisogno, alberghino intenzioni cattive
nei suoi confronti, per cui può non sentirsi sicuro nel rappresentarsi
mentalmente i pensieri del caregiver nei suoi confronti o in generale nel
vedere le persone nell'atto di pensare (è dimostrata, tra l'altro, una
correlazione tra lo sviluppo della funzione riflessiva e un attaccamento
sicuro, nel senso che quest'ultimo, a differenza di altri stili di
attaccamento, ne permette la crescita). Se invece un bambino viene trascurato
dalla propria madre ma possiede una adeguata funzione riflessiva, può pensare
che la madre non ha intenzioni negative nei suoi confronti (con tutte le
conseguenze che ne deriverebbero), ma che, ad esempio, "è depressa" o
"è presa da un altro problema" (come hanno mostrato varie ricerche,
ad esempio quelle di Liotti [1992, 1994, 2001], spesso un fattore di
distrazione che impedisce alla madre di prestare la necessaria attenzione
emotiva al proprio figlio, e che quindi può interferire nella propria funzione
riflessiva, è un lutto o una perdita subita nel periodo della nascita del
figlio stesso).
Le intuizioni cliniche su cui le
ricerche di Fonagy si basano sono state anticipate in passato da vari autori,
con accenti diversi, tra cui i seguenti: Bion (1962, 1963), coi concetti di
rêverie, della funzione della madre come "contenitore" e del ruolo
della identificazione proiettiva (vedi Migone, 1988, 1995 cap. 7); Winnicott
(1971), con il concetto di "identificazioni incrociate" tra madre e
bambino; Loewald (1978), quando suggeriva che la riflessione su di sé fosse
basata sull'internalizzazione del gioco di specchi della diade madre-bambino;
la Fraiberg (1982), quando parlava delle strategie difensive primitive
infantili di evitamento e aggressività; e così via. Quello che differenzia
Fonagy da altri psicoanalisti non è solo la sua maggiore sistematizzazione teorica,
ma soprattutto il fatto che le sue ricerche poggiano su un solido impianto
sperimentale e sul vasto corpus di conoscenze e di studi accademici che fanno
capo alla teoria dell'attaccamento fondata da Bolwby e sviluppata poi dalla
Ainsworth (soprattutto per quanto riguarda gli stili di attaccamento) e dalla
Main (soprattutto per quanto riguarda quelli che Bowlby chiamava "modelli
operativi interni" o internal working models [IWM]).
Conclusioni
Una rivisitazione storica delle
ipotesi psicoanalitiche sulla emozione aggressiva è molto difficile perché
corre continuamente il rischio di allargarsi e di includere altri importanti
aspetti, in primis quello della teoria della motivazione e poi immediatamente
quello, ad essa connesso, della teoria della mente. La scelta degli autori
selezionati per questa sintetica rassegna, come si è detto, è stata altamente
arbitraria, e non è possibile neppure citare coloro che sono stati omessi
perché il rischio di trascurarne altri semplicemente aumenterebbe.
E' possibile trarre delle
conclusioni dopo questa carrellata storica di ipotesi psicoanalitiche sulla
origine della emozione aggressiva? L'esistenza di una autonoma pulsione
deputata alla scarica di una aggressività fine a se stessa, e a maggior ragione
di una pulsione di morte o di una aggressività auto-diretta (ed eventualmente
proiettata all'esterno), pare criticata dalla maggioranza degli autori, se non
altro perché difficilmente un tale sistema motivazionale avrebbe potuto
selezionarsi su base evoluzionistica. Del resto, nel "Documento di
Siviglia sulla Violenza" stilato il 16-5-1986 all'Ottavo Congresso
Mondiale della International Society for Research on Aggression dai più
eminenti studiosi dell'aggressività (psicologi, etologi, biologi, sociologi,
antropologi, zoologi, ecc.), si legge: "Non esistono prove che la guerra,
come ogni altro comportamento umano violento, sia frutto di un istinto, di un
programma inscritto nella natura umana".
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