Accogliere pensieri senza pensatore
di Claudio
Neri
La parola “pensiero” è impiegata
solitamente per designare una costruzione o espressione elaborata e
organizzata. Bion la utilizza, invece, per indicare pensieri, fantasie,
emozioni, affetti e perfino azioni che vanno nella direzione della
consapevolezza, della responsabilità e della relazionalità.
Anche i “Pensieri senza
pensatore” vanno in questa direzione e la raggiungono quando un pensatore li
accoglie, ne diviene consapevole, se ne rende responsabile e li porta in una
relazione di coppia o di gruppo.
In questo articolo, l’idea di
“Pensieri senza pensatore” è esaminata dal punto di vista dell’analista e del
terapista di gruppo. L’analista e del terapista di gruppo come possono
accogliere e facilitare l’accoglimento dei pensieri e sentimenti non pensati
che affollano la stanza d’analisi.
Bion
aprì il workshop, tenuto a Roma il 15
luglio 1977, con queste parole:
«Comincerò
pensando che quando ci sono molti individui, ci sono anche molti pensieri senza
pensatore; e che questi pensieri senza pensatore sono, così, nell’aria da
qualche parte.»
I
“pensieri senza pensatore” sono pensieri - ma anche sentimenti - che ancora non
hanno trovato accoglienza nella mente degli individui e che attendono qualcuno
che dia loro forma ed espressione. Essi possono essere pensati, ma anche
rimanere in stand by
fino a quando si presenteranno le condizioni perché qualcuno li ospiti e dia
loro una forma comunicabile. Bion proseguì in questo modo:
«Spero
che qualcuno si possa sentire preparato ad alloggiare questi pensieri o nella
propria mente o nella propria personalità. Mi rendo conto che questa è una
grossa richiesta, perché questi pensieri senza pensatori, pensieri vagabondi,
sono anche potenzialmente pensieri selvaggi […].
A
noi tutti piace che i nostri pensieri siano addomesticati, ci piace che siano
pensieri civilizzati, ben addomesticati, ci piace che siano pensieri razionali.
Ciononostante,
spero che possiate osare di dare a questi pensieri, per quanto irrazionali, un
qualche tipo di alloggio temporaneo. E che poi li vestiate con parole adatte
perché possano esprimersi pubblicamente e possa essere data loro la possibilità
di mostrarsi anche se sembra che non siano molto bene attrezzati.» (1977-1983,
p. 61 dell’edizione
italiana).
1977
Ascoltando
Bion, pensai che ci stava proponendo un radicale cambiamento di prospettiva:
considerare che non fossimo noi (gli individui) a produrre i pensieri e le
fantasie, ma che questi potessero intercettare la nostra mente, superando la
barriera emotiva ed intellettuale, che noi stessi e la società frapponevano al
loro accesso.
Proponendoci
di ospitare i “pensieri senza pensatore”, Bion non ci proponeva di svelare un
significato latente, ma di dare inizio ad una catena di trasformazioni, che si
sarebbe messa in moto nel momento in cui un “pensiero senza pensatore” fosse
stato accolto. In tale prospettiva, la distinzione tra Inconscio, Preconscio e
Coscienza non era rilevante. I pensieri senza pensatore potevano essere
inconsci, preconsci ed anche pensieri coscienti che nessuno aveva ancora veramente
pensato
La
catena di trasformazioni avviata dall’accoglimento di un pensiero senza
pensatore avrebbe riguardato sia il pensiero, sia chi lo avesse ospitato. La
teoria di Bion, infatti, postula che la mente e la personalità si siano
sviluppate e continuino a svilupparsi per rispondere alla sollecitazione dei
pensieri senza pensatore; più precisamente, per rispondere alla necessità di
trasformarli.
La
funzione (pensare) crea la struttura (l’apparato per pensare i pensieri), non
viceversa. È un’ipotesi originale ed interessante, sia dal punto di vista della
teoria, sia da quello della pratica clinica.
Pensai
che - per rispondere alla sua sollecitazione - io e gli altri partecipanti al workshop
dovessimo semplicemente essere coraggiosi; dovessimo dare voce alle nostre
fantasie anche a quelle più bizzarre, alle nostre teorie più ardite (Neri
1999).
2011
Riflettendo
sulle parole di Bion - a
distanza di anni - ho collegato la sua proposta con un’indicazione tecnica che
mi era stata suggerita da Adda Corti (1976) e che lei stessa aveva
tratto dal rapporto con Melanie Klein ed Hanna Segal.
Adda
Corti - in polemica con una deriva intellettualistica, volta a costruire
complicate ipotesi a proposito della lontana storia infantile dei pazienti - mi
aveva segnalato l’importanza di accogliere ed interpretare, momento per
momento, ciò che emergeva nella seduta e nel transfert.
Il
campo, la “stanza” cui Bion fa riferimento, non sono limitati da coordinate
spazio‑temporali e non coincidono con la gamma di pensieri , sentimenti e
fantasie che danno sostanza al transfert.
I pensieri senza pensatore - sebbene possano incrociare, in un dato
momento e luogo, la mente o la personalità degli individui - appartengono
ad una dimensione illimitata ed infinita. Essi non hanno ancora forma.
Nonostante questa differenza, le analogie tra la proposta di Bion e ciò che
suggeriscono Melanie Klein e gli altri psicoanalisti della sua scuola sono grandi.
Riflettendo
sui Seminari italiani, ho anche
capito meglio ed in modo diverso il senso della richiesta di “accogliere i
pensieri senza pensatore” che Bion ci aveva rivolto in quanto partecipanti al workshop. Allora, nel 1977, la avevo
intesa come invito ad associare liberamente e lasciare emergere tutto ciò che
si presentava alla nostra mente. Adesso mi sembra invece chiaro che Bion avesse
fatto appello al nostro coraggio, ma contemporaneamente anche al nostro senso
di responsabilità ed alla nostra capacità di essere disciplinati.
I
partecipanti al workshop erano tutti psicoanalisti o psicoterapisti di
gruppo. La proposta di Bion conteneva qualcosa che aveva a che fare con lo
specifico della loro professione. Bion, inoltre, ci raccomandava di imparare ad
affrontare il rischio associato al fatto di accogliere pensieri non ancora
pensati. Da questo, dipende la messa in opera di una parte ragguardevole delle
potenzialità terapeutiche e di sviluppo proprie della relazione analitica.
Bion,
inoltre, ci raccomandava di portare attenzione - sia durante il seminario, sia successivamente con i
nostri pazienti - non soltanto alle persone ed alle relazioni che stabilivano
con noi, non soltanto alle loro fantasie, bisogni ed aspirazioni, ma anche e
soprattutto a ciò a cui queste persone erano sottoposte, ciò da cui erano
bombardate ed a cui dovevano rispondere, sviluppando una capacità di pensare o
al contrario rimanendo sopraffatte e paralizzate. Svilupperò questo punto nel
prossimo paragrafo che è dedicato al rapporto tra i concetti di “Pensieri senza
pensatore” e di “O”.
“O”
Se
provo ad immaginare quale potrebbe essere dove si trovano i “Pensieri senza
pensatore” mi viene immediatamente da collocarli nell’aria, in qualche posto
che è sopra la mia testa. Se immagino, invece, una possibile collocazione di “O”
si presenta spontaneamente l’idea di una dimensione che sia al di là (o al di
sotto) della realtà che percepisco con i sensi. Questa differente collocazione contribuisce
a farci apparire questi due concetti diversi tra loro. La differenza però è - in
larga misura - un artefatto, che dipende dalla forza del lingua. le espressioni
che usiamo per designare le nostre esperienze ed i nostri concetti tendono
infatti orientano il modo ed il “luogo” in cui li percepiamo (Sapir 1921 e Worf 1939).
A
mio avviso, invece, le idee di “Pensieri senza pensatore” e di “O” hanno molto
in comune. Bion, infatti, conferisce ai “Pensieri senza pensatore” molte
caratteristiche, che aveva descritto in suoi precedenti scritti attribuendole
ad “O”.
Descriverò
brevemente i concetto di “O” e di “evoluzione in O” perché questo può fare
comprendere meglio alcuni aspetti dei “Pensieri senza pensatore”.
Il
concetto di “O” può essere riportato alla idea di “Cosa in sé” di Kant. “O” si distingue
però dalla “Cosa in sé” perché evolve e la sua evoluzione influenza i soggetti
che si pongono all’unisono con essa (Dazzi 1987).
Per
la sua caratteristica evolutiva, “O” può essere avvicinato al concetto di “Fantasia
inconscia” di Suzan Isaacs (1948).
Suzan
Isaacs considera la Fantasia
inconscia come una rappresentazione psichica delle pulsioni. Considererò qui
soltanto la libido tralasciando di
parlare della pulsione di morte.
Secondo Suzan Isaacs, la libido -
nonostante le sue origini e funzioni siano radicate nel corpo - è attiva sin
dall’inizio della vita anche nella psiche. Più precisamente, la libido prende la forma di una Fantasia
inconscia relativa al mettere in atto qualche tipo di attività orale, anale o
genitale con l’oggetto (il seno, la madre, la coppia dei genitori). Partendo dalla
prima Fantasia inconscia - che è anche una rappresentazione grezza delle
pulsioni - la psiche del bambino progressivamente può dare un ordine a se
stessa, attraverso successive fantasie e meccanismi di proiezione,
introiezione, scissione e denegazione. In tal modo, la psiche stessa riceve
sollievo, rispetto ad esperienze estremamente primitive di terrore e conflitto.
La
caratteristica evolutiva permette di avvicinare “O” - oltre che alla Fantasia
inconscia - anche all’idea di Archetipi. Jung (1940) descrive gli Archetipi
come «forze vitali psichiche che pretendono di essere prese sul serio; e anzi,
nella maniera più singolare, provvedono anche a farsi valere». L’avvicinamento
tra O ed Archetipi mi permette anche di iniziare a dire qualcosa a proposito
del tema centrale dell’articolo: “Accogliere i Pensieri senza pensatore”. Jacobi
(1970), infatti, mette in luce quanto sia importante per la crescita della
personalità dell’individuo affrontare la fatica psichica di accogliere
«contenuti che prorompono […] dal centro più profondo e più oscuro, mai
raggiungibile dalla luce della coscienza.» Questa affermazione è per gli
Archetipi, ma anche per O e per i Pensieri senza pensatore.
Evoluzione in O e Trasformazione
in K
Bion
afferma che O non può essere conosciuto; può soltanto “essere evoluto”. Coniando
questa espressione (“essere evoluto”), Bion vuole sottolineare la possibilità
che la evoluzione di O e quella di chi si è posto all’unisono con O avvenga
senza la necessità che O sia stato fatto oggetto di conoscenza. Anzi un’attività
conoscitiva (Trasformazione in K ovvero Trasformazione in Knowledge) non è vantaggiosa, ma di ostacolo per la Evoluzione in O.
Bion
afferma, inoltre, che O non può essere “contenuto” nella mente dell’individuo.
L’individuo può soltanto “mettersi all’unisono” con O. Con questa affermazione
Bion vuole mettere in evidenza la qualità di essere in continua espansione che
è propria di O.
L’idea relativa
al “mettersi all’unisono con O” è un creativo risultato della lettura che Bion
ha fatto dei testi di grandi mistici medioevali come Juan de la Cruz e Meister Eckart. Eckhart
- ad esempio - usa la metafora del fuoco per indicare il rapporto che si può
stabilire tra Anima e Dio. Quando il fuoco [Dio, l’amore di Dio] è generato all’interno
stesso del legno [l’Anima], il fuoco gli trasmette la propria natura e la
propria essenza, ed il legno, da sé, diviene sempre più simile al fuoco.
Vorrei notare
infine che mettersi all’unisono con O - come mettersi in contatto con tutte le
grandi forze vitali - può avere un esito creativo, ma anche distruttivo.
Disposizione a stella
Io ho dato una
mia personale lettura di questo concetto di Bion. Considero O non soltanto come
la Realtà
ultima, ma anche come un Punto focale attivo in seduta. L’analista e
l’analizzando, il terapista ed i membri del gruppo - regolando opportunamente
il loro assetto mentale - possono mettersi all’unisono con O (con il Punto
focale evolutivo) e seguirne la evoluzione. In modo analogo, l’analista e
l’analizzando, il terapista ed i membri del gruppo possono ospitare “Pensieri
senza pensatore” promuovendone la trasformazione ed a loro volta venendo
trasformati per il fatto di averli accolti, prendendosene la responsabilità.
L’idea
di O e quella di Pensieri senza pensatore, inoltre, sono alla base di un mio particolare
approccio tecnico e di una specifica modalità di ascolto, che ho chiamato “Disposizione a
stella”.
«Questa modalità di ascolto […]
consiste nel percepire e organizzare mentalmente i dati che emergono dagli interventi dei membri del
gruppo, e più in generale da ciò che accade in
seduta, valorizzando la categoria “spazio”,
piuttosto che quella “tempo”, come
avviene invece quando il terapista segue le catene associative, disponendo gli interventi lungo un filo
sequenziale.
La Disposizione a stella - utilizzando lo spazio come [categoria] organizzativa essenziale - permette al terapista di cogliere gli elementi della seduta nella loro
sincronicità.
Permanendo a lungo in questa
disposizione di ricezione [ed
adottando l’assetto mentale che Bion (1970) ha definito “senza memoria, senza
desiderio e senza comprensione”], ad un certo momento l’analista [potrà percepire] la presenza
di un “nucleo centrale”.
Quando egli avrà individuato tale nucleo, tenderà spontaneamente a vedere i singoli elementi della seduta - frasi, sogni, emozioni - in
relazione con esso (Disposizione a stella).
Debbo aggiungere che parlare di un solo nucleo centrale non rende
completamente ciò che desidero comunicare. [Vi sono infatti più nuclei centrali
disposti a diversi livelli.
Più precisamente, quando le
associazioni dei partecipanti si
condensano dando l’impressione che
siano il frutto di un’attività del gruppo come un tutto (Foulkes in un suo
scritto del 1948 parla di “Eventi di gruppo condivisi”) si possono individuare non uno, ma due nuclei disposti a
livelli diversi.
Il nucleo che corrisponde al
primo livello è rappresentato da una
fantasia o da una serie di fantasie presenti in seduta e che, essendo vicine al
livello preconscio, trovano facilmente
connessioni con il Tema della seduta (ciò di cui si parla).
Queste fantasie “di primo livello” e il Tema della seduta possono essere elaborati attraverso un processo conoscitivo, (quello che Bion, chiama “trasformazione in K”).
Il nucleo che corrisponde al secondo livello (O, il
punto focale attivo, l’attrattore o propulsore), più che ad un nucleo,
corrisponde ad una galassia
di fantasie dotate di una potente forza, ma ancora prive di forma e non ben
definite (possiamo identificare queste fantasie come “Pensieri senza pensatore”).
È impossibile conoscere
direttamente questo nucleo privo di forma, tuttavia esso evolve. Bion (1970) - come ho già detto - parla di
“Evoluzione in O”, cioè dell’evoluzione
di ciò che è ignoto.
Nel corso della seduta, il terapista può mettersi all’unisono con questo punto
focale attivo; facendo così il terapista
segue e in un certo senso promuove il
suo prendere forma nel gruppo. O
inizia a manifestarsi, i Pensieri senza pensatore possono essere accolti da
qualcuno dei membri o dal “gruppo come insieme pensante”.]
La funzione dell’analista, in questo caso, non implica […] dare
un’interpretazione, ma appunto “Mettersi
all’unisono con O”, favorendo così il
fatto che i partecipanti, a loro volta, si mettano all’unisono con il nucleo in evoluzione.
Ritengo che la partecipazione dei membri del gruppo all’evoluzione
di O e all’emergenza di queste
fantasie in un’area che potrà in seguito
essere affrontata in modo conoscitivo, sia altrettanto ricca di potenzialità terapeutiche rispetto alla
comprensione promossa attraverso l’interpretazione (Neri 1998).»
Responsabilità per il pensiero
Prima di parlare della rilevanza clinica
dell’accogliere i “Pensieri senza pensatore” è necessario che chiarisca cosa
vuol dire prendersi la responsabilità di un pensiero.
Accogliere un Pensiero senza pensatore,
infatti, non vuole dire soltanto metterlo in parole ed esprimerlo. Non
corrisponde alla messa in opera di complesse operazioni concettuali,
matematiche o logiche. Significa invece - anche e soprattutto - farsi responsabile
delle immagini, scenari, effetti e contenuti evocati in sé e negli altri da
questo pensiero.
Una
prima difficoltà dell’accogliere e prendersi responsabilità dei Pensieri senza
pensatore dipende dalla loro natura non-socializzata e violenta. Bion segnala
questa caratteristica, quando dice:
«Mi
rendo conto [che l’invito a dare alloggio a questi pensieri] è una grossa
richiesta, perché questi pensieri senza pensatore, pensieri vagabondi, sono
anche potenzialmente pensieri selvaggi […].» (p. 61 dell’edizione
italiana).
La
loro natura selvaggia dipende dal fatto che ogni pensiero nuovo ed originale contiene
sempre qualcosa di trasformativo, ed anche qualcosa di violento e sovversivo
rispetto allo status quo. Isahia
Berlin (1997) scrive:
«Più di cent’anni fa, il poeta tedesco Heine ammonì
[…] a non sottovalutare il potere delle idee: i contenuti filosofici coltivati
nella quiete dello studio di un professore possono distruggere una civiltà.»
Berlin fa riferimento soprattutto alle idee di Marx
ed alla rivoluzione bolscevica di cui aveva sperimentato dolorosamente gli
effetti sulla propria vita e su quella dei suoi familiari.
Thomas Mann (1953, p. 587-8) riprende le
considerazioni di Heinrich Heine, riportandole non a Marx, ma a Nietzsche ed al
Nazismo. Egli afferma che i pensieri di Nietzsche contengono una qualità
selvaggia, che Nietzsche non si è assunto l’onere di pensare, ed aggiunge
alcune acute importanti osservazioni a proposito della responsabilità del
pensare.
«Nietzsche […] fu sul piano personale
una natura […] delicata, complicata, capace di una profonda sofferenza, alieno
da ogni brutalità […]. Ma in un’eroica contraddizione con se stesso, egli diede
vita ad una dottrina rabbiosamente antiumana, i cui concetti favoriti furono la
potenza, l’istinto, il dinamismo, il superuomo, l’ingenua crudeltà, la “bestia
bionda”, l’amorale forza vitale trionfante […]».
«C’è qualcuno che può dubitare
che Nietzsche non si rivolterebbe nella tomba se sapesse che cosa è stato fatto
[dai nazisti] della sua volontà di potenza […]»?
«Ma la sua dottrina fu un poema
imbevuto di ebbrezza romantica, creando il quale egli non si interrogò mai su
quali effetti avrebbero avuto in termini di realizzazione politica i suoi
pensieri, e la sua opera grandiosamente tragica ha sciaguratamente contribuito
al tramonto [della] “libertà tedesca” [...]».
Thomas Mann (1953, pp. 585-6) mette in luce il fatto
che la caratteristica selvaggia del pensiero può derivare dalla mancanza
dell’esercizio di una specifica funzione trasformatrice: il prendersi
responsabilità del pensiero. Prendersi responsabilità del pensiero è nutrire
una certa benevolenza nei confronti della vita e degli uomini.
«[Il pensiero ha una responsabilità] nei confronti
della vita […]. [… Intendo parlare] [… della sua] responsabilità nei confronti
della vita degli uomini e nei confronti delle conseguenze del pensiero [stesso]
sulla vita e sulla realtà […].»
Bion per parte sua distingue il pensiero inteso come
intelligenza e capacità tecnologica dal pensiero che è caratterizzato dalla
responsabilità di pensare. È solo quest’ultimo che porta ad un autentico
sviluppo della personalità umana.
Accogliere un Pensiero senza pensatore non è dunque
separabile dal prendersene la responsabilità. Accogliere un Pensiero senza pensatore
è parte di un processo più generale volto a stabilire una nuova forma di legame
e solidarietà tra diversi aspetti del Sé, tra sé stesso e le altre persone, tra
sé ed il mondo.
Accogliere i Pensieri senza
pensatore
Come
si realizza nella clinica l’accoglimento di un Pensiero senza pensatore? Quali resistenze
mette in moto? Quali percorsi apre?
Proverò
a rispondere, presentando una breve sequenza tratta da una terapia di coppia (Lupinacci
2009).
Una
moglie ed un marito - ambedue tra i quaranta ed i cinquant’anni - vanno dal terapista
per la loro seduta settimanale. La moglie (la più esuberante dei due, la
ribelle) racconta un sogno che contiene un pensiero di rivolta rispetto alla famiglia
di origine e di possibilità di concedersi un piacere fuori dell’ordinario. È un
pensiero che il marito (rigido, ligio al dovere, dipendente dalla famiglia) non
avrebbe osato mai formulare, neanche in sogno.
In
generale, le differenze rispetto ai limiti ed alle convenzioni sono fonte di
tensione tra loro. Questa volta però, quando il pensiero impensabile, il Pensiero
senza pensatore viene formulato da lei, improvvisamente lui esclama: “Magari potessi io!”
Il
sogno della moglie (che è anche una prima forma di accoglimento del “Pensiero
senza pensatore”) ha colto precisamente ed inaspettatamente un momento di
disponibilità del marito (una seconda forma di accoglimento).
C’è
poi un seguito, più complesso e difficile da comprendere: la moglie
incredibilmente si indigna, lo rimprovera.
Ma
il terapista ricorda bene come la signora - che si lamenta sempre della
distanza e scarsa vivacità del marito - non permetta però che i rari momenti
nei quali lui si libera dai suoi schemi e le si avvicina siano goduti da
entrambi. La moglie lo riporta (e riporta la coppia) ad un altro legame che esiste
tra loro. Marito e moglie sono legati da un profondo problema comune: l’ostilità
e l’invidia per il piacere; ed in particolare per il piacere di coppia (nella
reciprocità).
Il
terapista riflette sul fatto che portare l’attenzione soltanto sull’intervento
della moglie e sulla tendenza a ripristinare un penoso status quo potrebbe essere vissuto dalla signora ed anche dal
marito come colpevolizzante.
Egli
cerca allora di guardare la situazione da una diversa angolatura. Se la
raffigura in questo modo: “O, un Pensiero senza pensatore in evoluzione ha
preso contatto con un sistema relazionale di esseri umani in rapporto fra di
loro. L’avvicinamento ad O ha generato la possibilità di nuove aperture, ma
anche terrore e senso di persecuzione.” Un suo intervento dovrebbe dunque parlare
non soltanto della attivazione di resistenze al cambiamento, ma anche dei
sentimenti contradditori di speranza e timore suscitati dalla prospettiva di un
cambiamento.
Il
terapista avverte però che qualcosa di essenziale manca ancora, perché egli
possa intervenire non soltanto indicando contenuti utili e corretti, ma anche
con il tono e nel modo giusto. Egli si chiede: “Che cosa proverei se dovessi
mettere in campo un aspetto di me stesso più appassionato? Cosa succederebbe se
la barriera tra due aspetti diversi del mio Sé diventasse più permeabile, aprendo
la possibilità di un contatto e di una sovrapposizione tra di loro? Come mi
sentirei se mi coinvolgessi maggiormente nelle fantasie, pensieri e sentimenti teneri
e violenti di questa coppia?”
Il
risultato di queste riflessioni non è consistito nella formulazione di una
singola interpretazione, ma nell’avvio di una nuova e diversa fase del lavoro
della coppia e del terapista.
Conclusione
Terminerò con un’immagine:
«Un maestro Sufi, un mistico si stava avvicinando a Damasco, che era al
tempo la più colta e ricca delle città. I sapienti che già vivevano a Damasco
gli mandarono incontro una delegazione che portava un bicchiere d’acqua colmo
sino all’orlo. Il messaggio era chiaro: “A Damasco siamo già tanti, forse
troppi, non vi è posto per te e per il tuo sapere.” Il Sufi estrasse una rosa
che portava sempre nel risvolto del mantello e la mise nel bicchiere, senza
fare cadere una singola goccia. Anzi, sembrava che nel bicchiere vi fosse più
spazio (Corrao 1974).»
Il
troppo pieno di inibizioni e malcontento che a volte intasa il campo della
relazione di una coppia o di un gruppo analitico non può essere risolto,
togliendo o assorbendo qualcosa, ma piuttosto aggiungendo qualcosa.
Il
troppo pieno di sentimenti infelici, che talora occupa quasi completamente il
tempo delle sedute di un’analisi, può corrispondere ad un blocco del paziente,
che non mette in gioco un aspetto del suo Sé più aperto e vivace. È possibile
però che il paziente non lo metta in gioco e che dunque questo aspetto del Sé resti
inibito o dissociato, perché l’analista per parte sua fa altrettanto. Tiene la
rosa riposta e ben protetta dentro il risvolto del suo mantello; tiene da parte
un aspetto più appassionato e determinato della sua personalità (Bromberg
2006).
Questo è il Pensiero senza pensatore al quale -
attraverso la lunga narrazione che avete ascoltato - ho cercato di dare un
alloggio di parole.