L’uomo: i piedi sulla terra, lo sguardo verso il cielo
(di Alessio saccà)
(di Alessio saccà)
1.
Il mito – caratteri generali
Circa
70 milioni di anni fa, proseguendo per un albero filogenetico che affonda le
sue radici alle origini della vita sulla terra, ha origine il ramo dei primati,
ordine di cui fanno parte con l’uomo tutte le scimmie.
L’evoluzione
del genere umano parte dalla specie più antica, l’Australopithecus (4 milioni
di anni fa), giunge alla nascita dell’Homo habilis, creatore della prima coltura,
segue l’Homo herectus per arrivare fino all’Homo sapiens, ed infine l’Homo
sapiens sapiens, l’artista delle caverne e delle grotte e l’inventore dei primi
simboli. Lo studio di questi simboli ha permesso di vedere la nascita e la
crescita dell’uomo religioso e la manifestazione della sua coscienza religiosa.
La
volta celeste e la simbologia cosmica fanno nascere nell’uomo arcaico il
sentimento dell’esistenza di una trascendenza che si è manifestata in maniera
visibile dal momento in cui egli seppellisce i defunti, sviluppa riti di
iniziazione, culti funerari, e inventa i
miti.
Di
fronte all’uomo primitivo, la vita, la natura e le sue forze, tutto ciò che lo
circonda, appare come un turbinio di immagini senza senso. Egli non conosce le
leggi che governano la natura, le cause della vita e della morte, del bene e
del male. Davanti a questo universo di immagini incomposte, che la natura e la
vita gli propongono ogni giorno, rischia di perdersi, di cadere preda dell’ansia
e della paura. Sarà il mito, dunque, a fargli trovare il senso della realtà ed a
costruire l’ordine di quelle forme, altrimenti incomprensibili. I miti rivelano
l’ordine che regola la vita e la morte, i successi e le sconfitte, l’origine degli astri e della terra, delle piante e degli animali, l’alternarsi
delle stagioni, tutto ciò che è accaduto,
che accade e che accadrà.
Il
termine mito deriva dal greco mythos, che in Omero significa parola, discorso ma anche progetto,
macchinazione. Il mito è dunque il
discorso, la storia narrata sull’esistenza di esseri antropomorfi, spesso
immortali e onnipotenti, che compiono azioni fantastiche, interessandosi a ciò
che avviene tra i mortali e modificando il mondo e il corso degli avvenimenti
con il loro intervento. Compare anche l’uomo, ma sotto due aspetti ben
distinti, quello dell’uomo comune e quello dell’eroe. Gli eroi sono uomini dai
poteri fuori dall’ordinario, coraggiosi, a volte figli di un di un dio e di una
creatura mortale; veri superuomini che lottano per scopi nobilissimi; proiezione
di tutto quanto l’uomo comune aspira ad essere.
Il
mito è il bisogno dell’uomo di spiegare la realtà e costituisce la struttura
sulla quale si fondano le credenze di un gruppo, di un etnos. Ad esso viene, perciò, attribuito un significato religioso e
spirituale, considerandolo verità di fede.
Ogni
civiltà fiorita sulla terra ha sviluppato fin dalle sue più lontane origini un
vasto repertorio di miti che riflettono la cultura dei popoli cui appartengono
e le modalità attraverso le quali essi hanno tentato di fornire
un’interpretazione della realtà. Tra questi, i Veda[1], gli
Egizi, i Greci e i Romani, che nella loro lunga storia hanno trovato in essi
precisi punti di riferimento. Tramandato inizialmente in maniera orale dai
depositari dei valori di un popolo, in genere i sacerdoti, il mito è stato poi fissato
in forma scritta. Non è raro pertanto che di una narrazione mitica spesso
esistano più versioni, o perché più scrittori l’hanno tramandata, oppure perché
nel tempo si è modificata, visto che il passaggio alla versione scritta non ha
posto fine alla tradizione di trasmettere oralmente il racconto che, passando
di bocca in bocca, ha facilmente subito variazioni o ricevuto aggiunte.
A
mettere in moto il meccanismo narrativo del mito, di solito molto semplice, è
quasi sempre una situazione di contrapposizione o di scontro, in cui il
protagonista positivo, l’eroe, deve affrontare le forze antagoniste che lo
contrastano e lo ostacolano. L’eroe non giunge solo e disarmato al momento
dello scontro decisivo: in suo favore intervengono divinità e presenze
benevole, pronte a fornirgli gli strumenti indispensabili per poter superare
difficoltà altrimenti insormontabili. Il tempo è sempre indeterminato,
lontanissimo, anteriore alla nascita della storia. L’indeterminatezza non è
dovuta solo all’impossibilità di definire il periodo in cui sono avvenuti i
fatti, ma anche all’esigenza di attribuire alla narrazione un valore perenne,
di eternità. Ciò che è avvenuto è dunque di tale importanza che ha, ed avrà,
sempre valore.
La
mitologia antica a noi più familiare è senz’altro quella greca. I greci furono
grandi creatori di miti, tutti vivacemente popolati da divinità dotate si del
requisito fondamentale dell’immortalità e di qualità fisiche e intellettuali
superiori, ma in tutto simili agli esseri umani sia per la colorita
caratterizzazione sia per passioni e debolezze.
Limpidamente
suddivise sui gradini di una rigida gerarchia, spesso invidiose, vendicative,
intriganti, esse dimorano sull’Olimpo, il più alto massiccio montuoso della
Grecia, in Tessaglia, considerato dalla fantasia popolare un luogo di delizie e
di sontuose dimore.
Capo
supremo di tutti gli dei è Zeus, signore dell’Olimpo e dell’umanità, terribile
gestore dei fenomeni atmosferici, amante di dee, ninfe e donne mortali
nonostante la gelosa presenza della moglie Hera. Ai fratelli di Zeus ,
Poseidone e Ade, spetta rispettivamente il dominio del mare e il regno del
sotterraneo mondo dei morti; le sue sorelle sono Demetra, dea dell’agricoltura,
e Hestia, custode del focolare e della quiete domestica. Accanto a queste
divinità maggiori, i miti greci collocano numerose divinità minori, semidei e
creature fantastiche, quali fauni e ninfe,
ovunque diffuse per mare e per terra.
1.1.
Il mito e
la rielaborazione nella letteratura
1.1.1.
Giacomo
Leopardi e le canzoni giovanili
Dalla
remota antichità, Ulisse e Fedro, Antigone e Oreste, Amore e Psiche, ci parlano
ancora attraverso le opere dei moderni scrittori che ripropongono arcaici e
misteriosi messaggi, caricandoli di nuovi significati. La loro voce è stata
udita e rimodulata da scrittori e poeti quali Foscolo, Leopardi, Quasimodo,
Sartre (nel teatro). Dalla lettura delle
pagine dello Zibaldone e delle Canzoni giovanili di Giacomo Leopardi, si
rileva un’attrazione costante dell’autore per il mito.
Nello
Zibaldone il termine favola ricorre
frequentemente ed egli precisa che con questo termine Platone definiva il suo sistema di idee. La favola è
il mezzo attraverso cui, gli uomini antichi, i saggi elargivano il dono della
verità. Favola è definito il mito di Prometeo che ruba il fuoco agli Dei per
darlo agli uomini. Favola è anche il mito di Amore e Psiche. Così il mito è
favola per Leopardi e da conoscitore e abile manipolatore qual è non esita a
rielaborarlo e inserirlo nelle sue opere, in particolare nelle Operette Morali e nelle Canzoni giovanili, nelle quali il mito
è la tela su cui tesse il suo intricato pensiero, per creare un tessuto letterario complesso ma omogeneo
nella sua stratificazione. Il mito permette l’analisi della realtà e della
natura umana, attraverso forme ed espressioni alternative a quelle reali e
soprattutto esso è inalterabile, esemplare ed universale, eterno e perciò
sacro.
Riutilizzare
la fonte mitica in Leopardi significa non solo estrapolarla, ma adattarla alla
sua capacità inventiva. Il mito è lo strumento che l’autore usa per ritornare
all’antico, utilizzando l’immaginazione che corrisponde a quel senso di vago e
di indefinito a lui tanto caro. L’atteggiamento di Leopardi verso il mito
tradizionale è di emulazione, mai di sterile imitazione. Accoglie e rielabora
la tradizione, rivisitandola sempre alla luce del suo pensiero, delle sue idee,
delle sue osservazioni critiche, adattando la materia letteraria alle sue
teorie. Il mito diventa instrumentum per
esplicare le proprie convinzioni, materia da plasmare per dimostrare il suo
pensiero. Esempi significativi sono le canzoni il Bruto minore e l’Ultimo canto
di Saffo.
Le
Canzoni furono composte tra il 1818 e
il 1823 e pubblicate in un opuscolo a Bologna nel 1824. Si tratta di
componimenti di impianto classicistico che impiegano il linguaggio aulico
sublime e denso della tradizione, con
sensibili influenze soprattutto di Foscolo. Le prime cinque (All’Italia, Sopra il monumento di Dante,
Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone), composte tra il 1818 e il 1821,
affrontano una tematica civile. La base di pensiero è costituita dal “pessimismo
storico” in cui Leopardi vede la condizione negativa del presente come effetto
di un processo storico, di una decadenza e di un allontanamento progressivo da
una condizione originaria di felicità. Queste canzoni sono animate da acri
spunti polemici contro l’età presente, inerte e corrotta, incapace di azioni
eroiche, immersa in una “nebbia di taedium
vitae”. Caratteristiche diverse possiedono il Bruto minore (1821) e l’Ultimo
canto di Saffo (1822), le cosiddette “canzoni del suicidio”. Leopardi non
vi parla più in prima persona ma delega il discorso poetico a due personaggi
dell’antichità entrambi suicidi, Bruto, l’uccisore di Cesare, e la poetessa
greca Saffo.
Il Bruto minore fu composto a Recanati nel 1821,
dopo una lunga meditazione sul tema e soprattutto sulla scelta del personaggio.
La figura del figlio adottivo di Cesare, che finì per essere il capo della
congiura assieme a Cassio, era per tradizione storiografica latina il simbolo
stesso della virtù antica; Bruto rappresentava l’ultimo uomo in grado di
sacrificare se stesso per salvare la patria dalla tirannide. Il gesto di
uccidersi dopo la sconfitta di Filippi del 42 d.C. ad opera delle legioni di
Ottaviano, il futuro imperatore, poteva essere interpretato come l’estremo
rifiuto di accettare la perdita della libertà politica. Tuttavia per Leopardi,
Bruto è molto di più, egli rappresenta l’uomo nel momento storico in cui lo
sviluppo della civiltà porta alla caduta delle illusioni.
Il
tutto si presenta con i caratteri del soliloquio portato all’estrema
drammaticità, come se Bruto fosse il protagonista di una vera e propria tragedia.
L’Ultimo canto di
Saffo fu
composto a Recanati nel 1822 e pubblicato per la prima volta due anni dopo. È
un monologo lirico attribuito a Saffo, l’antica poetessa greca che, secondo la
leggenda, si sarebbe uccisa gettandosi dal promontorio di Leucade per amore del
giovane Faone. Leopardi era a conoscenza degli studi filologici e storici in
base ai quali era chiaro che questa era soltanto una leggenda, senza alcun
carattere di realtà; ma nella canzone egli non vuole riferirsi al personaggio
storico, bensì all’idea espressa nel mito, che era comunque uno spunto per la
sua meditazione. Tale spunto è tratto da Ovidio ma il personaggio diviene pura
proiezione autobiografica e portavoce delle idee leopardiane. A tal proposito
il poeta dichiara la sua intenzione di rappresentare l’infelicità di un animo
delicato, tenero, sensibile, nobile e caldo, posto in un corpo brutto.
Il tema centrale del canto è l’infelicità come
destino individuale dell’io lirico, che un errore del caso, dandogli un corpo
brutto, ha condannato all’infelicità. Tuttavia l’idea dell’infelicità
individuale si allarga a quella di infelicità universale, che abbraccia tutti
gli uomini. Non a caso il discorso passa dall’io iniziale al noi del verso 46.
L’infelicità dunque non è solo più dei moderni che hanno perso la facoltà di
illudersi, ma, derivando da terribili mali esterni, coinvolge tutti gli uomini
in ogni tempo. Dunque, in questa prospettiva, non appare casuale che, come
esempio di infelicità, sia proposta la poetessa greca: la miseria umana infatti
non risparmia neanche quegli antichi che Leopardi riteneva privilegiati perché
più vicini alla natura ed immuni dagli effetti distruttivi della ragione. La
concezione di questa infelicità universale nasce dal fatto che ora, all’idea di
una natura benigna, propria del Leopardi degli anni precedenti, si associa
l’idea di un fato crudele, che dispensa sventure e destina l’uomo “negletta
prole”, alla sofferenza senza scampo. Si
delinea cioè un dualismo tra natura e fato; tuttavia è una fase transitoria che
ben presto sarà superata con l’attribuzione alla natura delle caratteristiche
di questo fato ostile all’uomo. Un esempio può essere il dialogo della natura e
di un islandese nelle operette morali. Coerentemente con l’idea che anche gli
antichi non sfuggivano all’infelicità, Saffo diviene portatrice di una
coscienza moderna e può cosi proporsi come portavoce del poeta stesso.
Il
mito, dunque, ha sempre impregnato con la sua bellezza e il suo fascino la
letteratura di ogni tempo. Altro esempio di scrittore che, molto più vicino ai
giorni nostri, ha saputo riadattare alla luce del pensiero moderno il mito
antico è Salvatore Quasimodo con le traduzioni dei Lirici greci.
1.1.2. Salvatore Quasimodo e le traduzioni dei Lirici greci
La
prima edizione dei Lirici greci è
stata pubblicata nel 1940. L’opera suscita subito un ampio dibattito che vede
contrapposti quanti criticano l’eccessiva libertà delle traduzioni del poeta e
quanti invece ne apprezzano la resa moderna, più vicina allo spirito del tempo.
Decisivo è il saggio introduttivo di Luciano Anceschi, che coglie il legame tra
i modi dell’ermetismo cui aderiscono le traduzioni e un nuovo ideale di
classicità, privo dell’enfasi e della retorica che avevano caratterizzato le
precedenti trasposizioni. Infatti le traduzioni sono scevre da qualsiasi
ripiegamento neoclassico, ovvero prive di quegli elementi di scrittura
arcaicizzanti che avevano contrassegnato gran parte delle composizioni degli
anni Venti e Trenta.
In
Italia, peraltro, l’interesse per la lirica greca, giunta in veste
frammentaria, s’incontra con l’orientamento letterario del “frammentismo”.
Simbolo di una tradizione “rovinata” dallo scorrere del tempo, il frammento
stimola l’interpretazione, il desiderio mai spento di svelare l’enigma
originario che si cela dietro il mito. Il bisogno ancestrale di “indagare” il
passato per giungere al principio delle cose. Inoltre il frammento, per
definizione breve, si sposava all’idea di poesia come illuminazione folgorante,
tipica dell’ermetismo.
La
novità delle sue traduzioni, pertanto, risiede nell’aver piegato il canto
greco, vecchio di più di duemila anni, al proprio tempo.
Il
poeta siciliano, peraltro, ha preferito tradurre solo quelle liriche che si
confacevano al suo gusto poetico moderno, ovvero quelle più brevi ed
essenziali, tralasciando le poesie più distese e di carattere celebrativo.
Quasimodo
non impiega metri barbari, come hanno fatto taluni rappresentanti di una non
troppo credibile filologia poetica, per esempio Romagnoli, poiché tradurre
significa rendere la poesia antica o straniera nell’unita metrica della lingua
di arrivo. E per tale motivo che il poeta si e servito del verso più naturale
della lingua italiana: l’endecasillabo.
Quasimodo,
nello scritto Traduzioni dai classici del
1945, spiegava cosa lo avesse spinto a tradurre i lirici greci: il forte
desiderio di dare voce nuova a contenuti eterni, ma una voce nuova che parlasse
direttamente al cuore dell’uomo moderno.
Dal
punto di vista stilistico, i Lirici greci
presentano un linguaggio decisamente ermetico. I nessi logici sono ridotti al
minimo; sono assottigliati fino a scomparire; restano le parole essenziali.
Sono queste le caratteristiche pregnanti della poesia ermetica. Le traduzioni
attenuano l’effetto delle inversioni, avvicinando il linguaggio della poesia al
linguaggio d’uso quotidiano, con un marcato decremento della letterarietà, per
mettere ancor di più in evidenza la volontà di rendere il messaggio antico
sulla base di una concezione moderna. Spesso il poeta, a causa del carattere
frammentario dei lirici, crea una narrazione accostando frammenti diversi e
dando, così, origine ad una successione di momenti nel tempo, connessi tra loro
da una logica, seppur debole, di causa-effetto.
Una
caratteristica comune alla poesia ermetica e alla lirica greca e l’importanza
del valore musicale della parola. Anche nelle traduzioni, ma questo vale per
tutta la poesia di Quasimodo, c’è una forte presenza dell’elemento
fono-simbolico: assonanze, allitterazioni, omotonia che formano quasi una
corrente “sottomare”, una cassa di risonanza della pura referenzialità delle
immagini.
1.1.3. Jean-Paul Sartre e il mito nel teatro
Sartre, dans sa production
théâtrale, reprend le mythe antique.
Sartre a beaucoup écrit pour le
théâtre, car la scène est un lieu privilégié pour incarner la réflexion
philosophique et proposer des solutions. Les
Mouches, inspirées du mythe
d’Oreste, posent le problème de la liberté de l’individu, et la responsabilité
de ses actes. Oreste, poussé par sa sœur tuera Egisthe, l’amant de sa mère,
mais son acte est motivé par l’orgueil personnel.
Acte I. Oreste revient à Argos, accompagné de son précepteur.
Un étrange homme barbu, qui est en fait Jupiter, leur explique que les rois
font régner la terreur, que la ville est envahie par le mouches, symboles du
remords pour un crime resté impuni.
Oreste rêve de grandes actions. Il retrouve sa sœur réduite en esclavage et
assiste à une dispute entre elle et sa
mère.
Acte II. Au cours d’une cérémonie expiatoire, contre le crime
d’Agamemnon, Électre appelle le peuple à la révolte, mais Jupiter l’en empêche. Égisthe bannit Électre. Oreste
se fait reconnaître de sa sœur, l’invite à la suivre mais celle-ci veut libérer
la ville et venger son père. Jupiter prévient Égisthe du danger, mais celui-ci,
désabusé, se laisse tuer par Oreste qui tue également sa mère.
Acte III. Alors qu’Électre cède au remords et au désespoir, Oreste
revendique son acte libre qui a libéré la ville d’un tyran. Il refuse de
prendre la succession de son père et s’en va suivi par le mouches, libérant
ainsi la ville.
La pièce de Sartre, Les Mouches, écrite en 1943 en pleine
occupation, se veut une métaphore du régime collaborateur de Vichy.
Au-delà de son interprétation immédiate, Les Mouches proposent une réflexion sur
la liberté qui sera au cœur de la philosophie de Sartre, et en particulier sur
l’acte individuel fondateur de l’existence. Oreste est fier parce qu’il a le sentiment d’avoir enfin
trouvé un sens à sa vie en accomplissant un acte qui le distingue des autres,
un acte pleinement autonome et donc libre. En outre, cet acte où s’exprime la
liberté individuelle a une valeur sociale dans la libération de l’oppression.
1.2.
Il mito
nella storia
Il
termine mito possiede diverse accezioni, spesso è inteso come racconto investito
di una certa sacralità, come già visto, con lo scopo di spiegare i fenomeni
della natura; altre volte è inteso come idealizzazione di un evento, di un
personaggio, di una situazione o, appunto, semplicemente di una vera e propria
ideologia che assume proporzioni leggendarie nell’immaginazione popolare.
Spesso, durante il corso dei secoli, si è giunti ad un eccessiva credenza in
questi miti. Ciò ha provocato danni enormi all’umanità, portando a crimini
disumani e mostruosi. Il caso più eclatante e terribile è certamente
rappresentato dallo sterminio degli ebrei in nome del mito di una razza, quella
ariana.
Nel
1923, quando fini in prigione per aver tentato di organizzare un colpo di Stato
a Monaco di Baviera, Adolf Hitler era un personaggio semi conosciuto, capo di
una minuscola formazione politica: il partito nazionalsocialista dei lavoratori
tedeschi (Nsdap), il cui programma era accesamente nazionalista.
Fino
al 1929 il partito nazionalsocialista o nazista, come comunemente veniva
chiamato, rimase un gruppo minoritario e marginale che si collocava al di fuori
della legalità servendosi sistematicamente della violenza verso gli avversari
politici e fondando la sua forza soprattutto su una robusta organizzazione
armata: le SA (Sturm-Abteilungen,
cioè reparti di assalto) comandate
dal capitano dell’esercito Ernst Rӧhm. Dopo il fallimentare tentativo di
Monaco, Hitler aveva cercato, sull’esempio di quanto aveva fatto Mussolini in
Italia, di dare al partito un volto più “rispettabile”, tuttavia non aveva
rinunciato al nucleo centrale del suo programma, che prevedeva la denuncia del
trattato di Versilles, la riunione di tutti i tedeschi in una nuova
“grande Germania”, l’adozione di misure
discriminatorie contro gli ebrei, la fine del “parlamentarismo[2]
corruttore”. I suoi progetti, Hitler li espose in un libro dal titolo Mein
Kampf (La mia battaglia) scritto nei mesi del carcere e destinato a diventare
una sorta di testo sacro del nazismo.
Al
centro dei piani hitleriani c’era un’utopia nazionalista e razzista.
Antisemita, sostenitore di una concezione grossolanamente darwiniana della vita come continua lotta in cui solo i
forti sono destinati a vincere, Hitler credeva nell’esistenza di una razza
superiore e conquistatrice, quella ariana,
progressivamente inquinatasi per la “commistione con le razze inferiori”. I
caratteri dell’arianesimo si erano per lui conservati solo nei popoli nordici,
in particolare nel popolo tedesco, che avrebbe dunque dominare sull’Europa e
sul mondo. Per realizzare questo sogno era necessario schiacciare i nemici
interni: primi fra tutti gli ebrei, considerati, in quanto “popolo senza
patria”, i portatori del virus della dissoluzione morale, responsabili ad un
tempo dei misfatti del capitale finanziario. I tedeschi avrebbero dovuto
respingere le imposizioni di Versailles, recuperare i territori perduti ed espandersi
verso est a danno dei popoli slavi, considerati anch’essi inferiori. Era una
vera e propria crociata contro il comunismo. Ma, all’inizio degli anni trenta,
con lo scoppio della grande crisi economica, lo scenario cambiò radicalmente.
La maggioranza dei tedeschi, immiseriti o addirittura ridotti alla fame, perse
ogni fiducia nella Repubblica. In questa situazione i nazisti poterono uscire
dal loro isolamento e far leva sulla paura, sulla frustrazione dei ceti medi,
sulla rabbia dei disoccupati. Hitler offriva così non solo la prospettiva della
riconquista di un primato della nazione tedesca, ma anche l’immagine tangibile
di una forza politica in grado di ristabilire l’ordine contro “traditori” e
“nemici interni”. L’agonia della Repubblica di Weimar cominciò nel settembre
1930 quando il cancelliere Brüning convocò nuove elezioni sperando di far
uscire dalle urne una maggioranza favorevole ad una politica di austerità utile
per fronteggiare gli effetti della crisi economica. Accadde invece che i nazisti
ebbero uno spettacolare incremento. Il ministero continuò a governare per altri
due anni con il sostegno del vecchio presidente Hindenburg, che si valse
sistematicamente dei poteri straordinari previsti dalla Costituzione nei casi
di emergenza. Nel 1932 la crisi raggiunse il suo apice. La produzione
industriale calò. Frattanto i nazisti ingrossavano le loro file in modo
impressionante e riempivano piazze con comizi e cortei. Le città divennero
teatro di scontri sanguinosi. Il dissesto economico e l’esplodere della
violenza andarono di pari passo con il collasso del sistema politico. Si
cominciò nel 1932 con le elezioni per la presidenza della Repubblica. Per
sbarrare la strada ad Hitler, i partiti non trovarono di meglio che appoggiare
la rielezione del maresciallo Hindenburg che una volta confermato nella carica
cedette alle pressioni dei militari e della grande industria, congedò il primo
ministro Brüning e cercò una via d’uscita dalla crisi. Nelle due successive
elezioni politiche i nazisti si affermarono come il primo partito tedesco. I
gruppi conservatori, l’esercito, lo stesso Hindenburg finirono col convincersi
che senza di loro non era possibile governare. Il 30 gennaio 1933 Hitler fu
convocato dal presidente della Repubblica e accettò di capeggiare un governo in
cui i nazisti avevano solo tre ministeri su undici. A Hitler bastarono pochi
mesi per imporre un regime pienamente totalitario. L’occasione per una piena
stretta repressiva fu offerta da un episodio drammatico quanto oscuro:
l’incendio appiccato al Reichstag, il Parlamento nazionale, una settimana prima
della data fissata per una nuova consultazione elettorale. L’arresto di un
comunista semi squilibrato mentale, indicato come l’autore materiale
dell’incendio, fornì al governo il pretesto per una imponente operazione di
polizia contro i comunisti; il partito fu messo fuori legge e furono prese una
serie di misure eccezionali che limitavano o annullavano le libertà di stampa
di riunione. Nelle successive elezioni i nazisti ottennero il 44% dei voti che,
uniti a quelli dei gruppi di destra, sarebbero bastati ad assicurare al governo
un’ampia base parlamentare.
Ma
Hitler mirava ormai all’abolizione del Parlamento ed il Reichstag appena eletto
lo assecondò approvando una legge suicida che conferiva al governo i pieni
poteri, compreso quello di legiferare e quello di modificare la Costituzione.
Hitler poteva varare una legge in cui si proclamava che il Partito
nazionalsocialista era l’unico consentito in Germania. Infine, una nuova
consultazione elettorale, questa volta di tipo “plebiscitario”, su lista unica,
faceva registrare un 92% di voti favorevoli. Di fronte a lui restavano ancora
due ostacoli: da una parte l’ala estremista del nazismo, rappresentata
soprattutto dalle SA di Rӧhm ed erano
poco disposte a sottomettersi al controllo dei poteri legali; dall’altra la
vecchia destra, impersonata dal presidente Hindenburg che chiedevano ad Hitler
di frenare i rigurgiti estremisti e di tutelare le tradizionali prerogative
delle forze armate. Hitler, che temeva anche lui l’autonomia delle SA (e già da
qualche anno aveva provveduto a formare una sua milizia personale, le SS,
“squadre di difesa”) decise di risolvere il problema con un massacro. Nella
notte del 30 giugno, la “notte dei lunghi coltelli”, reparti delle SS
assassinarono Rӧhm insieme con tutto lo stato maggiore delle SA.
Quando
il vecchio maresciallo Hindenburg morì, nell’agosto del 1934, Hitler si trovò
cosi, in virtù di una legge emanata dal suo stesso governo, a cumulare le
cariche di cancelliere e capo dello Stato. Ciò significava l’obbligo per gli
ufficiali di presta di prestare giuramento di fedeltà ad Hitler.
Nasceva
il Terzo Reich, il terzo impero (dopo il Sacro Romano Impero medievale e quello
nato nel 1871). Il capo (Fühere è l’equivalente
tedesco di “duce”), colui al quale spettavano le decisioni più
importanti, la fonte suprema del diritto, la guida del popolo, colui che sapeva
esprimerne le aspirazioni. Era insomma fornito di quel potere che Weber aveva
definito carismatico, fondato su una presunta qualità straordinaria (appunto il
carisma), di cui il capo sarebbe dotato. Il rapporto tra capo e popolo doveva
essere diretto, al di là di ogni mediazione istituzionale e di ogni forma di
rappresentanza. L’unico tramite con le masse era costituito dal partito e da
tutti gli organismi ad esso collegati: come il fronte del lavoro, che
sostituiva i disciolti sindacati. Compito di queste organizzazioni era di
trasformare l’insieme dei cittadini in una comunità
di popolo compatta e disciplinata. Dalla “comunità di popolo” erano esclusi per
definizione gli elementi “antinazionali”, i cittadini di origine straniera o di
discendenza non “ariana” e soprattutto gli ebrei.
Gli
ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza. Ma, erano concentrati
in prevalenza nelle grandi città, occupavano le zone medio-alte della scala
sociale: erano per lo più commercianti, liberi professionisti, intellettuali e
artisti: parecchi avevano posizioni di prestigio nell’industria e nell’alta
finanza. Nei confronti di questa minoranza la propaganda nazista riuscì a
risvegliare sentimenti di ostilità. La discriminazione fu ufficialmente sancita
nel 1935 dalle cosiddette leggi di Norimberga che tolsero agli ebrei la parità
dei diritti e proibirono i matrimoni tra ebrei e non ebrei. Alla
discriminazione “legale” si accompagnava una crescente emarginazione dalla vita
sociale: il che spinse molti ebrei ad abbandonare la Germania. La persecuzione
antisemita subì un ulteriore accelerazione nel 1938 quando, traendo pretesto
dall’uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo, i
nazisti organizzarono un gigantesco
pogrom in tutta la Germania. Quella fra l’8 e il 9 novembre 1938 fu
chiamata notte dei cristalli per via
delle molte vetrine di negozi appartenenti a ebrei che furono infrante,
sinagoghe distrutte, abitazioni devastate, decine di ebrei uccisi, taglieggiati
nei loro beni, privati del lavoro, accusati di cospirare contro il Reich finché
a guerra mondiale già iniziata, Hitler non concepì il progetto mostruoso di soluzione finale del problema: soluzione che prevedeva la
deportazione in massa e il progressivo sterminio del popolo ebraico.
La
politica razziale nazista si inquadrava in un più vasto programma di “difesa
della razza” che prevedeva, fra l’altro, la sterilizzazione forzata per i
portatori di malattie ereditarie. Queste misure , che in parte ricalcavano le
pratiche eugenetiche a limiti estremi, fino alla soppressione dei malati di
mente classificati come incurabili, il regime le applicò con spietata
determinazione, considerandole essenziali alla tutela dell’integrità del
“popolo eletto”. Il mito della razza occupava infatti un posto centrale nella
teoria e nella prassi del nazismo. Fino a quando non fu definitivamente
distrutta dalla sconfitta in guerra, la macchina del regime nazista poté
funzionare senza incontrare ostacoli di rilievo e senza suscitare nel paese
resistenze efficaci ed estese.i cattolici finirono con l’adattarsi al regime,
incoraggiati anche dall’atteggiamento della Chiesa di Roma che nel luglio
del1933, stipulò un concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di
culto e la non interferenza dello Stato negli affari interni del clero. Solo
nel marzo 1937,di fronte agli eccessi della politica razziale nazista, il papa
Pio XI intervenne con una enciclica in lingua tedesca per condannare dottrine e
pratiche che sempre più rivelavano il loro carattere “pagano”. Ma, non vi fu
una denuncia del concordato o una scomunica ufficiale del nazismo. Le chiese
luterane e tradizionalmente ossequienti al potere, si piegarono alle
imposizioni del regime, compreso il giuramento di fedeltà dei pastori al Fürer.
Solo una minoranza di ministri del culto (la cosiddetta “Chiesa confessante”)
si oppose attivamente alla nazificazione e fu perciò duramente perseguitata. Le
molte polizie, da quella ufficiale a quella segreta, la Gestapo,
all’onnipresente “servizio di sicurezza” delle SS, che controllavano con ogni
mezzo la vita pubblica e privata dei cittadini, ; i campi di concentramento
(Lager) dove gli oppositori venivano rinchiusi a centinaia di migliaia e
sottoposti a un lento annientamento rappresentarono un apparato repressivo e
terroristico vasto ed efficiente. I consensi al regime furono dovuti ai
successi di Hitler in politica estera e la ripresa economica, grazie
all’impulso dato ai lavori pubblici e soprattutto alla politica di riarmo messa
in atto da Hitler portando la disoccupazione ad una rapida diminuzione.
I
successi in economia e in politica estera non basterebbero però a spiegare
l’ampiezza del consenso al regime se non si tenesse conto di un altro fattore
essenziale: la capacità del nazismo di imporre formule e miti capaci di toccare
le corde profonde dell’anima popolare, oltre alla sua abilità nel servirsi a
questo scopo di tutti gli strumenti disponibili nell’età delle comunicazioni di
massa. Attraverso la stampa i discorsi del Führer, i film di propaganda, il
nazismo propose ai tedeschi un’utopia reazionaria e “ruralista”: un mondo
popolato da uomini belli e sani, profondamente legati alla loro terra; una
società libera dagli orrori delle metropoli moderne e dalle malattie della
civiltà industriale. Quello nazista fu il primo governo a istituire in tempo di
pace un Ministero per la Propaganda che, affidato a Goebbels, divenne uno dei
principali centri di potere del regime. La stampa fu sottoposta a strettissimo
controllo e inglobata in un unico apparato alle dipendenza del ministero. Gli
intellettuali furono inquadrati in un’organizzazione nazionale (la Camera di
cultura del Reich) e dovettero fare atto di adesione al regime: quelli che non
vollero piegarsi furono costretti al silenzio o obbligati a lasciare il paese.
Tutti i momenti più significativi della vita del regime furono infatti scanditi
da feste e cerimonie pubbliche: sfilate militari, esibizioni sportive di
gruppo, e soprattutto adunate di massa culminanti nel discorso del Führer.
L’importanza delle cerimonie pubbliche non si limitava ad aspetti di parata: il
cittadino trovava quei momenti come momenti di socializzazione che la vita
delle grandi città non offriva spontaneamente; trovava quegli elementi
“sacrali” che aveva perso col tramonto della vecchia società contadina.
1.2.1.
Origini e
funzione dei Lager
Sin
dagli anni trenta in Germania il regime nazista istituì i campi (lager) di
concentramento in cui venivano rinchiuse varie categorie di persone: i
prigionieri politici, gli “asociali”, cioè i delinquenti recidivi e i colpevoli
di crimini sessuali; gli ebrei. Questi ultimi cominciarono ad essere deportati
nei lager, dopo la “notte dei cristalli” del 1938. I deportati portavano sulla
divisa un triangolo colorato che indicava la categoria di appartenenza; giallo
per gli ebrei, nero per gli asociali, rosso per i detenuti politici, viola per
gli ecclesiastici, verde per i criminali comuni. Durante la guerra vennero
internate centinaia di migliaia di persone e fu necessario costruire molti
altri campi. Complessivamente si calcola che le vittime dei lager nazisti siano
state 11 milioni.
Alcuni
lager furono destinati esclusivamente all’uccisione in massa degli ebrei. È il
caso dei sei campi situati in Polonia tra i quali Auschwitz. I centri di
sterminio furono costruiti lungo le linee ferroviarie per facilitare il
trasporto delle vittime. La polizia pagava alle ferrovie dello Stato un
biglietto di sola andata di terza classe per ogni deportato; se il carico
superava le 1000 persone, si applicava una tariffa ridotta.
Ad
Auschwitz, come in molti altri campi, veniva anche sfruttato il lavoro dei
prigionieri. Tale sfruttamento divenne necessario per l’economia tedesca negli
anni della guerra. A questo proposito lo storico Raul Hilberg, autore di una
vasta e documentata ricerca sullo sterminio degli ebrei, mette in evidenza un
paradosso: la Germania soffriva per la mancanza di manodopera proprio a causa
delle massicce deportazioni e cercava di colmare la carenza sfruttando quegli
stessi prigionieri che dovevano essere eliminati. I deportati dovevano
lavorare, fino allo sfinimento, alla costruzione e alla manutenzione dei lager
stessi; erano impiegati, inoltre, in cave di ghiaia o di pietra o ancora in
lavori di fabbrica. Alcune industrie private sfruttavano questa manodopera a
basso costo limitandosi a pagare un piccolo contributo al Reich. I deportati
infine erano usati come cavie per sperimentazioni mediche.
L’eliminazione
degli ebrei nei lager venne organizzata e pianificata con agghiacciante
precisione. Le operazioni che si svolgevano nei centri di sterminio sono simili
al processo di produzione di una moderna fabbrica. Si può parlare di uccisioni
“a catena”, secondo la definizione usata da Friedrich Entress, un medico
nazista processato per i crimini che aveva commesso ad Auschwitz. La catena
iniziava fin dall’arrivo del treno nel campo. I deportati scendevano dai vagoni
e dovevano consegnare i loro effetti personali: tutto veniva confiscato e
immagazzinato dalle SS. I vecchi, i malati e i bambini piccoli venivano uccisi
sul posto, mentre gli individui più robusti venivano destinati al lavoro.
Il
campo di concentramento di Auschwitz fu il più grande centro di sterminio
nazista. Si trovava nell’alta Slesia, lungo la ferrovia. I primi deportati vi
giunsero nel 1940 e il capo delle SS, Heinrich Himmler, decise che il campo
doveva essere ingrandito perché si intendeva rinchiudere al suo interno ebrei
provenienti da tutta l’Europa. Il Führer infatti aveva ordinato la “soluzione
finale”, cioè l’eliminazione totale del popolo ebraico. Per eseguire il
terribile progetto di Hitler vennero costruiti altri due campi. Auschwitz I (il
campo originario) e Auschwitz II; Auschwitz III distava 6 km e si trovava in
prossimità della IG Farben, una delle industrie che sfruttavano la manodopera
dei deportati. Nella notte fra il 21 e il 22 gennaio 1945 le SS fecero saltare
in aria con l’esplosivo i forni crematori, per eliminare le prove degli orrori
compiuti. Così, quando l’Armata Rossa entrò ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945,
si trovò di fronte un cumulo di macerie. Nel luglio del 2000 il parlamento
italiano ha stabilito con una legge che il 27 gennaio, il giorno della
liberazione di Auschwitz, venga celebrato il “giorno della memoria”, dedicato
al ricordo dello sterminio degli ebrei.
2.
Religione:
dal mito al cristianesimo
Con il progresso l’aspetto religioso e, in particolar modo,
la fede, mutano continuamente. Basti pensare all’antichità quando ancora tutti
i fenomeni naturali si presentavano, agli occhi dei primi uomini, misteriosi: l’alternarsi
del giorno e della notte, i fenomeni delle eclissi, l’apparizione delle comete.
Tutti questi fenomeni venivano, dunque, spiegati con le divinità. Poi lentamente
con l’osservazione e la sperimentazione, si è giunti a capire le cause dei
fenomeni e le leggi che li regolano. Così l’immagine delle divinità è andata modificandosi
nel tempo fino a giungere all’idea di un Dio unico creatore di tutte le cose.
Il passaggio dal politeismo al monoteismo è un passaggio graduale che vede il
suo culmine con l’avvento della religione cristiana.
Il Cristianesimo emerse dal Giudaismo nel I secolo. I cristiani assunsero
dal Giudaismo le sue Sacre Scritture, dottrine fondamentali come il monoteismo, la fede in un Messia o Cristo,
forme del culto (incluso il sacerdozio), concetti di luoghi e tempi sacri.
Il libro degli Atti
degli Apostoli
dice che i primi ad essere chiamati "cristiani" erano stati i
discepoli di Gesù che si radunavano nella città di Antiochia e che vi si erano rifugiati dopo le
prime persecuzioni in Palestina, probabilmente pochi anni dopo la
morte di Gesù.
2.1.
La nascita
della letteratura cristiana: apologetica e patristica
La
letteratura cristiana nasce relativamente tardi rispetto alla diffusione del
cristianesimo. La lingua usata dai primi cristiani fu infatti il greco, in
quanto la nuova religione si diffuse inizialmente negli ambienti delle comunità
giudaiche, sparse in tutte le principali città del Mediterraneo, e in queste
comunità l’uso del greco prevaleva, anche in Occidente, su quello del latino.
La letteratura cristiana in lingua latina nasce infatti sotto forma di
letteratura di traduzione, intorno alla metà del II secolo, in seguito alla
diffusione del cristianesimo in ambienti in cui il greco non era conosciuto. Le
prime attestazioni consistono in traduzioni della Bibbia dal greco al latino:
esse perseguivano evidentemente lo scopo di consentire a tutti di accostarsi
alle sacre Scritture. Una manifestazione letteraria tipica del cristianesimo
dei primi secoli è l’apologetica, ossia la letteratura che si propone di
difendere la nuova religione dagli attacchi e dalle accuse che le venivano
rivolti dai suoi avversari (il termine apologetica,
d’origine greca, significa appunto “discorso di difesa”).
Fra
i primi e maggiori esponenti dell’apologetica è da annoverare Marco Minucio
Felice, autore di uno scritto, intitolato Octavius.
L’Octavius è un dialogo con tre
interlocutori che discutono intorno alle due diverse opinioni religiose: il
paganesimo e il cristianesimo. L’operetta si rivolge a un pubblico di pagani
colti, di cui si propone di combattere i pregiudizi contro il cristianesimo,
facendo appello ad argomentazioni razionali e attingendo in larga misura al
patrimonio filosofico classico. L’autore tende a sottolineare gli elementi di
continuità con la cultura pagana più che non quelli di rottura. Tuttavia la
novità e la superiorità della fede cristiana sono rilevate con energica
convinzione. In particolare, l’Octavius
muove un attacco aperto contro l’esaltazione nazionalistica e propagandistica
della romanità: la grandezza di Roma, dice Ottavio, uno degli interlocutori, è
fondata sulla sventura degli altri. A questa convinzione della vita basata
sulla violenza e sulla sopraffazione dei più deboli da parte dei più forti egli
contrappone la visione cristiana dei rapporti fra gli uomini, fondata sul
rispetto della dignità di ogni persona.
Altro
autore cristiano che opera intorno alla metà del II secolo è Quinto Settimio
Fiorente Tertulliano. L’opera apologetica più importante dello scrittore è l’Apologeticum. Rivolto non più
genericamente ai pagani, ma alle autorità politiche, l’Apologeticum è strutturato in due grandi sezioni: la prima è una
confutazione delle accuse assurde e calunniose contro i cristiani , mentre la
seconda respinge le accuse più serie, di carattere religioso e politico, di
sacrilegio e di lesa maestà.
Tipico
dell’atteggiamento di Tertulliano è l’attacco rivolto contro gli avversari,
accusati all’inizio di odiare e di condannare i cristiani senza conoscerli e
senza indagare sulle loro colpe presunte. Lo scrittore prosegue con l’accusare
la corruzione della società pagana: sono proprio i pagani a commettere i
delitti imputati ai cristiani. Inoltre la religione pagana è immorale e i suoi
dei vengono messi in ridicolo dalle opere dei poeti e offesi dai loro stessi
cultori. La superiorità della religione cristiana è solennemente affermata nel
momento in cui l’autore illustra gli attributi dell’unico Dio. Nell’ultima
parte del suo trattato Tertulliano confuta l’accusa che i cristiani siano causa
delle calamità pubbliche e che siano inutili alla società. Egli afferma, al
contrario, la volontà dei cristiani di collaborare efficacemente per il bene
comune. L’opera si conclude con l’esaltazione del martirio e con l’affermazione
che la persecuzione non solo non riesce a distruggere il cristianesimo, ma anzi
ne incrementa gli aderenti.
Con
l'editto di Milano (313), Costantino poneva fine alle persecuzioni e concedeva
libertà di culto alla nuova religione, la letteratura latino-cristiana entrò in
una nuova fase: la patristica. Nasceva la necessità di discutere e definire i
dogmi, di interpretare criticamente i testi sacri per elaborare una dottrina
teologica organica e completa, senza abbandonare però la polemica contro gli
scismi e le eresie. Gli scrittori, che si distinsero in questa produzione e che
operarono una fusione tra il cristianesimo e la cultura classica, sono i
cosiddetti Padri della Chiesa e il loro operare in questo senso fece dei secoli
IV e V il periodo d'oro della letteratura latino-cristiana.
2.1.1. Patristica – Agostino: il padre della chiesa
Le
Confessioni, in latino Confessionum libri o Confessiones, sono
un’opera autobiografica in tredici libri di Agostino D’Ippona, Padre della
Chiesa, scritta intorno al IV secolo d. C. . L’opera è costituita da un
continuo discorso che Agostino rivolge a Dio, (da qui il termine confessione) e
inizia con una Invocatio Dei.
Successivamente
l’autore incomincia con una narrazione, interrotta frequentemente da ampie e
profonde riflessioni della sua infanzia e degli anni dei suoi studi e di
professione come retore nella città di Cartagine.
Durante
questo periodo Agostino vive una vita dissoluta e corrotta, fino a quando a 19
anni la lettura dell’Hortensius di
Cicerone lo indirizza sulla via della filosofia che lo porta all’adesione del
Manicheismo. Il suo lavoro lo porta quindi a Roma dove avviene la sua
conversione al Cristianesimo e viene battezzato dall’allora vescovo di Milano,
Sant’Ambrogio. La narrazione autobiografica si conclude con il ritorno in
Africa e la nomina a vescovo di Ippona.
Negli
ultimi capitoli l’autore rivolge la sua attenzione ad una serie di
considerazioni sull’essenza del tempo, sul suo ruolo nella vita dell’uomo e
sulla sua origine.
Nella
sua opera Agostino svela i tre significati del termine confessio:
§ Il primo è quello di confessio peccatorum in cui un’anima umilmente riconosce i propri
peccati: tale significato è sviluppato nella prima parte della narrazione,
incentrata sulle dissolutezze e sugli errori degli anni precedenti alla
conversione.
§ Il secondo è quello di laus dei, in cui un’anima loda la maestà
e la misericordia di Dio; questo si verifica dopo la conversione.
§ Il terzo è la confessio fidei in cui un’anima spiega
sinceramente le ragioni della propria fede.
Una
caratteristica formale che contraddistingue l’opera è il rivolgersi continuo e
diretto a Dio, che diventa intenzionalmente un colloquio informale, che cede
ora alla preghiera, ora al ringraziamento, ora alla supplica. Lo stile delle
confessioni è inoltre elevato: nell’opera Agostino esibisce tutte le sue
abilità di retore e di grande conoscitore delle Sacre Scritture. L’autore
inoltre alterna espressioni concise e rapide ad un periodare articolato e
complesso, ricco di figure retoriche, lasciandoci spesso un’espressione di
artificio. Tematica centrale dell’opera è il rapporto tra Dio e l’uomo e in
particolare di come l’uomo, che cerca la felicità e dunque la verità, per
conoscere Dio non possa ricorrere alla sola ragione ma abbia bisogno anche del
sostegno della Grazia divina e, quindi della fede.
Fra
i motivi della nascita delle Confessioni va considerata anche la necessità, in
un periodo difficile per il Cristianesimo, di controbattere ad alcune eresie e
di risolvere questioni inerenti alla fede sollevate dalle recenti persecuzioni
in alcune zone del Mediterraneo. Alcuni hanno ipotizzato che Agostino abbia
voluto giustificarsi con i Donatisti,
che gli rinfacciavano le intemperanze giovanili per screditarlo, altri studiosi
hanno visto nell’opera una confessione pubblica come quella dei catecumeni. La
tesi più appropriata è quella che egli abbia voluto esemplificare agli altri,
attraverso la propria esperienza personale, il faticoso ascendere della sua
anima verso il Padre celeste, per celebrarne la grandezza e la misericordia.
Per
tale motivo «le confessioni» sono considerate la storia di una peregrinatio
animae in cui i lettori di epoche e culture diverse possono trovare
conforto e stimolo per la meditazione sugli eterni e immutabili problemi
esistenziali.
La
fortuna delle Confessioni fu grandissima, raggiungendo una sintesi di fede,
arte e cultura che nei secoli ispirerà grandissimi artisti e letterati come
Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Botticelli.
2.2.
L’arte
cristiana – Antoni Gaudì: l’architetto di Dio
I
misteri del cristianesimo attraversano i secoli fino ai nostri giorni
influenzando anche l’arte. La Sagrada Familia, opera incompiuta dell’architetto
Antoni Gaudi, ne è un perfetto esempio e il suo artefice è stato soprannominato
«l’architetto di Dio». Il 18 luglio 1936 le truppe guidate dal generale
Francisco Franco pronunciano il colpo di stato. Non riconoscono il parlamento
liberamente eletto dai cittadini spagnoli e inizia così un’atroce guerra
civile: da un lato i franchisti appoggiati da Mussolini e Hitler dall’altro i
repubblicani sostenuti da Stalin.
In
questo momento storico, tragico per la spagna, accade un fatto all’apparenza
insignificante: un piccolo incidente. È il 20 luglio del 1936 quando un gruppo
di anarchici dà fuoco allo studio dell’architetto Antoni Gaudì. A bruciare per
sempre i progetti originali di un edificio tra i più importanti d’Europa: la
Sagrada Familia.
Nato
a Reus in provincia di Tarragona nel 1852, Antoni Gaudì è stato il massimo
esponente dell’architettura modernista catalana. Il suo stile è unico, le sue
forme imitano la natura attraverso linee costruttive imprevedibili. La sua
fortuna la deve soprattutto all’incontro con Eusebi Güell, un ricco mecenate
catalano che innamorato dall’arte di Gaudì finanzio e commissiono la maggior
parte delle sue opere. Nel 1884, a soli 31 anni, a Gaudì viene affidata la
direzione dei lavori della basilica della Sagrada Familia, un progetto che lo
impegnerà fino all’ultimo giorno della sua morte e che non riuscirà a
completare. Nel 1998 il cardinale Ricard-Maria Carles avvia ufficialmente il
processo di beatificazione per Antoni Gaudì.
Gaudì
si considerava un “copiatore” e non un creatore di forme in quanto l’unico
Creatore, secondo l’architetto catalano, è Dio. Egli infatti cercava le
soluzioni nella Natura e le trasferiva in architettura. Egli, dotato di un
eccezionale spirito di osservazione, si accorse cha la Natura era in grado di
creare forme di grande bellezza e utilità. Forme e strutture totalmente
logiche, che sono le uniche possibili, adatte e attraenti per gli esseri
viventi della terra. Ciò nonostante, queste strutture naturali non si formano
quasi mai mediante la geometria astratta degli architetti, bensì con la
cosiddetta geometria “rigata”, fatta di superfici incurvate formate da linee
rette. Tutta l’architettura di Gaudì si basò sull’idea di trasferire le forme
rigate alla costruzione architettonica. La funzionalità consiste nel prendere
quelle forme che la Natura offre con generosità. Un caso evidente è l’uso
costante di Gaudì dell’arco catenario o, anche definito, impropriamente, arco
parabolico. È un arco la cui curva ricorda quella di
una lunga catena tenuta dalle due estremità e lasciata pendere, la catenaria
appunto, che somiglia ad una parabola. È detto anche arco equilibrato perché
dal punto di vista meccanico consente un’equa distribuzione dei carichi. Gaudì,
infatti, sosteneva che cercando la funzionalità si sarebbe arrivati alla
bellezza. Infatti egli stesso affermava che i fiori posseggono colori vivi e
brillanti e profumi gradevoli, non per ispirare i poeti e i pittori, ma per
attirare gli insetti e facilitare la riproduzione della specie.
La
Sagrada Familia è una basilica cattolica romana caratterizzata da una pianta a
croce latina a cinque navate. Nonostante Gaudì ci abbia lavorato per oltre 40
anni, a oggi solo il 55% immaginato da Gaudì è stato completato. Il progetto
originario dell’edificio prevedeva la rappresentazione di un’intera cosmogonia,
una sorta di poema mistico carico di una complessa simbologia
mistico-cristiana: 18 torri affusolate rappresenteranno i 12 apostoli, i 4
evangelisti, la madonna e, la più alta di tutte, Gesù. Il campanile più
importante è quello dedicato a Gesù Cristo, alto 170 metri ed incoronato da una
grande croce. La particolarità di questo campanile è proprio la sua croce, che
brilla di giorno grazie ai mosaici da cui è composta e splende anche di notte
per la luce proiettata dagli altri campanili. La chiesa avrà tre grandi
facciate: la Natività, la Gloria e la Passione. La prima è orientata ad est,
verso l’alba e per questo motivo è dedicata alla nascita di Gesù. L’entrata è
geometricamente divisa in tre per rappresentare le tre virtù cristiane:
Speranza, Fede e Carità. L’ultima, invece, è orientata ad ovest, verso il
tramonto. Linee geometriche spoglie, brusche e austere rappresentano la
passione e la morte di Gesù Cristo. Le colonne sembrano ossa e tutta la
facciata colpisce per i suoi personaggi aguzzi, emaciati, tormentati.
Così
come l’aveva inteso Gaudí, l'interno del Tempio è come una sorta di bosco
naturale. Infatti la disposizione delle colonne ricorda i tronchi degli alberi
con i loro rami. Nella crociera, chiusa dall’alta cupola di 60 metri, si notano
quattro pilastri di porfido dedicati agli evangelisti. Le colonne degli
evangelisti sono circondate da dodici colonne che rappresentano gli Apostoli e,
quelle di Pietro e Paolo, si trovano all'entrata del presbiterio. Infine, le
cinquantadue colonne che sostengono il tempio rappresentano tutte le domeniche
dell'anno.
Al
centro del presbiterio, in cima all’altare, si trova Gesù Crocifisso, che
completa la Trinità con il Padre (la cupola dell’abside) e lo Spirito Santo (la
lanterna a sette lati che indicano rispettivamente le sette virtù teologali).
All’interno, in corrispondenza delle facciate esterne della Natività e della
Passione, si contemplano le immagini di San Giuseppe e della Vergine Maria.
Così, con il Cristo al centro dell’abside, si completa la Sacra Famiglia.
3.
L’ateismo e
la critica della teologia
Il
termine ateismo deriva dal greco atheótes.
L’alfa privativo in greco, esprime sia la negazione che la privazione di ciò
che viene affermato nel nome: á-theos significa quindi negazione del theós,
negazione di Dio.
3.1. Ludwig
Andreas Feuerbach – critica della teologia
Nelle
due principali opere, dedicate alla critica della teologia, L’essenza del cristianesimo e L’essenza della religione, Ludwig
Andreas Feuerbach enuncia la più esplicita professione di ateismo, auspicando
la «rinunzia a un Dio diverso dell’uomo», cioè il tramonto della religione e
l’avvento di una filosofia «decisamente anticristiana». Feuerbach sottopone la
religione ad un’analisi critica per far emergere la sua vera essenza, ossia la
sua radice interamente antropologica; la religione è un prodotto esclusivamente
umano; alla base dell’esperienza religiosa sono infatti sentimenti primordiali
(la paura, il senso di dipendenza dell’uomo dalla natura e dalla società) e un
fondamentale bisogno di certezze.
La
filosofia di Feuerbach muove dall’esigenza di cogliere l’uomo e la realtà nella
loro concretezza, ed ha come presupposto teorico e metodologico una critica
radicale del modo idealistico religioso di rapportarsi al mondo. L’idealismo e
la religione esprimono, secondo Feuerbach, una visione rovesciata del mondo,
poiché rendono soggetto (ad esempio il pensiero) ciò che nella realtà è
predicato e predicato (ad esempio l’essere) ciò che nella realtà è soggetto;
fanno della causa (ad esempio l’essere) l’effetto e dell’effetto (ad esempio il
pensiero) la causa. Feuerbach percorre il cammino opposto e propone
un’inversione dei rapporti tradizionali fra soggetto-oggetto,
concreto-astratto.
Applicando
questa metodologia materialista alla religione, Feuerbach afferma che non è Dio
(l’astratto) ad aver creato l’uomo (il concreto), ma l’uomo ad aver creato Dio.
Infatti Dio, secondo Feuerbach, e nient’altro che la proiezione illusoria o
l’oggettivazione fantastica di qualità umane, in particolare di quelle
«perfezioni» caratteristiche della nostra specie che sono la ragione, la
volontà e il cuore. In altri termini, il divino è nient’altro che l’umano in
generale, proiettato in un mitico aldilà e adorato come tale: «La religione è
l’insieme dei rapporti dell’uomo con se stesso, o meglio con il proprio essere,
riguardato però come un altro essere…
Tutte le qualificazioni dell’essere divino sono perciò qualificazioni
dell’essere umano». L’uomo sposta il suo essere fuori da sé, prima di trovarlo
in sé. La religione è l’infanzia dell’umanità; il bambino vede il proprio essere,
l’uomo, fuori da sé, ossia oggettiva il proprio essere in un altro uomo. Perciò
il progresso storico delle religioni consiste appunto nel considerare in un
secondo tempo come soggetto e umano ciò che le prime religioni consideravano
come oggettivo e adoravano come Dio.
Appreso
che Dio è l’essenza dell’uomo personificata, rimane da vedere, in concreto,
come nasca, nell’uomo, l’idea di Dio. A questo proposito Feuerbach si è
variamente espresso. Talora egli tende a porre l’origine dell’idea di Dio nel fatto
che l’uomo, a differenza dell’animale, ha coscienza di se stesso non solo come
individuo ma anche come specie. Mentre come individuo si sente debole e
limitato, come specie si sente invece infinito ed onnipotente. Da ciò la figura
di Dio, il quale è niente altro che una personificazione immaginaria delle
qualità della specie. Altre volte Feuerbach tende a scorgere l’origine
dell’idea di Dio nell’opposizione umana tra volere e potere. Opposizione che
porta l’individuo a costruirsi una divinità in cui tutti i suoi desideri
appaiono realizzati. Nel volere, nel desiderare, nel rappresentare l’uomo è
illimitato, onnipotente: è Dio; ma nel potere, nell’ottenere, nella realtà,
egli è condizionato, dipendente, limitato. «il tuo Dio è tale quale è il tuo
cuore. Quali i desideri degli uomini tali i loro dei». Altre volte, Feuerbach
ha visto la genesi primordiale dell’idea di Dio nel sentimento di dipendenza
che l’uomo trova di fronte alla natura. Sentimento che ha spinto l’uomo ad
adorare quelle cose senza le quali egli non potrebbe esistere: la luce, l’aria,
l’acqua e la terra.
Qualunque
sia l’origine della religione è comunque certo, secondo Feuerbach, che essa
costituisce una forma di alienazione, intendendo con questo termine quello
stato patologico per cui l’uomo, «scindendosi», proietta fuori di sé una
Potenza superiore (Dio) alla quale si sottomette anche nei modi più umilianti e
crudeli: si pensi ai sacrifici di vite umane compiuti per scopi religiosi
(sacrificio di Ifigenia). Ma se la religione è il frutto di un’oggettivazione
alienata e alienante, in virtù della quale l’uomo tanto più pone in Dio quanto
più toglie a se stesso, l’ateismo si configura non solo come un atto di onestà
filosofica, ma anche come un vero e proprio dovere morale. Infatti, secondo Feuerbach,
è ormai venuto il tempo che l’uomo recuperi in sé i predicati che egli ha proiettato fuori di sé, in quello specchio illusorio di astratto
della propria essenza che è Dio. L’ateismo, dunque, si configura come la
riappropriazione, da parte dell’uomo, della propria essenza.
La
nuova filosofia, delineata da Feuerbach, ha la forma di un umanismo
naturalistico. Umanismo: poiché fa dell’uomo l’oggetto e lo scopo del discorso
filosofico. Naturalistico perché fa della natura la realtà primaria da cui tutto
dipende compreso l’uomo. Quella di Feuerbach è una nuova antropologia
incentrata sull’amore dell’uomo per l’uomo. Nucleo di questo umanismo
naturalistico è il rifiuto di considerare l’individuo come astratta
spiritualità e la concezione dell’uomo
come essere che vive, che soffre, che gioisce e che avverte una serie di
necessità. Un essere, insomma, «di carne e di sangue», che risulta essere
condizionato dal corpo e dalla sensibilità. Sensibilità che per Feuerbach non
si riduce ad un atteggiamento puramente conoscitivo ma che presenta una valenza
pratica, come dimostra il suo legame con l’amore ossia con quella passione
fondamentale che fa tutt’uno con la vita: «non essere alcuna cosa e non amare
alcuna cosa sono tutt’uno». Ammettere che l’uomo è bisogno, sensibilità e amore
equivale nello stesso tempo di ammettere la necessità degli altri. Da ciò il
«comunismo» filosofico di Feuerbach: «l’essenza dell’uomo è contenuta soltanto
nella comunità».
3.2. Karl Marx
– Religione: oppio dei popoli
Un punto
che unisce e divide Marx da Feuerbach è l’interpretazione della religione. Pur
avendo «scoperto» il meccanismo generale dell’alienazione religiosa-per cui non
è Dio a creare l’uomo, ma l’uomo a «proiettare» Dio sulla base dei propri
bisogni- Feuerbach, in virtù della sua concezione prevalentemente
«naturalistica» dell’uomo, non è stato in grado, secondo Marx, di cogliere le
cause reali del fenomeno religioso, ne di offrire dei validi mezzi per il suo
superamento. Infatti all’autore è sfuggito che chi produce non è un soggetto astratto, avulso dalla storia ed
immutabilmente uguale a se stesso, ma un individuo che è «un prodotto sociale».
Ma se «l’uomo non è altro che il mondo dell’uomo, lo stato, la società»,
risulta ovvio, per Marx, che le radici del fenomeno religioso non vanno
ricercate nell’uomo in quanto tale,
ma in un tipo storico di società. La religione in sostanza è un «sospiro della
creatura oppressa», ossia il prodotto di un’umanità alienata e sofferente per
causa delle ingiustizie sociali, che cerca illusoriamente nell’aldilà ciò che è
stato negato di fatto nell’aldiquà.
L’unico
modo per eliminarla non è la critica filosofica, ma la trasformazione
rivoluzionaria della società. In altri termini, se la religione è il frutto
malato di una società malata, l’unico modo per sradicarla è quello di
distruggere le strutture sociali che la producono. La disalienazione religiosa
ha dunque, come suo presupposto, la disalienazione economica, ossia
l’abbattimento della società di classe.
Secondo
Marx un altro limite di fondo del pensiero di Feuerbach risiede nel tendenziale
contemplativismo e teoreticismo. Infatti egli, a giudizio di Marx, ha ignorato
l’aspetto attivo e pratico della natura umana e ha cercato la soluzione dei
problemi reali nella dimensione della teoria, trascurando completamente
l’aspetto della praxis
rivoluzionaria. Marx oppone un nuovo materialismo che considera l’uomo
soprattutto come prassi, ritenendo che la soluzione dei problemi sia da
ricercarsi nell’azione: «i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi
diversi; si tratta però di mutarlo».
Nietzsche:
La «morte di Dio» e la fine delle illusioni metafisiche
Per
comprendere in modo adeguato che cosa significhi la «morte di Dio» occorre
tenere presente che per Nietzesche Dio è sostanzialmente: 1) il simbolo di ogni
prospettiva oltremondana che ponga il senso dell’essere al di là dell’essere,
ovvero in un altro mondo contrapposto a questo mondo; 2) la personificazione
delle certezze ultime dell’umanità, ossia di tutte le credenze metafisiche e
religiose elaborate attraverso i millenni per dare un «senso» e un ordine «rassicurante»
alla vita.
Secondo
Nietzesche Dio e l’oltre-mondo hanno rappresentato storicamente una fuga dalla
vita e una rivolta contro questo mondo. «In Dio è dichiarata inimicizia alla
vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia
dell’«aldiquà», di ogni menzogna dell’«aldilà». L’immagine di un cosmo ordinato
e benefico è soltanto una costruzione della nostra mente, ai fini di sopportare
la durezza dell’esistenza: «C’è un solo mondo ed è falso, crudele,
contradditorio, corruttore, senza senso…Noi abbiamo bisogno della menzogna per
vincere questa realtà, cioè per vivere». L’«amore», l’entusiasmo, «Dio» - tutte
finezze di un estremo inganno di sé, tutte seduzioni che spingono a vivere!»
Essendo
la più antica delle bugie vitali, Dio si configura come la quintessenza di
tutte le credenze escogitate attraverso i tempi per poter fronteggiare il volto
caotico e meduseo dell’esistenza. Analogamente a Schopenhauer, per il quale
l’ateismo era «qualcosa di dato, di palpabile, d’indiscutibile», per Nietzesche
è la realtà stessa, cioè l’essenza malefica e caotica del mondo, a confutare
l’idea di Dio. «Un tempo si cercava di dimostrare che Dio non esiste, - oggi si
mostra come ha potuto avere origine la fede nell’esistenza di un Dio, e per
quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza: in tal modo
una controdimostrazione della non esistenza di Dio diventa superflua.
In
La gaia scienza Nietzesche
«drammatizza» il messaggio della «morte di Dio» con il noto racconto dell’«uomo
folle»:
«Avete
sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del
mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio!
Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non
credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è
perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di
noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran
confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi
sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati
noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come
abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia?
Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a
sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora?
Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno
precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste
ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito
nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non
seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la
mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non
udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione?
Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo
ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto
di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è
dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con
quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri
dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa
azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dei, per apparire almeno degni di
essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi
apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai
siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo
tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e
lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in
frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio
tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo
cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono
vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono
tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate.
Quest’azione è ancora sempre più lontana da loro delle più lontane
costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si racconta
ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse
chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone
fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente
in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i
sepolcri di Dio?”».
L’uomo
folle = il filosofo – profeta; le risa ironiche degli uomini del mercato =
l’ateismo ottimistico e superficiale dei filosofi dell’ottocento, insensibili
alla portata e agli effetti della morte di Dio; la difficoltà di bere il mare,
di strusciare l’orizzonte e di sciogliere la terra dal sole = allusione al
carattere arduo e sovra-umano dell’uccisione di Dio; il precipitare nello
spazio vuoto, la mancanza di un alto e di un basso, il freddo e la notte = il
senso di «vertigine» e di «smarrimento» che seguono allo svanire di ogni ubi consistam ed al venire meno di
certezze e punti di riferimento assoluti; la necessità di divenire «dei – noi
stessi» per apparire degni della «grandezza» dell’azione più grande = richiamo al fatto che
per «reggere» la morte di Dio, l’uomo deve farsi «superuomo»; il giungere
«troppo presto» = la coscienza che la morte di Dio non si è ancora
concretizzata in un fatto di massa, anche se è inevitabile che lo diventi nel
prossimo futuro; le chiese come sepolcri di Dio = allusione alla crisi moderna delle
religioni, considerate alla stregua di ormai cadaverici «residui» del passato.
Così
infatti è l’uomo: anche se un articolo di fede potesse essere mille volte
confutato, - posto che egli lo sentisse necessario, - continuerebbe sempre a
tenerlo per «vero».
La
descrizione nietzschiana dello smarrimento esistenziale prodotto dalla morte di
Dio è così «partecipata» che sembrerebbe opera di un credente. In realtà, dal
contesto del discorso di Nietzesche appare chiaro che la morte di Dio
costituisce si un «trauma», ma solo in relazione ad un uomo – non –ancora –
superuomo, e che, proprio in virtù di essa, può divenire tale. La morte di Dio
coincide infatti con l’atto di nascita del superuomo. Solo chi ha il coraggio
di guardare in faccia la realtà e di prendere atto del crollo degli assoluti è
ormai maturo, secondo Nietzesche, per varcare l’abisso che divide l’uomo
dall’oltre – uomo. Il superuomo ha dietro di sé, come condizione necessaria del
suo essere, la morte di Dio e la vertigine da essa provocata, ma ha davanti a
sé, a titolo di conquista, il «mare aperto» delle possibilità connesse ad una libera
progettazione della propria esistenza al di là di ogni struttura metafisica
data: «Noi filosofi e spiriti liberi
alla notizia che il vecchi Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi
di una nuova aurora; finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle
nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo.
L’ateismo
è, in Nietzsche, una sorta di istinto filosofico. «Sono troppo curioso, troppo
problematico, troppo tracotante, perché possa piacermi una risposta grossolana.
Dio è una risposta grossolana, una indelicatezza verso noi pensatori, in fondo
è solo un grossolano divieto che ci vien fatto: non dovete pensare!»
In
ogni caso, per Nietzesche l’uomo può diventare superuomo soltanto dopo essere
passato sul cadavere di tutte le divinità: «Morti son tutti gli dei: ora
vogliamo che il superuomo viva» esclama Zarathustra.
L’ateismo
di Nietzesche vuole essere così radicale, che egli non contesta soltanto Dio,
ma anche ogni suo ipotetico surrogato, ben conscio che gli uomini, abbattute le
antiche divinità, tendono inevitabilmente a crearne altre. Nietzesche racconta
di uomini che si mettono ad adorare un asino, con grande ira del filosofo –
profeta, il quale constata come il passaggio dall’uomo al superuomo sia lento e
difficile. L’«asino» è simbolo di ogni sostituto idolatrico di Dio ed allude
probabilmente alle varie forme dell’ateismo «positivo» dell’Ottocento, nelle
quali il vecchi Dio si trova «rimpiazzato» da altrettanti supplenti. «Dopo che
Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una
caverna- un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli
uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la
sua ombra. E noi, non dobbiamo vincere anche la sua ombra!» Infatti, a scanso
di equivoci, quando si sostiene che Dio, in Nietzesche, è definitivamente
morto, per «Dio», si intende, a rigore,
ciò che storicamente, da parte dei filosofi, si è concepito come tale, ovvero
l’Essere metafisico e il Valore dei valori.
La
morte di Dio coincide con il tramonto definitivo del platonismo, che per Nietzesche
è la metafisica per eccellenza. Lo stesso cristianesimo è nient’altro che
platonismo. Infatti, è stato Platone a «calunniare» filosoficamente questo
mondo e ad inventare l’idea di un mondo che si contrappone a quello apparente
in cui viviamo. In seguito, tale mondo ha finito per rivelarsi come una «favola».
Ciò è storicamente avvenuto attraverso un processo che Nietzesche scandirà in
sei tappe:
1. La filosofia greca;
2. Il Cristianesimo;
3. La filosofia kantiana;
4. Il positivismo agnostico;
5. La filosofia del mattino;
6. La filosofia di Zarathustra.
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