lunedì 25 luglio 2016

Sul silenzio: sintonizzazione




La prima domanda che dobbiamo porci è perché maila natura abbia stabilito che i bambini piccoli non parlinonon comprendano il linguaggio nel primo anno di vita.La nostra risposta è che i bambini hanno fin troppo da impararesui processi e sulle strutture fondamentali degli scambi interpersonali”Daniel N. Stern
Qualche giorno fa su un libro di J. Goldestein intitolato Mindfulness ho letto un aneddoto su Teresa di Calcutta: “Una volta chiesero a madre Teresa cosa dicesse a Dio quando pregava. ‘Non dico nulla’, rispose. ‘Semplicemente ascolto’. L’intervistatore volle, allora, sapere cosa le dicesse Dio. ‘Non dice nulla’ replicò madre Teresa, ‘Semplicemente ascolta; e se non lo capisce, non saprei come spiegarglielo’.”
Credo sia una risposta sintetica, bella e, al contempo, molto dura. Prima parla degli effetti di una perfetta sintonizzazione: quella che va oltre le parole e che elimina le richieste perché ottiene una vicinanza e un’affinità che non hanno bisogno d’altro; poi abbatte l’intervistatore con una sorta di aut-aut: o capisci questo o non puoi capire!
E’ anche un’esortazione, tuttavia: una sorta di invito a stare in ascolto, un’apologia del silenzio. Come quella compiuta da quel maestro Giapponese che di fronte alla richiesta di un ammiratore occidentale che gli chiedeva di spiegargli quale fosse l’essenza dello zen disse: “Beviamoci prima un tè” cominciando poi a versarlo, non smettendo nemmeno quando la tazza era ormai colma, e rispondendo alle proteste dell’aspirante discepolo con un “Questa tazza è come la sua mente, troppo piena per sentire, troppo colma di domande e di risposte.”
Sono gesti che tentano di aggirare una posizione, cunei che provano a scalzare un atteggiamento per favorire “un vuoto”, per togliere qualcosa così che ci sia spazio per… altro.
A volte le parole e le spiegazioni lasciano intatto il terreno che vorrebbero dissodare. Occorre un’esperienza, la sperimentazione soggettiva di un’azione, di un gesto, di una sequenza, per rendere chiaro a chi vuol comprendere cosa sia un determinato evento, una particolare cosa!
La sintonizzazione è uno degli strumenti fondamentali dell’apprendimento. Tante delle cose importanti che abbiamo appreso: la nostra lingua madre, la capacità di interagire con gli altri e quella di modulare l’attenzione (mettere certi filtri per non essere distratti, applicare la curiosità ad un oggetto), le abbiamo apprese grazie ad essa. Un po’ era innata perché parte dell’armamentario di base dell’apprendista che ognuno di noi è stato; un po’ si è sviluppata grazie al suo uso su di noi di chi ci ha allevato: come dire che abbiamo appreso a sintonizzarci perché, prima, qualcun altro si è accordato con noi, ha ascoltato i nostri bisogni e ci è venuto incontro sui nostri desideri quasi prevedendoli.
L’abbiamo imparata estraendola dalle relazioni in cui c’era!
Come dicevo tempo fa: “La sintonizzazione è uno dei modi che abbiamo per rendere certi confini meno rigidi e per avvicinarci all’altro pur mantenendo e, potremmo dire, creando continuamente la nostra identità. Non è un’abilità particolare che si impara durante un corso universitario e che si riesce ad applicare quando si diventa genitori o psicoterapeuti.”
E’, insomma, più una dote da apprendisti che un acquisizione dell’età adulta. Qualcosa che non va imparato di nuovo ma, piuttosto, ricordato.
E, spesso, è sepolta sotto a un cumulo di opinioni o nascosta dietro ad un’identità irrigidita come se ciò che abbiamo imparato si fosse cristallizzato in una corazza da cui non riusciamo a separarci o come se le risposte che abbiamo trovato formassero un reticolo che non lascia spazio a… niente di nuovo.
Credo che la durezza di madre Teresa e la risposta paradossale del maestro Zen spingano proprio contro questa rigidità. Penso che puntino ad insegnare più il silenzio che la chiacchiera, più l’apertura che la presa di posizione. 

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