Hikikomori (引きこもり? letteralmente "stare in disparte, isolarsi",[1] dalle parole hiku "tirare" e komoru "ritirarsi"[2]) è un termine giapponese usato per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento. Tali scelte sono causate da fattori personali e sociali di varia natura. Tra questi, la particolarità del contesto familiare in Giappone, caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da un'eccessiva protettività materna, la grande pressione della società giapponese verso autorealizzazione e successo personale, cui l'individuo viene sottoposto fin dall'adolescenza. Il termine hikikomori si riferisce sia al fenomeno sociale in generale, sia a coloro che appartengono a questo gruppo sociale.
Il percorso terapeutico, che può durare da pochi mesi a diversi anni, consiste nel trattare la condizione come un disturbo mentale (con sedute di psicoterapia e assunzione di psicofarmaci) oppure come problema di socializzazione, stabilendo un contatto con i soggetti colpiti e cercando di migliorarne la capacità di interagire. Il fenomeno, già presente in Giappone dalla seconda metà degli anni ottanta, ha incominciato a diffondersi negli anni duemila anche negli Stati Uniti e in Europa.
http://it.wikipedia.org/wiki/Hikikomorihttp://www.iltuopsicologo.it/
HIKIKOMORI: “LA STANZA DI DENTRO”
(a cura della
Dott.ssa Francesca Lecce - Psicologa)
IO MI SENTO AL
SICURO SOLO QUI'
Lo scopo di questo articolo consiste proprio nella spiegazione
di tale affermazione, che sintetizza in poche righe il nucleo essenziale delle
ricerche in letteratura che ho condotto in questi mesi: quello che
comunichiamo è ciò che l’altro ha compreso e non quello che pensiamo di aver
comunicato.
La “stanza segreta” della nuova generazione Giapponese è un
fenomeno alquanto complesso, la sua manifestazione non si riduce soltanto a ciò
che comunemente hanno definito come “ritiro sociale di adolescenti
problematici”, ma si promuove come “la nuova comunicazione della generazione
umana”. Termine che non si attribuisce automaticamente a tutta la realtà
giovanile ma che rappresenta tutta l’inquietudine del mondo osservata dagli occhi
di chi “fatica” a comunicare.
Tutti i mutamenti, tutti gli accadimenti tutte le devianze che
gravitano intorno al termine “adolescenti problematici” vanno visti come
l’emergere della ri-posizione di un soggetto uscito dall’età innocente. Gli
elementi di crisi che definiscono ciascun soggetto adolescente mettono in luce,
attraverso le sue specifiche manifestazioni, la struttura del soggetto al di là
della cultura e delle epoche che necessariamente cambiano.
Oggi riti molto meno complessi e di poco valore simbolico
segnerebbero il passaggio ad un’altra fase della vita. Tuttavia, quasi sempre,
questi mutamenti non vanno di pari passo con l’emergenza pulsionale, una
metamorfosi che con l’evidenza dei cambiamenti del corpo sessuato non è più
ignorabile. In tutte le società il passaggio dalla famiglia (microcosmo) al
mondo esterno (macrocosmo), dalla caduta dell’onnipotenza e della dipendenza
infantile all’assunzione di una consapevolezza intesa come capacità di una
iniziativa sempre più vasta, è valutata una fase molto complessa. Una fase più
o meno lunga, di solitudine e di domande senza risposte, in cui affrontare i
mutamenti della propria esistenza e della propria pulsionalità in relazione al
sociale sino all’accettazione di un ruolo adulto. La separazione dalla madre,
dal nucleo familiare, se non ancora più specificamente la mancanza delle
iniziative dell’attaccamento (infantili e materne), la carenza del sottile
gioco degli atti, l’assenza delle relazioni sincroniche e diacroniche e delle
loro interpretazioni, è infatti sentito dall’adolescente come un lutto e come
pericolo di morte.
Pertanto, l’abbandono dell’onnipotenza infantile è sentito come
mancanza di appigli e come necessità di trovarne di nuovi in maniera autonoma e
particolare. Una chiamata ineludibile, a cui non è possibile non rispondere.
Così i comportamenti “devianti” (come il fenomeno Hikikomori)
evidenziano punti conflittuali rimossi e, celano, ciò che l’adolescente ricerca
per affermare la sua individualità nel sociale e nel pulsionale. A tal riguardo
credo che il caso Hikikomori vada affrontato da diversi punti di vista.
Una comunicazione di tipo
“selettivo”.
A mio avviso il primo punto da analizzare, dopo aver chiarito le
problematiche relazionali che incontra e manifesta l’adolescente, riguarda
indiscutibilmente la comunicazione (di tipo selettivo) e il messaggio che si
trasmette tramite tale comunicazione. La comunicazione come l’altra faccia
dello specchio rispetto all’apparente natura del fenomeno Hikikomori. Nessuno
può negare che nella società Giapponese si assiste nel periodo contemporaneo,
ad una nazione forte sul piano industriale e finanziario che minaccia di
surclassare quei paesi occidentali più avanzati che lo hanno sponsorizzato.
Sarebbe sufficiente partire da questo spunto per argomentare alcune risposte al
quesito di apertura di questa affermazione socio-culturale (Carbonaro, La Rosa,
1997). Ma prima di soffermarmi sul principale cardine del Giappone: il
conformismo più spinto alle regole, sia nella scrittura che nelle consuetudini
e, perdere il controllo, nel parlare su quanto il fenomeno Hikikomori sia
influito dalla società Giapponese (società modernizzata, ricca e potente ma
anche fragile e in crisi di identità, formale e impenetrabile) vorrei
incentrare l’argomento non sull’espressione “consumo e lavoro ergo sono”
ma sulla citazione di Gregory Bateson - la comunicazione si crea attraverso
le incessanti alchimie e trasformazioni che si generano all’interno delle
relazioni tra gli elementi che compongono il sistema; la comunicazione, dunque,
nasce, e si sviluppa nel segno delle differenze e del cambiamento, in un
universo di messaggi che acquisiscono un chiaro significato solamente se
collocate nel loro contesto relazionale e ambientale-.
Se si tiene in considerazione la mente di ciascuno di noi si può
notare come essa elabori tutto secondo il proprio vissuto e, quindi, come non
sia altro che il prodotto del proprio vissuto. Questo concetto, conferma, come
la comunicazione si può ricondurre ad un rapporto tra lessico e interazione
sociale in chiave genetica ed evolutiva. Prendiamo ad esempio una parola
ordinaria come “aiuto”, o “ mangiare”, o “allegro”, o “chiudere” e osserviamo
come e cosa un adolescente può suscitare al ricevente tramite la
trasmissione del messaggio.
Immaginiamo che la parola dell’emittente sia “aiuto”. Senza
particolare intonazione di voce.
Se si chiedesse, a questo punto al ricevente cosa ha sentito,
sicuramente ci direbbe di essere ricorso a delle situazioni immaginarie prima
di rispondere a questo tipo di messaggio.
Ipotizziamo ora che lo stesso adolescente dica: “Aiuto!”. Usando
un tono di voce spaventato.
Se si chiedesse, in questo caso, al ricevente cosa ha sentito
sicuramente ci direbbe di essere ricorso a situazioni inventate più minuziose,
più ricche, più vive.
Infine, immaginiamo, che l’adolescente pronunci: “Aiuto?”
Il ricevente, a tal riguardo, sicuramente ci direbbe di aver sentito
una domanda.
Ciò che è sempre quasi presente nelle soluzioni trovate dal
ricevente si svolgono in contesti interattivo-sociali. Questi contesti possono
poi essere costituiti da gruppi composti da due soggetti, o essere più ampi
(tre, quattro, più individui) e anche se la qualità e la quantità degli scambi
interattivi varia in relazione a diverse variabili, una cosa è certa: il ricevente è sempre presente (Aprile,
1993). Dunque in sintesi:
• l’emittente ha comunicato un messaggio.il messaggio di qualunque
natura sia (informazione, dato, notizia o semplice sensazione) è stato
trasmesso.il codice (una lingua, un gesto, un grafico, un disegno) ha permesso
che la comunicazione sia avvenuta.
• il ricevente (il soggetto o i soggetti) ha ricevuto il
messaggio.
COMUNICAZIONE= TRASMISSIONE, PASSAGGIO DI INFORMAZIONE
.EMITTENTE
|
RICEVENTE
|
COMUNICAZIONE = RELAZIONE, COMPRENSIONE
La comunicazione verbale sinteticamente è un processo attivo
tipicamente umano e sociale di scambio e condivisione delle informazioni, delle
idee, dei messaggi fra due o più soggetti. Il processo della comunicazione
inizia quando un emittente concepisce un messaggio e lo trasmette, attraverso
un mezzo o un canale specifico, al ricevente, il quale lo interpreta e rimanda,
in qualche modo, un altro segnale, con cui rende noto che il messaggio è stato
ricevuto e compreso. Questi processi di produzione/ricezione sono continui
nella comunicazione: una delle sue caratteristiche è, infatti, quella di
scambiare le posizioni all’infinito.
All’interno di ciascun processo comunicativo è possibile
classificare una serie di “funzioni”. Lo studioso Roman Jakobson ne ha
classificate sei:
• funzione espressiva o emotiva: il linguaggio consente di esprimere la propria personalità, i
propri stati d’animo e sentimentifunzione conativa: attraverso il
linguaggio si possono influenzare i comportamenti degli altri. Rientrano in
tale categoria la richiesta d’aiuto, il suggerimento, la persuasione, il
comandofunzione poetica: si riferisce all’organizzazione interna del
messaggio e riguarda il modo in cui viene messo in pratica e strutturatofunzione
referenziale: riguarda il rapporto tra il messaggio e la realtà esterna
attraverso determinati strumenti linguisticifunzione fàtica: riguarda il
mantenimento della comunicazione avviata
• funzione metalinguistica: è relativa
alla presenza di elementi all’interno del messaggio che definiscono il codice
stesso.
Dunque, la comunicazione è un aspetto essenziale della nostra
esistenza. E sarebbe problematico cercare di mettere in dubbio la fondatezza di
tale affermazione, in particolar modo nel caso specifico degli esseri umani:
tutti noi comunichiamo costantemente con gli altri esseri viventi e con
l’ambiente circostante. Fin dai primi giorni di vita ci troviamo immersi come
soggetti attivi e dotati di capacità comunicative all’interno di una condizione
relazionale che fa partecipe le nostre figure primarie d’attaccamento e, allo
stesso tempo, siamo involontariamente coinvolti in un continuo processo di
acquisizione delle “regole” della comunicazione. Se pensiamo che a partire
dagli anni Ottanta gli studi condotti sulla relazione madre-bambino focalizzano
l’attenzione sulle tendenze innate e sui problemi del primo anno di vita, anche
in funzione di un eventuale intervento precoce per prevenire disturbi nella
seconda infanzia e, collocano in posizione di centralità lo studio della
relazione primaria. Emde, analizzando le modalità fondamentali dello sviluppo,
prende in considerazione le “motivazioni di base” che sono innate nel bambino,
che rintracciano la loro espressione evolutiva all’interno del rapporto, che
permangono negli anni e dalle quali non può prescindere lo sviluppo.
Particolare rilievo è dato dallo studioso alla “predisposizione alla
socializzazione” che egli indica come “terza motivazione di base”: il bambino
nasce preadattato ad una serie di interazioni con gli altri. A tal riguardo,
Emde, mette in risalto la “natura diadica del sistema motivazionale: la
predisposizione alla socializzazione, in quanto tendenza innata, è comune sia
al bambino che al genitore”. il bambino pertanto in questa relazione costruisce
non solo il Sé, ma anche i modelli relazionali. Per concludere, tutto il
percorso evolutivo, comprendente talvolta anche disarmonie più o meno
significative, è comunque influenzato sia dalle condizioni ambientali, in
particolare del rapporto con la madre, che lo caratterizza attingendo alla sua
sensibilità, ma anche alle personali conflittualità, sia dal patrimonio
genetico che condiziona gli “schemi reattivi primari”
Dopo aver tentato di capire lo sviluppo delle sindromi
relazionali e dopo aver cercato di centrare il significato della parola
“comunicazione” e/o “relazione”, è necessario condurre in primo luogo la
domanda “perchè si comunica” al fenomeno di inibizione sociale dei
giovani Hikikomori.
L’impossibilità di non comunicare: qualsiasi comportamento, in
situazione di reciprocità tra persone, è ipso facto una forma di comunicazione.
Infatti qualunque sia l’atteggiamento assunto da qualsiasi individuo questo
diventa immediatamente portatore di significato per altri ed ha dunque valore di
messaggio. Anche la mancanza di reazione, i silenzi, e l’ozio sono forme di
comunicazione, poiché portano con se un significato e un messaggio. Ad esempio,
non è difficile che due perfetti estranei nella medesima sala d’attesa di un
ambulatorio si ignorino completamente e apparentemente non comunichino. In
realtà tale indifferenza reciproca costituisce uno scambio di comunicazione
nell’ugual misura in cui può esserlo una discussione energica.
In secondo luogo bisognerebbe chiedersi come si comunica
quando si parla di comunicazione.
Ogni comunicazione comporta di fatto un aspetto di
metacomunicazione che determina la relazione tra i comunicanti. Ad esempio, un
adolescente che esprime un ordine:
- da oggi resterò chiuso nel mio mondo, vi proibisco di entrare
nella mia stanza segreta!
Comunica, oltre al contenuto (la volontà che l’ascoltatore
compia una determinata azione), anche la relazione che trascorre tra chi
comunica e chi è oggetto della comunicazione. Ogni comunicazione oltre a
trasmettere informazione, implica un impegno tra i comunicanti e definisce la
natura della loro relazione.
La comunicazione sociale è sostenuta oggi anche da moderni
strumenti, che consentono, di superare le barriere e i vincoli di tempo e di
spazio e, fra i nuovi modi di comunicare, Internet è certamente uno dei mezzi
che offre maggiori opportunità.
Sherry Turkle ha scritto un libro nel 1997 intitolato "Il
secondo Io" ed analizzandone il significato potremmo capire come il mondo
del web risulti essere una versione di se stessi, un vero sé. Proponendolo come
essere onnisciente, nel senso che può fornire in pochi secondi così tante
informazioni e così tanti contatti e relazioni, soffrendo di sintomi di ritorno
nel momento in cui arriva l’ora di spegnerlo (e si esce da quel mondo). In tal
modo con la nascita del trasmesso, lo scritto, nonostante sembrava
essere destinato a una lenta ma inesorabile fine ha invece rilanciato una
“nuova” lingua scritta, come dimostra il recente sviluppo, anche in Italia, dei
siti internet e delle chat-line (Carrada, 2000). Caratteri veloci e brevi come
quelli presenti nella comunicazione delle chats, che si svolgono in uno spazio
puramente virtuale. Questa forma di trasmissione a distanza dello scritto è del
resto l’unica che prevede necessariamente la compresenza dell’emittente e dei
riceventi, che implica limiti temporali nella fase della sua pianificazione,
che mostra una scrittura in continuo movimento (D’Achille, 2003).
Quindi proprio perchè siamo bombardati da messaggi culturali che ci
spingono ad utilizzare questa nuova comunicazione rivoluzionaria che
bisognerebbe distaccarci dai contorni del fenomeno Hikikomori e cercare la
risposta studiando il problema di questa comunicazione “falsata” tra i giovani
del Sol Levante. L’Hikikomori non è una delle tante manifestazioni della crisi
adolescenziale, che riguarda più di un milione di adolescenti che non riescono
a vivere nella società e, che, pertanto si rinchiudono fra le mura
della loro camera, rifiutando il contatto con il mondo esterno anche per anni.
Il male oscuro di questi “adolescenti tartaruga” è di più. Questa fuga dal
mondo li conduce ad “ammazzare” il tempo con internet, con i videogiochi, con
la tv e con la musica. Tale “espatrio” volontario è inscindibilmente connesso
alla fruizione delle nuove tecnologie: questi giovani si allontanano dalle
relazioni reali per abbracciare quelle virtuali e il cyberspazio prende il
posto della vita. Appare quindi indispensabile analizzare le modificazioni che
si verificano nella mente umana in rapporto con la ormai totale diffusione
della rete.
L’adolescente finisce con il rimanere intrappolato in quella
rete dove l’unica via possibile è vivere in una sorta di alienazione
tecnologica. Anche il corpo si imprigiona. Non è più rivolto al mondo esterno,
ma suggellato dentro i propri confini, implacabili e ghiacciati. Non c’è più
nessuno con cui parlare o a cui rivolgere un gesto, un contatto diretto.
L’individuo non vuole perdere la propria “stanza segreta” e rinuncia al
benessere sociale che sublima nel benessere virtuale. Navigare nella rete per
questi adolescenti diventa il loro scopo di vita e non possono farne più a
meno. L’abuso nell’utilizzo delle informazioni disponibili in rete, infatti,
può portare ad un sovraccarico cognitivo che satura il cervello, riducendo
l’attenzione razionale; contemporaneamente il conseguente isolamento sociale
sostiene il ricorso ad Internet per cercare occasioni di socializzazione
virtuale che possono sconvolgere i delicati equilibri dell’identità, creando la
possibilità di sperimentare ruoli e parti del Sé altrimenti non sperimentabili
nella vita reale che, tuttavia, accrescono il numero di ore trascorso on-line,
con il risultato che si può finire incollati ad una sedia e ad un monitor per
giornate intere, rinunciando a salutari e “reali” esperienze di vita.
L’utilizzo della rete e delle varie applicazioni è in grado di determinare un
ampliamento ed un’errata percezione dei confini del Sè. Presi dal vortice dei
rapporti sociali virtuali, dividiamo disperatamente la nostra limitata
attenzione, concedendo frammenti della nostra coscienza ad ogni cosa o persona
che richieda il nostro tempo. Ma nel farlo mettiamo a rischio la nostra
persona nel perdersi nella rete labirintica di connessioni mutevoli.
D’altra parte la carenza di una reale presenza fisica e l’impossibilità
di poter avere accesso a tutta una serie di messaggi non verbali ai quali siamo
abituati nelle relazioni interindividuali diminuisce la possibilità di accesso
a tutta una serie di indicazioni basilari nell’interazione tra due individui.
L’abuso di internet sarebbe determinato da un senso di vuoto, da un vissuto di
solitudine e dalla difficoltà di investire la realtà of-line. In alcuni casi
estremi come quelli dei ragazzi Hikikomori, la partecipazione alla realtà on
line è finalizzata alla negazione di quella concreta, quotidiana, avvertita
come intimidatoria. Lo dimostra (o lo induce a pensare) la discussione tra due
ragazzi Hikikomori trovato su un Diario di Bordo in rete, di un isolatra
Giapponese:
- Tu ce l'hai una stanza segreta dentro di te?
Perché mi scrivi Cettina? Ti senti sola anche tu e
contrariamente a me non hai la forza di rinunciare alla vita che il mondo ti
propone?
Ci sono cose tremende intorno a te come qui? Ma qui il tremendo
è invisibile e pulito come una stuoia nuova e non scorre sangue, nemmeno nelle
vene.
Ho sentito che anche in Spagna è esplosa qualcosa di più di una
bomba, una sorta di guerra di idee che ha fatto molte vittime.
Che cosa orribile! Tutti quegli omicidi senza che gli assassini
guardassero negli occhi le loro vittime: da noi, nel nostro orrendo e
sanguinoso passato, nessun guerriero avrebbe mai ucciso un nemico senza averlo
prima guardato negli occhi. ...Ma poi, quegli uomini e donne erano forse nemici
di qualcuno?
Non c'è onore nell'omicidio del terrorista. Forse, in nessun
omicidio, malgrado la società lo codifichi entro qualsiasi sia l'idea che lo
sorregge.
So che è da vigliacchi vivere chiusi in una stanza ma vivere in
un mondo dove gli uomini uccidono i loro compagni di viaggio solo per
dimostrare al mondo che esistono, mi sembra una cosa assurda, una cosa che il
tempo cancellerà come il vento soffia via la sabbia dal mio davanzale. Verranno
dimenticati gli assassini e di loro, dei loro gesti, delle loro idee, non
resterà nulla. Tutto inutile! Perché combattere uccidendo quando invece
dovremmo costruire? Hai idea Cettina, di quanti milioni di anni sono stati
necessari perché cause del tutto naturali e coincidenze fortuite abbiano
contribuito a costruire questo mondo così come tu lo vedi? C'è davvero da
impazzire o da sentirsi al sicuro. Io mi sento al sicuro solo qui. Per ora. -
La realtà on line fornisce il vantaggio di dare gratificazioni
immediate, per la sua disponibilità pressochè persistente. La comunicazione
nelle chat o nei diari di bordo, è dominata dalla sensazione, spesso
ingannevole, di essere capiti e di capire, di condividere le emozioni proprie e
altrui. L’illusorietà, infatti molte volte si rende palese nel momento in cui
si decide di abbandonare l’ambiente virtuale per quello reale. Spesso quello
che sopraggiunge e che si tende a capire solo a posteriori è che la
comunicazione, fino a quel momento è stata interiorizzata e rivolta in
prevalenza a se stessi. L’importanza di considerare il “disagio relazionale”
in una prospettiva interattiva consiste pertanto anche nella possibilità
concreta di accertare esplicitamente e di documentare problemi relazionali
<<individuali ed intra-familiari>> e di progettare un
intervento preciso anche in casi che, pur senza sintomi o manifestazioni
definiti dalla tradizionale nosografia neuropsichiatrica, destano
preoccupazione.
Perchè i giovani rifiutano tutto
d’un tratto il rapporto con gli altri?
Secondo un’indagine che sta portando avanti la Bbc il problema
va affrontato da diversi punti di vista. C’è di mezzo infatti il sistema
scolastico Nipponico, giudicato tra i più severi del mondo, ma anche l’incapacità delle nuove leve di sopportare le
frustazioni, la forte competitività, gli “sfottò” ed il bullismo, anche
essi fenomeni molto diffusi oggi nel Sol Levante. In pratica per tutta questa
serie di circostanze, il giovane non trova per sopravvivere altra via di scampo
se non quella di sviluppare nella propria
mente un mondo nel quale non esistono angherie, dolori ed ostacoli alla
realizzazione del proprio Io, ma che di fatto è solo il frutto della sua
immaginazione.
CASI CLINICI (RACCONTATI IN UN ARTICOLO DEL NEW YORK TIME DEL 15
GENNAIO 2005):
• Una mattina, T. All’età di soli 15 anni, si chiuse alle spalle
la porta della sua stanza e non vi uscì più per i successivi lunghi quattro
anni. Non frequentò più la scuola non faceva più alcuna attività lavorativa,
non aveva più alcun rapporto sociale con i propri amici. Visse, mese dopo mese,
24 ore su 2a in una stanza non più grande del suo letto. Trascorreva le sue
giornante mangiando le pietanze che la madre gli preparava (lasciate
all’esterno della propria camera da letto), dormendo, guardando giochi televisivi
e ascoltando musica.
• Y.S., all’età di 14 anni, dopo anni di maltrattamento
psicologico da parte dei suoi compagni di scuola, si era ritirato nella sua
stanza e aveva continuato a guardare la televisione, a navigare su internet ed
a costruire modellini di automobili per molti anni ancora. Circa metà della sua
vita.
CASO CLINICO (RACCONTATO IN UN ARTICOLO DEL GIORNALE
“IL FOGLIO” 18 FEBBRAIO 2006):
La camera di Asacho è completamente vuota. La luce le da
fastidio. Non voleva diventare famosa. Ogni giorno stessa uniforme, ogni giorno
la stessa classe, gli stessi compagni, le stesse persone, le stesse azioni.
Sempre con la medesima divisa- lei odiava quella divisa-.
Continuava a fare le solite cose che facevano tutti.
Semplicemente perchè le facevano tutti. E a tal riguardo, la sua ricorrente
domanda era:
- perchè devo continuare a ripetere le cose che fanno tutti?
Dalle scale guarda la madre. Si allontana. Si prepara.
È in procinto di uscire. Asacho si veste, la solita divisa, il
medesimo sorriso, la solita frase:
- tutto bene, nessun problema.
Lei aveva la sua vita.
Aveva il suo computer.
La sua chat.
Il Dottor Saito nel 1995 non riusciva a comprendere.
Nell’intervista rilasciata affrema:
- Non sapevo cosa fosse! Sembrava depressione, un disordine
mentale, una forma di schizofrenia. Non capivo.
Ma negli ultimi dieci anni i casi sono raddoppiati, un
milione di persone, il 20% degli adolescenti del Giappone. Li hanno definiti”
lost generation”, il “missing milion”. Una persona su dieci in Giappone è
ammalata di Hikikomori. Il Dott. Saito ha creato la più importante clinica per
curare i pazienti Hikikomori- la New Start.
In Italia, a Senigallia, c’è la Noston. Consulenza, diagnosi,
terapie, incontri.
Sulle cause del fenomeno si fanno
solo ipotesi.
L’Hikikomori sembra essere una sindrome culturale che si
sviluppa in un paese specifico durante un particolare momento della sua storia.
I giapponesi hanno cercato di ricondurre il fenomeno a qualunque cosa:
• Alle madri oppressiveAlle madri assentiAi padri troppo impegnati
nell’ambito lavorativoAl bullismo scolasticoAll’economia in netta
recessioneAlle pressioni accademiche
• Al mondo del web
Ma il tutto potrebbe anche essere collocato sullo sfondo di una
società sociologicamente in crisi e che, maggiormente, si nutre di una cultura
non “sempre sana”.
Il Dott. Saito, che ha trattato più di 1000 Hikikomori,
attribuisce il disagio al contesto familiare e sociale, all’interdipendenza fra
genitori e figli ed alle loro pressioni psicologiche. Ad esempio, se un figlio
decide di non seguire un preciso percorso come il frequentare un’università
d’elitè o un’azienda di prestigio, i genitori vivono e fanno vivere ai propri
figli tale situazione come un grande fallimento. Molti fra gli stessi
pazienti raccontano di anni scolastici da incubo, di episodi di bullismo,
in cui venivano maltrattati per essere troppo esili o troppo “grassi” o
addirittura per essere migliori di qualcun altro nello sport o nella musica.I sintomi
Oltre all’isolamento sociale, alla dipendenza da internet,
questi adolescenti tartaruga, soffrono tipicamente di depressione e di
comportamneti ossessivo compulsivi ma non è facile comprendere se questi siano
una possibile conseguenza della reclusione forzata a cui si sottopongono o una
concausa del loro chiudersi nella “stanza di dentro”. La clinica
Nell’articolo del NYT si descrive il programma “New Start” che
offre un alloggio in comunità e un programma di formazione-lavoro. Gli
operatori sono maggiormente donne, che lavorano anche per diversi mesi, per
istaurare un legame che costituisca un un ponte stabile fra l’Hikikomori
e il mondo esterno. L’operatrice, una volta a settimana si reca nella sua
stanza per costruire un rapporto di fiducia aiutandolo in questo modo ad
esternare quelle che definiamo emozioni fondamentali (tristezza, rabbia,
paura, sorpresa, gioia). In seguito tenderà gradatamente di farlo integrare nel
mondo esterno. Una volta raggiunto il traguardo, comincerà il programma New
Start.
In qualche caso ci vogliono molti mesi, in qualche altro caso
anche anni.
Conclusioni
Partendo dalla concezione di gruppo come “complesso sistema di
dinamiche relazionali ed affettive che costituiscono la rete su cui si
costruisce la vita del gruppo nei suoi aspetti anche operativi” credo, che,
bisognerebbe aiutare questi adoloscenti con tecniche di socializzazione, dove
l’apprendimento della socialità, ovvero lo sviluppo di doti essenziali per il
vivere sociale diviene un fattore “curativo” che agisce in tutti i gruppi
terapeutici. Attraverso il feedback dei compagni, i pazienti potenzialmente
possono acquisire informazioni rispetto ai loro comportamenti sociali
disadattati, di cui spesso sono inconsapevoli ed imparare a modificarli.
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