Tratto da l' Espresso
"Guardare al futuro pensandolo migliore del
presente e desiderare il bene per sé stessi è un bisogno della nostra specie.
Perché ci aiuta a superare i momenti difficili. Ed è importante anche quando si
affrontano le malattie". Parla il medico simbolo della lotta contro il
cancro
Quando
Pandora, fanciulla divina, per curiosità aprì il vaso che Zeus le aveva
ordinato di non aprire , ne uscirono tutti i mali del mondo, eccetto la
Speranza. Gli uomini, che prima erano felici e immortali come gli dei,
conobbero allora il dolore e la morte, finché Pandora liberò anche la Speranza,
che alleviò la loro insopportabile esistenza. Molti conoscono questa storia
della mitologia greca tramandata da Esiodo, ma pochi forse si sono interrogati
a fondo sul suo significato. Perché per i Greci la speranza era originariamente
un male? Nella loro cultura era troppo vicina all’illusione, a cui seguiva
inevitabilmente la delusione, che rende ancora più tragica la realtà; dunque,
meglio non sperare.
Eppure,
a prescindere da filosofie e religioni, mai gli uomini hanno rinunciato a
sperare. Perché? Sperare è una forma di ragionevolezza o di sentimentalismo?
Non è un dubbio astratto, ma una questione sostanziale, in un momento in cui le
correnti di disfattismo e addirittura il catastrofismo - con le sue visioni di
imminente autodistruzione dell’umanità - fanno serpeggiare molte paure e
atteggiamenti regressivi.
Io
credo che il nostro pensiero sia fatto di speranza, perché noi valutiamo il
nostro futuro ogni minuto, anche soltanto per il minuto successivo, e
desideriamo che sia un futuro positivo. Dunque la speranza ha una base logica
che ci proietta nel futuro. Il termine speranza, in latino “spes”, deriva
infatti dalla parola greca “elpìs” che significa originariamente “desiderio”.
Ora, poiché nessuno desidera il male per sé, la speranza sin dai tempi antichi
significa tendere verso il bene. Quindi possiamo dire che sperare è quasi una
necessità biologica per l’individuo, vicina all’imperativo della sopravvivenza,
e credo che la società abbia il dovere di tutelarla.
L’esempio
più evidente è nel rapporto medico-malato.
Una
delle domande più frequenti che mi viene posta è se di fronte ad una malattia
grave, e potenzialmente letale, il medico deve dire la verità alla persona
malata. Io distinguo sempre due momenti: la diagnosi e la prognosi. La
diagnosi - la spiegazione di quale malattia ha la persona, e di quanto è grave
- è certa, e come tale va comunicata, per quanto complesso possa essere farlo.
Ma la prognosi - la previsione di come la malattia si evolverà e quindi quanto
e come la persona vivrà - è incerta, e come tale va comunicata. Poiché la
medicina non è una scienza esatta, c’è sempre un margine di incertezza nello
sviluppo di una malattia, e in quel margine si colloca la speranza.
Tutti
i medici devono essere onesti, ma nessun medico ha il diritto di togliere a un
malato la speranza. Perché quando si dice a qualcuno «devi morire», è come
farlo morire in quel momento. Attenzione, questo non significa che si tradisca
così la verità; è capire. Capire che esiste una malattia del corpo e una della
mente, perché la patologia colpisce un organo ma viene elaborata da una mente.
La stessa malattia può essere più o meno grave e sopportabile a seconda della
persona che la percepisce. Questo è uno dei motivi per cui dico che la medicina
deve ritornare ad essere, come era quella antica, medicina della persona. Non
possiamo curare qualcuno che non sappiamo chi è, cosa pensa, che progetti e
idee ha, vale a dire se non conosciamo la sua identità. Ed è la sua identità
che elabora la speranza, cioè il desiderio per il prossimo minuto, giorno,
mese. Voglio sottolineare che lasciare uno spiraglio di speranza non significa
affatto dispensare illusioni o sogni, anzi, a volte la fiammella della speranza
nelle situazioni più gravi si accende proprio in un “non so”. E questo accade
nella malattia, come in altre situazioni difficili della nostra vita. È
nell’incertezza del futuro che si accende la luce per superare un presente di
tenebra.
Voglio
fare un altro esempio: se siamo d’accordo che togliere la speranza equivale a
uccidere, allora diventa comprensibile la mia posizione contro l’ ergastolo
ostativo, che condanna un uomo a morire in carcere senza alcuna possibilità di
rieducazione. Infatti è chiamato anche «pena di morte viva». La scienza ha
dimostrato che il cervello di un uomo che ha commesso un delitto a vent’anni,
non è lo stesso venti o trent’anni dopo: ci evolviamo perennemente e il
desiderio per domani - la speranza appunto - è un motore importante e una forza
propulsiva di questa evoluzione.
Ci
tengo anche a precisare che non considero la speranza un sentimento tipico di
chi si trova in situazioni di debolezza o disagio; anzi, credo sia una virtù
dei forti, anche nei momenti più critici. Se penso alla mia esperienza di
giovane uomo di medicina e di scienza, posso affermare che se non avessi
mantenuto la speranza di trovare una soluzione alla cura del cancro durante
tutta la mia vita e contro tutti i pronostici, probabilmente non avrei
contribuito ad ottenere i progressi nella cura del cancro degli ultimi 40 anni.
E, come me, si scontrano ogni giorno con le loro sconfitte migliaia di
ricercatori nei laboratori del mondo, e ogni giorno sono pronti a ricominciare
da capo perché nella ricerca scientifica non si sa mai quale sarà il giorno per
il risultato giusto. Per questo penso che la speranza sia un bisogno del
pensiero e non debba essere negata mai, soprattutto ai giovani, che vivono al
massimo la progettualità per il futuro.
Quando
sento le istituzioni, gli insegnanti, i professori e gli intellettuali
dipingere per i ragazzi di oggi un quadro senza prospettive per via della crisi
economica, o della crisi della famiglia e dei valori , mi ribello
profondamente. Certo, non prevediamo un futuro di “magnifiche sorti
progressive”, ma non abbiamo il diritto di rubare ai ventenni o ai trentenni la
visione di un futuro. Questa considerazione induce a riflettere su un doppio
significato della speranza: quella che riguarda noi stessi e quella che
riguarda il mondo intorno a noi. Possiamo essere molto positivi verso di noi e
molto negativi verso il resto del mondo, ma questo atteggiamento dicotomico
difficilmente permane a lungo, perché siamo esseri sociali e siamo influenzati
dall’ambiente intorno a noi.
Per
questo io credo nell’importanza della speranza anche a livello politico. Il
nostro premier attuale, Matteo Renzi, mi piace per questo: si impegna per il
cambiamento, si mette in gioco, sbaglia anche; ma nel fare tutto questo
trasmette speranza. Ed ha tutti i motivi per farlo. Ho sempre sostenuto che il
nostro Paese ha le carte in regola per diventare un riferimento in Europa
perché è molto avanzato in base agli indici di sviluppo civile: durata della
vita (la più alta in Europa), criminalità (il tasso più basso di omicidi),
mortalità infantile (tra le più basse del mondo), accesso alle cure mediche
(gratuito per tutti) accesso all’istruzione di grado superiore (a costi
inferiori rispetto alla media europea) cultura ambientale (percentuale di
terreno boschivo e di rimboscamento superiore alla media europea). L’Italia è
pronta a mettersi in prima linea, tanto che ai miei occhi la speranza di un
futuro di segno positivo è quasi certezza.
Nessun commento:
Posta un commento