Autore: Fabricio Turoldo
ÍNDICE:
1. L'etimologia del desiderio
2. Desiderio nostalgico e desiderio escatologico
2.1. Il desiderio nostalgico
2.2. Il desiderio escatologico
3. Desiderio e bisogno
4. Il cattivo infinito
Note e Bibliografia
1. L'etimologia del desiderio
Il termine desiderio deriva dalla
composizione della particella privativa "de" con il termine latino
sidus, sideris (plurale sidera), che significa stella. Dunque
"desidera", da cui "desiderio", significherebbe,
letteralmente, "condizione in cui sono assenti le stelle". Sembra
infatti che il termine abbia avuto origine dal linguaggio degli antichi
aruspici che, trovando il cielo coperto dalle nuvole, non erano in grado di
compiere le loro funzioni divinatorie, non potendo vedere le stelle, dalla cui
osservazione traevano le loro profezie. In questi particolari momenti di
assenza del cielo stellato, si accendeva dunque negli aruspici un desiderio
profondo delle stelle, che proseguiva sino al loro nuovo apparire. Questa
ipotesi etimologica potrebbe essere ulteriormente rafforzata dalla riflessione
sul termine "considerare", costruito in modo simile a desiderare.
Considerare deriva infatti da cum + sidera e, originariamente, significava
"divinare", cioè profetizzare, interpretando le stelle. Il termine
"desiderantes" (da "de sideribus") è presente anche nel De
Bello Gallico di Giulio Cesare, dove viene utilizzato per indicare i soldati
che stanno sotto le stelle ad aspettare quelli che, dopo aver combattuto
durante il giorno, non sono ancora tornati.
2. Desiderio nostalgico e desiderio escatologico
L'etimologia, dunque, ci rimanda
ad una condizione di assenza dell'infinito, caratteristica del desiderio. Una
prima domanda, che ci potremmo porre, è allora questa: a quale assenza rimanda
il desiderio? Si tratta dell'assenza di qualcosa di cui eravamo originariamente
in possesso, o forse il desiderio rimanda invece ad un'assenza di tipo
strutturale, ad una mancanza originaria? Questa, io credo, è certamente una
domanda decisiva, una domanda a cui peraltro la cultura greca e quella
giudaico-cristiana, di cui noi siamo gli eredi, hanno risposto in modi diversi.
2.1. Il desiderio nostalgico
La cultura greca ha inteso
prevalentemente il desiderio come una tensione verso una condizione di
beatitudine originaria, a cui si spera di ritornare. La figura emblematica
della cultura greca è Ulisse, l'eroe dell'omerica Odissea, il cui desiderio è
costituito da una torsione verso il passato, verso quel mitico paradiso perduto
che è la sua originaria Itaca. Il desiderio di Ulisse è, fondamentalmente,
nostalgia, cioè dolore (algia) per il ritorno (nostos), ovvero sofferenza per
il distacco da una condizione originaria di beatitudine.
Allo stesso modo Platone, facendo
raccontare ad Aristofane, nel Simposio, il mito dei Titani, descrive il
desiderio come nostalgia. Il mito, troppo noto per essere raccontato, descrive
questi esseri, costituiti da un uomo e una donna (oppure da due uomini) uniti
in un'unica persona, che, sentendosi oltremodo potenti, avevano tentato la
scalata al monte Olimpo, con il fine di spodestare Giove. Giove, però, aveva
lanciato su di essi i suoi strali, dividendo ciascuno di essi in due parti,
ciascuna delle quali, da quel momento in poi, sarebbe andata disperatamente
alla ricerca della sua metà perduta.
Thomas S. Eliot, nel primo e
nell'ultimo verso del Quartetto East Coker, usa delle parole che descrivono
molto bene quest'idea, tipicamente greca, del desiderio: "In my beginning
is my end/ In my end is my beginning". Questi due versi richiamano il
pensiero dei primi filosofi greci, come ad esempio Eraclito, che osservava che
"comune è il principio e la fine"; oppure Anassimandro, il
quale sosteneva che "principio degli esseri è l'infinito… da dove infatti
gli esseri hanno origine ed anche distruzione, secondo necessità".
Questa idea del desiderio come
ritorno nostalgico all'origine dipende, in parte, anche dalla tipica concezione
greca del tempo, che non è lineare, ma circolare. La storia, per i Greci, non
ha un unico inizio ed un'unica fine, ma si ripete infinite volte, di modo che
la fine rappresenta sempre un nuovo inizio. Qualcosa di analogo accade anche
nella vita di ciascun individuo, secondo la dottrina della metempsicosi, così
diffusa tra i Greci. L'idea della reincarnazione sta infatti al centro della
religione orfica, molto popolare in Grecia ed assume un ruolo rilevante in
molti pensatori greci, tra cui Pitagora e Platone. Lo stesso Nietzsche, volendo
demolire il lascito culturale del pensiero giudaico-cristiano, per ritornare alla
cultura greca, ritenne necessario riproporre quella che egli definì la teoria
dell'eterno ritorno dell'uguale.
Del resto questa concezione
circolare del tempo è forse la più comune e la più naturale, perché nasce dalla
semplice osservazione della natura, che ripropone ciclicamente la successione
delle stagioni. Tale concezione è condivisa da molte culture, da quelle
orientali sino a quelle dell'America precolombiana. A fare eccezione, invece, è
la cultura giudaico-cristiana, che ha introdotto una concezione lineare del
tempo, molto meno legata ai ritmi naturali. Questa concezione domina oggi la
nostra cultura, compresi molti suoi settori che, pur essendosi congedati dal
cristianesimo, continuano a conservarne alcune nozioni fondamentali. Tuttavia,
ciò che qui a noi più interessa è il fatto che, cambiando la nozione del tempo,
cambia anche la nozione del desiderio, che non può più costituire semplicemente
una forma di anelito verso l'origine.
2.2. Il desiderio escatologico
Emmanuel Levinas ha opposto il
mito greco dell'eroe Ulisse, che parte per tornare a casa, al movimento senza
ritorno di Abramo, che abbandona la sua terra d'origine per dirigersi verso un
paese sconosciuto3. Abramo ha come meta un futuro ignoto, non un'origine beata;
ciò che sostiene Abramo non è il ricordo dell'origine, ma una promessa a cui
egli crede, di cui egli si fida, a suo rischio e pericolo: "Abramo,
chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e
partì senza sapere dove andava"4. Come osserva Levinas il desiderio
biblico non aspira al ritorno, proprio perché, lungi dal tendere verso ciò da
cui procede, si orienta semplicemente verso l'estraneità dell'altro. Se vi è
desiderio, secondo Levinas, ciò non deriva della perdita d'una qualche origine,
ma dal fatto che la perdita è essa stessa l'origine. All'origine non v'è dunque
una pienezza, la cui degradazione susciterebbe un desiderio regressivo; al
contrario, l'originario si configurerebbe come radicale non immediatezza, come
esplosione verso un'alterità estranea. Solo in questo scarto tra sé e sé, in
questa inaccessibilità immediata dell'origine, può insinuarsi, secondo Levinas,
il desiderio.
Levinas condivide pienamente la
prospettiva delle scritture ebraico-cristiane, che sono tutte tese verso un
futuro messianico. Il tempo biblico non è infatti un tempo ciclico: esso, al
contrario, ha un inizio ben preciso, con la creazione del mondo ed una
conclusione prefissata, che coincide con il giudizio finale. Tra questi due
eventi, che sono l'alfa e l'omega di tutta la storia, se ne situano altri, che
scandiscono il suo progressivo dispiegarsi: ad esempio l'incarnazione di
Cristo. Questi eventi accadono una ed una sola volta, così come ogni singola
vita viene vissuta una ed una sola volta, senza alcuna possibilità di
reincarnazione. La storia non è ciclica, ma progressiva e l'idea stessa di
progresso, che sta al centro della concezione scientifica del mondo, è un
portato della cultura giudaico-cristiana. Persino alcuni grandi pensatori
occidentali che hanno fatto professione di ateismo, come Karl Marx, non hanno
comunque mai smesso di intendere la storia come un progresso verso il meglio,
secondo un andamento lineare.
3. Desiderio e bisogno
Il rimando all'infinito è ciò che
distingue essenzialmente il desiderio dal semplice bisogno. Il bisogno è
determinato quanto al suo oggetto, mentre il desiderio tende alla totalità. La
fame e la sete sono dei bisogni, perché bastano degli oggetti determinati, come
un pezzo di pane od un bicchier d'acqua, per soddisfarli. Il desiderio, invece,
non è mai appagato in modo definitivo dalle cose determinate.
Gli animali sentono dei bisogni,
ma solo impropriamente possiamo dire che essi provino dei desideri. Il
desiderio, infatti, pur essendo legato al mondo dell'istintualità, cioè alla
sfera dei bisogni, ne sporge permanentemente, perché presuppone un universo
simbolico e culturale che al bisogno manca. Nutrirsi, ad esempio, è un bisogno
animale, però l'uomo, a differenza dell'animale, non si nutre semplicemente, ma
pranza. Il pranzare si differenzia dal semplice nutrirsi perché presuppone una
ritualità sociale ed un codice simbolico che sono del tutto assenti nel mero
bisogno. Non fa differenza, per un cane, se la carne gli viene lanciata a terra
o servita su di una tavola imbandita, se gli altri lo attendono o meno prima di
iniziare a loro volta a mangiare. Per un uomo, invece, fa molta differenza,
perché gli uomini, attraverso la ritualità del pranzo, non solo si nutrono, ma
si riconoscono gli uni gli altri. In tutte le civiltà, infatti, le tappe
fondamentali dell'esistenza vengono scandite da rituali gastronomici di vario
tipo. Le nascite e le nozze sono celebrate con banchetti; presso alcune civiltà
persino la morte è accompagnata da pasti funebri (il consòlo nell'Italia del
Sud, la panichìda della liturgia funeraria ortodossa, oppure l'antico
marzeah/marzih semitico). Allo stesso modo solennità, ricevimenti, convegni,
sfociano spesso in pranzi di gala, oppure ancora, i pranzi di lavoro spesso
suggellano tappe importanti nello svolgimento di una particolare attività
professionale (la conclusione di un affare, l'avvio di una nuova strategia
imprenditoriale, ecc.). Dunque, il desiderio di pranzare non è solo il bisogno
finito di sedare la propria fame, ma è anche il desiderio infinito di essere
riconosciuti da un'altra coscienza (anch'essa infinita), di stabilire con essa
qualche forma di alleanza, di essere da essa consolati o di riceverne delle
conferme importanti.
Qualcosa di analogo si potrebbe
dire per il desiderio sessuale, che a torto Freud riduceva a semplice libido.
La libido freudiana è infatti una forza inconscia, una corrente all'interno
dell'apparato psichico che parte dal dispiacere e mira al piacere. La libido è
il desiderio ridotto ed oggettivato nei termini quantitativi di una forza
psichica, che ha bisogno di scaricarsi, di trovare espansione e dispersione.
Quando questa forza non riesce a scaricarsi produce delle eccedenze che danno
origine ad altri stati, cioè a quelle che Freud definisce come trasformazioni,
regressioni, fissazioni, sublimazioni della libido. Se il desiderio è descritto
nei termini di una pulsione, come fa Freud, allora esso sarà indifferente al
suo oggetto, perché la pulsione agisce come una vis a tergo, che mira
esclusivamente alla scarica. Eppure il desiderio sessuale non è solo questo: la
sessualità umana non sarebbe comprensibile a prescindere dal bisogno di
riconoscimento che le è insito. Il desiderio sessuale non è solo una vis a
tergo, che ci spinge alle spalle, ma è anche finalizzato ad un certo oggetto e
ad un certo bene. Attraverso la sessualità ci si esprime infatti anche il
reciproco riconoscimento. Per questo motivo la gelosia è un sentimento
tipicamente umano. L'animale non è geloso, non chiede l'esclusività della
partnership sessuale, perché, attraverso l'atto sessuale, l'animale mira solo a
scaricare l'energia eccedente. Per l'uomo non è così: la sessualità, come il
cibo, costituisce uno degli strumenti attraverso cui si esprime il
riconoscimento reciproco. Se si trattasse solo di scaricare una pulsione, non
ci sarebbe alcun bisogno di esclusività e non ci sarebbe alcun sentimento di
gelosia, che non sono altro che richieste di riconoscimento.
4. Il cattivo infinito
L'uomo è, dunque, un infinito, ma
lo è solo formalmente; non è cioè un infinito reale, pieno, assoluto, come solo
Dio potrebbe essere. Questo significa, come diceva Aristotele, che "l'anima
è in qualche modo tutte le cose"5, ma non è realmente tutte le
cose. L'anima, in altri termini è un'apertura sull'infinito, ma rimane infinita
solo sul piano della forma e non su quella del contenuto. Per il fatto di
essere un'apertura sull'infinito, però, essa aspira all'infinito, lo desidera e
lo cerca. Essa, insomma, è un infinito desiderio di infinito.
Per questo motivo l'uomo è alla
continua ricerca di qualcosa che possa colmare questo vuoto infinito che è la
sua anima. Spesso, però, lo fa in modo illusorio, tendendo verso il consumo
tendenzialmente infinito di realtà finite. Questo spasmodico consumo lo lascerà
sempre insoddisfatto, perché la somma di una serie indefinita di elementi
finiti non potrà mai dare l'infinito di cui l'anima ha bisogno. Ci si illude
che la quantità possa sostituire la qualità, che la molta materia supplisca
allo spirito, che il cibo, la droga, il sesso o qualsiasi altra realtà finita,
possano diventare il surrogato dell'anima e, così, ci si ingozza fino a morire.
Questa rincorsa spasmodica della quantità è mirabilmente descritta in un film
diretto nel 1973 dal regista Marco Ferreri ed interpretato da Marcello
Mastroianni, Philippe Noiret, Michel Piccoli, Ugo Tognazzi e Andréa Ferréol. Il
titolo del film è La grande bouffe (La grande abbuffata) e racconta la storia
di quattro amici che decidono di porre fine alla loro vita in una decadente
villa parigina, attraverso un'orgia estrema di cibo e di sesso.
al pieno, ma come uno stato
insaturabile che si svuota man mano che cerchiamo di riempirlo"8. Pensando
alla persona bulimica che si ingozza di cibo fino a scoppiare, nel tentativo
inutile di riempire questo infinito vuoto che tutti noi siamo, oppure
all'alcolista che tracanna un bicchiere dietro l'altro, vengono in mente alcune
immagini platoniche, quali quella della "giara bucata"6, oppure
quella del piviere, che è un uccello che mangia e che nel contempo evacua7.
Umberto Galimberti osserva, opportunamente, che drogarsi, in italiano, si dice
"bucarsi" e che in francese essere alcolizzato si dice "bere
come un buco" (boire comme un trou). Sono immagini queste che rimandano
tutte all'infinitudine del desiderio e alla sua inevitabile insaziabilità. Così
scrive infatti Galimberti, prima di evocare quelle immagini: "Il desiderio
è mancanza, è vuoto, da pensare non come uno stato stabile contrario
Il tentativo contraddittorio di
saturare il nostro desiderio di infinito attraverso una rincorsa
tendenzialmente infinita verso oggetti finiti, fa venire in mente la critica
che Hegel fa al "cattivo infinito" di Fiche. L'infinito fichtiano, in
cui l'Io pone se stesso e oppone inconsciamente a sé un limite (il non-io), che
poi cerca di superare dinamicamente, può essere rappresentato come una retta
che procede senza limiti. Esso si configura dunque come un processo irrisolto,
che non raggiunge mai pienamente il proprio scopo, nel quale essere e dover
essere rimangono perennemente scissi in una rincorsa senza fine. Questo, per
Hegel, è un cattivo, un falso, infinito. Fichte, osserva infatti Hegel, non
riesce a restaurare la scissione di Io e non-io, di soggetto e oggetto, infinito
e finito, lasciando così come non superata quella strutturale opposizione. Allo
stesso modo l'alcolista, il tossicodipendente od il bulimico, che trovano
nell'alcool, nella droga e nel cibo un falso surrogato dell'altro, non fanno
che riproporre la disequazione fichtiana tra soggetto infinito e contenuto
finito. Il processo tendenzialmente infinito di assunzione di cibo, alcool o
droga non potrà infatti mai raggiungere il suo vero scopo, che è quello di
saturare un desiderio infinito. Esso è dunque destinato a rimanere un processo
irrisolto, in cui l'essere non sarà mai pienamente adeguato al dover essere.
Solo un rapporto d'amore con un'altra persona può veramente saturare questo
desiderio infinito, perché nell'altra persona è presente un vero infinito,
quell'infinito offerto dalla sua coscienza trascendentale. Nessun surrogato è
in grado di fare altrettanto.
Tuttavia la relazione con
un'altra coscienza deve essere una relazione di vero riconoscimento, per poter
veramente saturare il desiderio infinito. Se, al contrario, l'altro viene
strumentalizzato, ridotto a mezzo, subordinato a sé, egli viene in questo modo
ridotto ad un finito, ad una cosa e, di nuovo, non è più grado di saturare il
desiderio infinito. Uno schiavo, infatti, non può essere il polo opposto di una
dialettica del riconoscimento. Su questo punto Hegel ha scritto alcune tra le
pagine più belle della sua Fenomenologia dello Spirito, quelle dedicate appunto
alla dialettica tra servo e padrone. Il servo, osserva Hegel in quelle
pagine, ha avuto timore della morte e, nella sconfitta, per aver salva la vita
fisica, ha accettato la condizione di schiavitù, per diventare una cosa
dipendente dal padrone. Tuttavia il padrone non può realizzarsi pienamente come
autocoscienza in questa relazione, perché lo schiavo, ridotto a cosa, non può
rappresentare il polo dialettico con cui il padrone possa adeguatamente
confrontarsi. Essere solamente un padrone, come qualcuno ha acutamente notato,
è infatti molto meno che essere una persona autocosciente.
Note e Bibliografia
[1] DK, fr. 103.
[2] Anassimandro, in Simplicio, De physica, 24, 13.
[3] E. Levinas, La trace de l'autre, in En découvrant
l'existence avec Husserl et Heidegger, Paris 1967, p. 188 e p. 191.
[4] Eb 11, 8.
[5] Aristotele, De Anima, 431b, 21.
[6] Platone, Gorgia, 493 a-c.
[7] Ivi, 493e-494b.
[8] U. Galimberti, L'ospite inquietante. Il nichilismo e i
giovani, Milano 2007, pp. 65-66.
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