lunedì 9 settembre 2013

Psicologia e dintorni...




L'identificazione proiettiva

Nella visione kleiniana, l'identificazione proiettiva rappresenta il primo caso di relazione oggettuale aggressiva.

(di Tullio Tommasi)


Il meccanismo di difesa di identificazione proiettiva (i.p.) è un concetto elaborato da M. Klein che, nel corso del tempo, ha assunto sempre maggiore importanza. In questo articolo si vuole riassumere la posizione kleiniana per poi approfondire aspetti più ampi che riguardano l'i.p., sulla base di studi di altri autori.
Identificazione e proiezione sono meccanismi di difesa che Freud per primo ha ben descritto: basti pensare al bambino che si identifica col padre, processo fondamentale per la risoluzione del complesso di Edipo, o a quando ciascuno di noi attribuisce (proietta) pensieri e atteggiamenti propri ad altri che sono ben lontani da tale ordine di idee.
Ma l'i.p. mette insieme questi due concetti e ne crea un terzo nuovo.
In pratica, nell'i.p., proiettiamo parti di noi, il più delle volte negative, sull'altro, ma nell'immaginario del bambino queste parti entrano quasi fisicamente nell'altro, fino a possederlo.
Nella visione kleiniana, l'i.p. rappresenta il primo caso di relazione oggettuale aggressiva. Il bambino aggredisce l'oggetto cattivo e, nel contempo, lo controlla dal di dentro per impossessarsene. La mamma diventa cattiva, ma non è più vista come una persona "altra", ed ecco che anziché separazione c'è legame ancora più stretto, confuso, persecutorio, disperante.
E' come se cercassimo di eliminare le nostre parti cattive attribuendole all'altro ma, nel contempo, ci fosse una sorta di consapevolezza inconscia che fa intuire che tali parti cattive dell'altro, in realtà, sono nostre, e quindi non possiamo distanziarcene.
L'i.p. ha varie funzioni: separa parti di sé indesiderate; espelle tali parti per farle provare all'altro come vendetta; controlla dal di dentro l'altro evitando la sensazione di essere separato da lui.
In sintesi: impossessarsi dell'altro per distruggerlo e non perderlo, in un tipico rapporto sadomasochistico. In tal modo escludiamo dalla consapevolezza emozioni dolorose tipiche di una relazione a due, quali separazione, dipendenza, ammirazione con conseguente invidia, portando l'altro e noi stessi in un sistema solido, unito da un gioco perverso.
Anche se in forme meno violente rispetto al rapporto madre-bambino, capita spesso che nei nostri rapporti ci siano venature che ricordano dinamiche simili.
Ma l'i.p. non è solo questo.
Già la Klein anticipa che non solo parti cattive ma anche parti buone partecipano a tale meccanismo. Se un'i.p. di parti cattive crea un legame persecutorio che non riesce a sciogliersi, un'i.p. basata su parti buone porta all'idealizzazione, di cui l'innamoramento è l'esempio principe.
Lo psicoanalista che approfondisce in termini affermativi l'i.p. è Bion, allievo della Klein. Egli afferma che l'i.p. ha un ruolo fondamentale di comunicazione.
Nel rapporto madre-bambino è infatti solo grazie all'i.p. che la madre riesce a comprendere qualcosa di quanto il bambino le comunica inconsciamente:
arriva cioè a provare in se stessa le emozioni del bambino. Chi riceve l'i.p. ha il potere di entrare in empatia con l'altro, modificando la relazione. Continuando l'esempio madre-bambino, se quest'ultimo piange disperato e l'i.p. sulla madre ha presa, allora la madre entra nella stessa angoscia del bambino: tale sistema rimane uguale a se stesso, senza nessuna evoluzione né conoscenza. Se invece la madre ha la forza (consapevolezza) di reggere ciò che provano lei e il figlio, allora gli comunica che è possibile contenere l'angoscia.
La sua funzione di contenimento è quindi fondamentale, ma deve passare attraverso un'empatia totale col figlio, per essere davvero un contenitore capace.
Questo tipo di relazione viene poi traslata da Bion nel rapporto analista-analizzando. L'analista, oggetto di i.p. da parte dell'analizzando, entra in sintonia, provando ciò che prova l'analizzando, ma il suo compito è quello di fungere da contenimento: in tal modo egli diventa esempio di come si possa reggere l'angoscia modificando così l'atteggiamento dell'analizzando. Quindi: i.p. come meccanismo alla base dell'empatia.
Vedere il rapporto di analisi come una relazione empatica è ormai diventato consuetudine e vari autori, di estrazione anche molto diversa tra loro, pongono l'accento su tale legame. Basti pensare a Rogers, Kohut, agli analisti che si basano sul concetto di campo, per non parlare di tutto il filone junghiano. E qui si apre un nuovo ampio argomento: l'empatia, ovvero sentire come l'altro, non potrebbe essere una semplice proiezione, nella speranza di sconfiggere la solitudine?
Bion risolve la questione introducendo il protomentale, un concetto che permette l'unione tra le singole menti, attingendo quest'ultime da un'unica fonte. La relazione, basata sull'empatia, permette poi ai singoli di tornare su un terreno comune. Protomentale, dunque, come collante base, simile all'inconscio collettivo di Jung. Non a caso nell'ultima parte delle sue ricerche Bion si avvicina a Kant, nella ricerca di un sistema solido per una base comune che vada al di là delle singole individualità.
Questa è la via seguita anche da altri ricercatori in ambiti diversi, per esempio Chomsky, nelle problematiche relative al linguaggio, o Piaget, per la teoria sullo sviluppo della mente: entrambi postulano e cercano di dimostrare, un qualcosa di innato al di sopra dell'esperienza del singolo. La comunicazione, il senso comune, sono permessi proprio a causa di un "a priori" sovraindividuale. Senza l'accettazione di un dominio comune non sarebbe possibile parlare di i.p. nel senso di Bion, come chiave per aprire una dimensione in cui i confini dell'Io sono allargati.
Piaget forse peccava di troppo innatismo, non dando il giusto peso a tutto quello che passa in un rapporto. Per mettere insieme i due concetti di innatismo ed esperienza si può dire che il bambino è predisposto a essere soggetto, ma occorre qualcuno che si accorga di questo e ne renda il bambino stesso consapevole.
Se un genitore tratta il bambino fin dalla nascita come soggetto, e questo accade quasi regolarmente, il bambino inevitabilmente diventerà soggetto.
Traslando ciò nell'ambito analitico, se l'analista si pone nei confronti dell'analizzando in un certo modo che amplifichi le potenzialità del soggetto, il soggetto rinnovato potrà davvero esistere.
Detto in altro modo: se l'analista si affida all'i.p. come strumento per espandere la propria percezione in un mondo non soffocato dal proprio io, tale i.p. funzionerà allo stesso modo anche per l'analizzando.
Un fenomeno comune di i.p. che permette un allargamento dell'io avviene nell'innamorato: egli vede l'altro perfetto, proietta su di lui ogni qualità e al contempo sente che è parte di sé (…siamo un'unica cosa…) , in un sistema chiuso in cui non esistono più singoli individui ma un'entità nuova:
stupendo, finché dura. E' vero amore? Forse sì, e non mi interessa giudicare; il problema subentra quando, o per troppa consapevolezza, o per mancanza di fantasia, o per saggezza, o per non so cos'altro, non ci si innamora più in questo modo: l'i.p. non funziona più.
O meglio: l'i.p. originale e inconsapevole, alla Klein, che lega madre-bambino è ormai perduta. Per troppa consapevolezza si è perduto il paradiso originale (fino a prossimo innamoramento?), ma rimane una possibilità, una i.p. alla Bion: un territorio in cui, pur non potendo dimenticare la propria individualità, siamo spesso sfiorati dall'empatia. Che questo sentire sia una semplice proiezione o un qualcosa che raggiunge la dimensione unica originale poco importa: è sicuramente vero dal momento che lo proviamo e ci fa stare bene.







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