L'identificazione proiettiva
Nella visione kleiniana, l'identificazione proiettiva
rappresenta il primo caso di relazione oggettuale aggressiva.
(di Tullio Tommasi)
Il meccanismo di difesa di identificazione proiettiva (i.p.)
è un concetto elaborato da M. Klein che, nel corso del tempo, ha assunto sempre
maggiore importanza. In questo articolo si vuole riassumere la posizione
kleiniana per poi approfondire aspetti più ampi che riguardano l'i.p., sulla
base di studi di altri autori.
Identificazione e proiezione sono meccanismi di difesa che
Freud per primo ha ben descritto: basti pensare al bambino che si identifica
col padre, processo fondamentale per la risoluzione del complesso di Edipo, o a
quando ciascuno di noi attribuisce (proietta) pensieri e atteggiamenti propri
ad altri che sono ben lontani da tale ordine di idee.
Ma l'i.p. mette insieme questi due concetti e ne crea un
terzo nuovo.
In pratica, nell'i.p., proiettiamo parti di noi, il più delle
volte negative, sull'altro, ma nell'immaginario del bambino queste parti
entrano quasi fisicamente nell'altro, fino a possederlo.
Nella visione kleiniana, l'i.p. rappresenta il primo caso di
relazione oggettuale aggressiva. Il bambino aggredisce l'oggetto cattivo e, nel
contempo, lo controlla dal di dentro per impossessarsene. La mamma diventa
cattiva, ma non è più vista come una persona "altra", ed ecco che
anziché separazione c'è legame ancora più stretto, confuso, persecutorio,
disperante.
E' come se cercassimo di eliminare le nostre parti cattive
attribuendole all'altro ma, nel contempo, ci fosse una sorta di consapevolezza
inconscia che fa intuire che tali parti cattive dell'altro, in realtà, sono
nostre, e quindi non possiamo distanziarcene.
L'i.p. ha varie funzioni: separa parti di sé indesiderate;
espelle tali parti per farle provare all'altro come vendetta; controlla dal di
dentro l'altro evitando la sensazione di essere separato da lui.
In sintesi: impossessarsi dell'altro per distruggerlo e non
perderlo, in un tipico rapporto sadomasochistico. In tal modo escludiamo dalla
consapevolezza emozioni dolorose tipiche di una relazione a due, quali
separazione, dipendenza, ammirazione con conseguente invidia, portando l'altro
e noi stessi in un sistema solido, unito da un gioco perverso.
Anche se in forme meno violente rispetto al rapporto
madre-bambino, capita spesso che nei nostri rapporti ci siano venature che
ricordano dinamiche simili.
Ma l'i.p. non è solo questo.
Già la Klein anticipa che non solo parti cattive ma anche
parti buone partecipano a tale meccanismo. Se un'i.p. di parti cattive crea un
legame persecutorio che non riesce a sciogliersi, un'i.p. basata su parti buone
porta all'idealizzazione, di cui l'innamoramento è l'esempio principe.
Lo psicoanalista che approfondisce in termini affermativi
l'i.p. è Bion, allievo della Klein. Egli afferma che l'i.p. ha un ruolo
fondamentale di comunicazione.
Nel rapporto madre-bambino è infatti solo grazie all'i.p. che
la madre riesce a comprendere qualcosa di quanto il bambino le comunica
inconsciamente:
arriva cioè a provare in se stessa le emozioni del bambino.
Chi riceve l'i.p. ha il potere di entrare in empatia con l'altro, modificando
la relazione. Continuando l'esempio madre-bambino, se quest'ultimo piange
disperato e l'i.p. sulla madre ha presa, allora la madre entra nella stessa
angoscia del bambino: tale sistema rimane uguale a se stesso, senza nessuna
evoluzione né conoscenza. Se invece la madre ha la forza (consapevolezza) di
reggere ciò che provano lei e il figlio, allora gli comunica che è possibile
contenere l'angoscia.
La sua funzione di contenimento è quindi fondamentale, ma
deve passare attraverso un'empatia totale col figlio, per essere davvero un
contenitore capace.
Questo tipo di relazione viene poi traslata da Bion nel
rapporto analista-analizzando. L'analista, oggetto di i.p. da parte
dell'analizzando, entra in sintonia, provando ciò che prova l'analizzando, ma
il suo compito è quello di fungere da contenimento: in tal modo egli diventa
esempio di come si possa reggere l'angoscia modificando così l'atteggiamento
dell'analizzando. Quindi: i.p. come meccanismo alla base dell'empatia.
Vedere il rapporto di analisi come una relazione empatica è
ormai diventato consuetudine e vari autori, di estrazione anche molto diversa
tra loro, pongono l'accento su tale legame. Basti pensare a Rogers, Kohut, agli
analisti che si basano sul concetto di campo, per non parlare di tutto il
filone junghiano. E qui si apre un nuovo ampio argomento: l'empatia, ovvero
sentire come l'altro, non potrebbe essere una semplice proiezione, nella
speranza di sconfiggere la solitudine?
Bion risolve la questione introducendo il protomentale, un
concetto che permette l'unione tra le singole menti, attingendo quest'ultime da
un'unica fonte. La relazione, basata sull'empatia, permette poi ai singoli di
tornare su un terreno comune. Protomentale, dunque, come collante base, simile
all'inconscio collettivo di Jung. Non a caso nell'ultima parte delle sue
ricerche Bion si avvicina a Kant, nella ricerca di un sistema solido per una
base comune che vada al di là delle singole individualità.
Questa è la via seguita anche da altri ricercatori in ambiti
diversi, per esempio Chomsky, nelle problematiche relative al linguaggio, o
Piaget, per la teoria sullo sviluppo della mente: entrambi postulano e cercano
di dimostrare, un qualcosa di innato al di sopra dell'esperienza del singolo.
La comunicazione, il senso comune, sono permessi proprio a causa di un "a
priori" sovraindividuale. Senza l'accettazione di un dominio comune non
sarebbe possibile parlare di i.p. nel senso di Bion, come chiave per aprire una
dimensione in cui i confini dell'Io sono allargati.
Piaget forse peccava di troppo innatismo, non dando il giusto
peso a tutto quello che passa in un rapporto. Per mettere insieme i due
concetti di innatismo ed esperienza si può dire che il bambino è predisposto a
essere soggetto, ma occorre qualcuno che si accorga di questo e ne renda il
bambino stesso consapevole.
Se un genitore tratta il bambino fin dalla nascita come
soggetto, e questo accade quasi regolarmente, il bambino inevitabilmente
diventerà soggetto.
Traslando ciò nell'ambito analitico, se l'analista si pone
nei confronti dell'analizzando in un certo modo che amplifichi le potenzialità
del soggetto, il soggetto rinnovato potrà davvero esistere.
Detto in altro modo: se l'analista si affida all'i.p. come
strumento per espandere la propria percezione in un mondo non soffocato dal
proprio io, tale i.p. funzionerà allo stesso modo anche per l'analizzando.
Un fenomeno comune di i.p. che permette un allargamento
dell'io avviene nell'innamorato: egli vede l'altro perfetto, proietta su di lui
ogni qualità e al contempo sente che è parte di sé (…siamo un'unica cosa…) , in
un sistema chiuso in cui non esistono più singoli individui ma un'entità nuova:
stupendo, finché dura. E' vero amore? Forse sì, e non mi
interessa giudicare; il problema subentra quando, o per troppa consapevolezza,
o per mancanza di fantasia, o per saggezza, o per non so cos'altro, non ci si
innamora più in questo modo: l'i.p. non funziona più.
O meglio: l'i.p. originale e inconsapevole, alla Klein, che
lega madre-bambino è ormai perduta. Per troppa consapevolezza si è perduto il
paradiso originale (fino a prossimo innamoramento?), ma rimane una possibilità,
una i.p. alla Bion: un territorio in cui, pur non potendo dimenticare la
propria individualità, siamo spesso sfiorati dall'empatia. Che questo sentire
sia una semplice proiezione o un qualcosa che raggiunge la dimensione unica
originale poco importa: è sicuramente vero dal momento che lo proviamo e ci fa
stare bene.
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