M.C.Bateson
“Imperativo estetico: se vuoi
percepire comincia ad agire”
Heinz Von Foerster
Se si guarda agli individui e alle loro interazioni con un
po’ di profondità e tenendo presente la Psiche; se ci si rifiuta cioè di
fermarsi al comportamento e se si riconosce l’esistenza di tutta una sfera
interna, di un mondo interiore nel quale gli eventi e il mondo vengono sentiti,
elaborati e giudicati; non si può non riflettere sul fatto che gran parte della
“realtà” che stiamo sperimentando è creata non solo dagli stimoli esterni che
colpiscono i nostri sensi ma anche, e forse soprattutto, da ciò che noi in
qualche modo proiettiamo su di essi.
Come ebbe a dire G.Bateson: “Io credo, e lo dico sul serio,
all’esistenza di un legame tra la mia ‘esperienza’ e ciò che accade
‘all’esterno’ e che influisce sui miei organi di senso, ma non tratto questo
legame come se fosse ovvio, bensì come una cosa misteriosa, che richiede molto
studio. Quando dirigo gli occhi verso quello che penso sia un albero, ricevo
un’immagine di qualcosa di verde. Ma questa immagine non è ‘all’esterno’.
Crederlo è già una forma di superstizione perché l’immagine è una creazione
mia, prodotto di molte circostanze, compresi i miei preconcetti.”.
Ognuno di noi in base alle proprie precedenti esperienze, in
base al modo in cui ha elaborato i propri vissuti e alle conclusioni che ne ha
tratto, va avanti a creare un mondo che è la somma degli eventi che gli
capitano e a cui va incontro, e del suo continuo aggiungere a questi eventi la
propria opinione, i propri stati d’animo e le proprie credenze.
Ogni volta che, nelle cronache precedenti, ho parlato della
mutevolezza del labirinto, dell’assenza di confini e della co-creazione di
realtà, mi riferivo proprio a questo continuo atto del proiettare nel mondo
porzioni della nostra interiorità: parti di ciò che abbiamo appreso e portato
dentro e che ora, nell’atto di interagire con il mondo, riversiamo all’esterno,
aggiungendo “noi stessi” a “tutto il resto”.
Detto così può sembrare addirittura banale: anche ad un
livello di psicologia spicciola, ognuno di noi sa che se a dieci persone viene
chiesto di assistere allo stesso evento e poi le si interroga sul loro vissuto,
si ottengono dieci descrizioni diverse, a volte molto distanti l’una
dall’altra. E quando a queste stesse persone viene chiesta una spiegazione o
un’interpretazione del “fatto”, si nota una differenza ancora maggiore fra una
versione e l’altra.
Le differenze individuali sono, insomma, innanzitutto
differenze connesse a “ciò che ogni individuo aggiunge all’esperienza”. Questa
sorta di contributo interno è, in altre parole, ciò che fa sì che il mondo
visto con i miei occhi sia un po’ (o molto) diverso dal mondo visto con gli
occhi di un altro.
E’ qualcosa che sappiamo da sempre ma che, per comodità e a
volte per pigrizia, lasciamo scomparire nello sfondo e diamo per scontato.
Siamo abituati a condividere la realtà e viviamo in un contesto sociale in cui
l’accordo su ciò che è reale rende possibile la convivenza civile. E siccome
tutti (o quasi) concordiamo sul fatto che quando la luce del semaforo è rossa
ci si ferma e quando è verde si riparte, non stiamo lì a riflettere troppo
sulle sensazioni che il verde o il rosso, il procedere o il fermarsi, creano in
ciacuno di noi.
Ma quando ci muoviamo verso le nostre parti di Ombra, quando
le sfumature cominciano a diventare importanti e il legame con l’Altro smette
di essere sociale ed inizia ad essere più intimo, quando entrano in ballo le
emozioni e i sentimenti, a quel punto, ciò che ognuno di noi porta, più o meno
consciamente, nella relazione, diventa ciò che fa la differenza e ciò che determina
la durata, l’intensità e la “coloritura” del legame, momento per momento.
Questo riversarsi della soggettività nello spazio della
relazione è ciò che rende veramente diverso il rapporto fra gli esseri viventi
rispetto al rapporto che potrebbe esserci fra due computer, per quanto
sofisticati.
E gran parte di ciò che si riversa nella relazione non viene
“messo lì” consciamente: la percezione è quasi tutta, più o meno
pericolosamente, inconscia.
In altre parole: ciò che proiettiamo all’esterno è spesso una
parte della nostra Ombra, non sono mai solo i due Jekyll che si confrontano
nella relazione; dietro le quinte gli Hyde di ognuno di noi proiettano la loro
ombra nello spazio del rapporto.
Non sempre questo è un male, anche perché, come ho detto
nella Cronaca precedente, l’Ombra può aggiungere spessore all’individuo
portando tutta quell’energia istintiva, naturale e “selvatica” che rende un
individuo meno “sociale” e più intero e autentico. Ma perché la parte più
oscura di ognuno di noi possa fluire armonicamente verso l’esterno e non
irrompere sulla scena con la forza bruta dello scimmmione rappresentato dal Mr
Hyde di Stevenson, è necessario che l’Ombra venga in qualche modo assorbita.
Questo non significa che deve essere resa luminosa: ci sono
parti di noi che è meglio che rimangano selvatiche e ombrose, naturalmente
forti e non troppo addomesticate. L’Ombra dovrebbe piuttosto essere come
condensata all’interno della personalità. “L’analista junghiana Marie Luise von
Franz ha detto da qualche parte che una persona che ha lavorato con l’Ombra e
che ha integrato l’Ombra dà la sensazione di essere condensata. Gli altri le
riconoscono facilmente una certa autorità sulle questioni morali. Ha detto che
se un’insegnante ha lavorato con la propria Ombra, gli studenti, per quanto
giovani possano essere, lo sentono.” (R.Bly).
Si potrebbe dire che ciò che viene sentito all’esterno è lo
spessore che questa persona ha ottenuto, una sorta di peso che è in grado di
aggiungere nell’interazione e che, invece di appesantirla, la rende più
significativa. E’ come se in chi ha assorbito l’Ombra sia avvenuta una
condensazione, una sorta di inspessimento della psiche, che aggiunge
autorevolezza ai suoi gesti.
Rispondendo ad un giornalista che, negli anni ’80, gli
chiedeva se trovasse queste qualità in qualcuno dei leader politici americani
di quel periodo, il poeta R.Bly rispose: “Ronald Regan di certo non ha
assorbito la sua Ombra. In lui non c’è niente di condensato. Sappiamo che
continua a proiettare la sua Ombra sulla Russia che vede come l’impero del
male. E sostiene che i contadini disperati di El Salvador sono tutti marionette
della Russia…Winston Churchill aveva assorbito la propria Ombra ed esercitava
una autorità naturale. C’era in lui qualcosa di estremamente infantile (era lì
la sfera della sua ombra), ma sembrava che lui l’avesse affrontato e
mangiato.”.
Una volta che l’Ombra è stata “affrontata e mangiata” non
scompare ma siamo in grado di portarla con noi come qualcosa che emana e che dà
spessore ai nostri gesti e alle nostre parole. Se invece il lavoro sulla parte
oscura e repressa non ha luogo, intere parti dell’interiorità vengono
proiettate all’esterno e riversandosi nella “realtà” trasformano a nostra
insaputa le cose e le persone.
Capita così, ad esempio, che, proiettando l’aggressività
repressa sulle persone, cominciamo a sentirci circondati da nemici che ce
l’hanno con noi o che, non accettando in noi la parte più malinconica e triste,
cominciamo a trasferirla sugli altri trovandoli poco stimolanti, noiosi,
tristi. Non riconoscendo l’Ombra dentro di noi siamo in grado di vederne solo
la forma proiettata e cominciamo così ad evitarla o a combatterla all’esterno.
E questo crea un vero e proprio circolo vizioso perché di
colpo il mondo, riempito da ciò che abbiamo imparato ad evitare, diventa alieno
ed estraneo, proprio come aliena ed estranea è ogni parte di noi che non è
stata integrata. Questa visione distorta attiva una serie di meccanismi di difesa
che, naturalmente, rendono il mondo e gli altri ancora più distanti e
sgradevoli.
Per uscire dal circolo vizioso bisogna trovare un modo per
ritirare le proiezioni e per integrare l’Ombra.
Il primo passo è quello di riconoscere che, dal punto di
vista soggettivo, la realtà è il frutto di una serie di azioni che compiamo.
Questo è il senso dell’imperativo estetico di cui parla von Foerster “Se vuoi
percepire comincia ad agire”: vedo una cosa piuttosto che un’altra perché, per
qualche motivo, ho imparato ad orientare il mio sguardo in un certo modo; noto
certe parti del paesaggio e della relazione perché concentro la mia attenzione
su di esse e non su altre.
Se per percepire devo agire questo mi dà la responsabilità di
ciò che vedo e, con essa, la possibilità di allargare il mio orizzonte posando
lo sguardo un po’ più a lungo su certi aspetti del mondo.
Posso chiedermi: “Quanto di ciò che guardo è costruito da
me?, Quanto la storia che sto raccontando collima con quella che un Altro
racconta?, Posso mettere la mia descrizione accanto alla sua e vedere cosa lui
apprende da me e io da lui?”.
Queste ed altre simili domande su ciò che facciamo nel
momento in cui stiamo leggendo la realtà sono già dei gesti: possono aggiungere
o togliere qualcosa all’atto del percepire e sono come degli antidoti alla
proiezione inconscia dell’Ombra e un inizio della sua integrazione.
(Autore:dal web)
(Autore:dal web)
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