di Mauro Pellegrini
“… così come i cavernicoli sentivano il bisogno di fare
sulle
fredde pareti delle grotte per padroneggiare l’angosciosa
estraneità
minerale, familiarizzarle, rovesciarle nel proprio
spazio interiore,
annetterle alla fisicità del vissuto”
I. Calvino
C’è nel gesto del cavernicolo di cui parla Calvino un profondo
significato psicologico e sociologico: disegnare una scena di vita o una parte
del corpo sulla parete di un posto chiuso e riparato ma non ancora vissuto è un
atto fondante, una rappresentazione che rende il posto un luogo distinto
rispetto al resto. Ha, inoltre, un valore apotropaico; serve cioè ad
allontanare l’ignoto, il pericolo, ciò che si ritiene possa portar male o
ferire.
Ci sono simboli che rassicurano e di cui spesso andiamo in cerca
per esorcizzare il vuoto, per sentirci meno esposti e per sostenerci nei
momenti in cui sembra che il mondo sia meno sicuro o che la nostra capacità di
abitarlo venga meno. Vere e proprie coperte di Linus che brandiamo contro ciò
che ci spaventa e che diventano rassicuranti anche se, razionalmente, sappiamo
che difficilmente sarà un simbolo a salvarci ma che serviranno impegno,
strategie, azioni, alleati, medicine…
Eppure gran parte della cosiddetta salute mentale (e anche un
bel pezzo di quella che chiamiamo civiltà) dipende proprio dai simboli e dalla
capacità di usare dei simboli invece di passare all’azione. Basti
pensare all’arte: alla pittura, alla scrittura, alla capacità di trasferire
un’idea o un insieme di idee senza doverle ogni volta ripetere ma consegnandole
all’altro in un oggetto, un dipinto, uno scritto, un’opera della coscienza…
qualcosa insomma che rimandi a qualcos’altro che l’interlocutore può “capire al
volo”.
I disegni sui muri delle caverne erano simboli e, al contempo,
modi per digerire il mondo e per trasformarlo: portarlo dentro dopo averlo un
po’ masticato e digerito; impossessarsene dopo avergli proiettato dentro
parte di noi.
L’empatia di cui tanto (spesso a sproposito) si parla si basa
sia sull’abilità di intuire ciò che l’altro sente sia sulla capacità di
trasmettere all’altro qualcosa che l’altro possa comprendere: qualcosa
di abbastanza distinto da tutto il resto, un oggetto che per lui abbia
significato. Provate a spiegare ad un bambino un principio morale leggendogli
una legge direttamente dal codice civile… provate, invece, a raccontargli una
storia!
La favola con i suoi simboli e con le sue immagini evoca nel
bambino cose che un po’ già sa e… aggiunge qualcos’altro. Lo aiuta ad
esplorare un territorio che è limitrofo e gli fornisce i mezzi per cominciare a
renderlo familiare. E i bambini vogliono favole che siano un po’ spaventose e
vogliono essere accompagnati in territori non troppo perturbanti ma nemmeno
troppo familiari. La favola sennò diventa noiosa e la noia è il primo
indicatore di un’assenza di simboli: troppo conosciuto, troppo poco ignoto,
niente di nuovo da imparare, nessun significato ulteriore. E chiederanno che la
favola venga ripetuta, magari anche alla lettera, finché non sentiranno di
averla completamente abitata. A quel punto vorranno passare ad altro e
saranno diventati abbastanza adulti per quella storia, pronti a passare ad
un’altra.
In questa posizione c’è il senso dell’achievement: l’atto
di raggiungere qualcosa dopo un duro lavoro di cui parla Keats definendo
la Capacità Negativa: “…quella
capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze attraverso i
misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad un’agitata ricerca di fatti e
ragioni.”
I bambini sono degli appassionati di achievement e,
tranne in alcuni sporadici casi, naturalmente dotati di Capacità Negativa.
Sono, insomma, degli esploratori: attratti dall’ignoto e dalla possibilità di
scoprire e di comprendere, pronti ad affrontare un duro lavoro pur di esporsi a
nuove esperienze e non ancora così adattati da “avere una risposta pronta per
ogni situazione”.
Le risposte pronte sono invece il problema dell’adulto che ha
collezionato un insieme di strumenti che, grossomodo, vanno bene per gestire
ogni situazione che si presenta. Il vuoto è tenuto lontano da una costellazione
di simboli che interpretano il mondo e lo rendono intellegibile finché… finché
un qualche tipo di Perturbante non arriva a rompere
l’equilibrio: qualcosa si fa largo fra la fitta maglia di spiegazioni che
descrivono il mondo e… c’è bisogno di una nuova storia perché quelle finora
raccontate non bastano a tener fuori il nemico.
La crisi che si crea quando ciò che conosciamo non basta più a
“placare l’angosciosa estraneità minerale…” è un invito a disegnare ancora, un
monito a non dare le solite risposte ma ad inventarne di nuove.
Invito spesso i miei pazienti ad osservare cosa c’era prima
dei sintomi perché spesso i sintomi arrivano dopo che per lungo tempo ci si
è barcamenati adottando le solite soluzioni e ignorando i segnali che, sotto
forma di noia e di senso di vuoto, avvisavano dell’inefficacia della storia
che… stavano raccontando. Il vuoto e la noia dovrebbero essere un invito a
nuove descrizioni e uno stimolo a cercare nuovi raggiungimenti. Non “tanto per
raggiungere qualcosa” ma per quel duro lavoro che dà senso alle pitture
rupestri e ad ogni forma di arte da allora in poi. La Capacità Negativa che ne
deriva è ciò che ci ha permesso di stare su quella soglia su cui le storie
si formano: tra il Vuoto e l’abitare, in quello spazio in cui viene voglia
di porsi nuove domande e di trovare nuove letture del mondo e di se stessi.
Occorre, per mantenere questa posizione, una certa
consapevolezza e anche una certa dose di incoscienza: una non-prudenza tipica
dei bambini che noi adulti abbiamo perduto e che non possiamo certo
riconquistare regredendo ad una fanciullezza idealizzata. Serve, piuttosto, un
certo amore per il vuoto e un desiderio di abitare spazi dai quali di solito
vien voglia di scappare. Credo che l’abbia ben descritta un poeta questa strana
affinità per il vuoto, questa tendenza a non rispondere subito.
Dice:
Amo ciò che di tenace
ancora
sopravvive nei miei occhi,
nelle
mie camere abbandonate
dove abita la luna,
e ragni di mia proprietà,
e
distruzioni che mi sono care,
adoro il mio essere perduto,
la mia sostanza
imperfetta.
Pablo Neruda
Nessun commento:
Posta un commento