domenica 26 aprile 2015

Il Vuoto: abitare

di Mauro Pellegrini 



“… così come i cavernicoli sentivano il bisogno di fare sulle
fredde pareti delle grotte per padroneggiare l’angosciosa estraneità
minerale, familiarizzarle, rovesciarle nel proprio
spazio interiore, annetterle alla fisicità del vissuto”

I. Calvino

C’è nel gesto del cavernicolo di cui parla Calvino un profondo significato psicologico e sociologico: disegnare una scena di vita o una parte del corpo sulla parete di un posto chiuso e riparato ma non ancora vissuto è un atto fondante, una rappresentazione che rende il posto un luogo distinto rispetto al resto. Ha, inoltre, un valore apotropaico; serve cioè ad allontanare l’ignoto, il pericolo, ciò che si ritiene possa portar male o ferire.
Ci sono simboli che rassicurano e di cui spesso andiamo in cerca per esorcizzare il vuoto, per sentirci meno esposti e per sostenerci nei momenti in cui sembra che il mondo sia meno sicuro o che la nostra capacità di abitarlo venga meno. Vere e proprie coperte di Linus che brandiamo contro ciò che ci spaventa e che diventano rassicuranti anche se, razionalmente, sappiamo che difficilmente sarà un simbolo a salvarci ma che serviranno impegno, strategie, azioni, alleati, medicine…
Eppure gran parte della cosiddetta salute mentale (e anche un bel pezzo di quella che chiamiamo civiltà) dipende proprio dai simboli e dalla capacità di usare dei simboli invece di passare all’azione. Basti pensare all’arte: alla pittura, alla scrittura, alla capacità di trasferire un’idea o un insieme di idee senza doverle ogni volta ripetere ma consegnandole all’altro in un oggetto, un dipinto, uno scritto, un’opera della coscienza… qualcosa insomma che rimandi a qualcos’altro che l’interlocutore può “capire al volo”.
I disegni sui muri delle caverne erano simboli e, al contempo, modi per digerire il mondo e per trasformarlo: portarlo dentro dopo averlo un po’ masticato e digerito; impossessarsene dopo avergli proiettato dentro parte di noi.
L’empatia di cui tanto (spesso a sproposito) si parla si basa sia sull’abilità di intuire ciò che l’altro sente sia sulla capacità di trasmettere all’altro qualcosa che l’altro possa comprendere: qualcosa di abbastanza distinto da tutto il resto, un oggetto che per lui abbia significato. Provate a spiegare ad un bambino un principio morale leggendogli una legge direttamente dal codice civile… provate, invece, a raccontargli una storia!
La favola con i suoi simboli e con le sue immagini evoca nel bambino cose che un po’ già sa e… aggiunge qualcos’altro. Lo aiuta ad esplorare un territorio che è limitrofo e gli fornisce i mezzi per cominciare a renderlo familiare. E i bambini vogliono favole che siano un po’ spaventose e vogliono essere accompagnati in territori non troppo perturbanti ma nemmeno troppo familiari. La favola sennò diventa noiosa e la noia è il primo indicatore di un’assenza di simboli: troppo conosciuto, troppo poco ignoto, niente di nuovo da imparare, nessun significato ulteriore. E chiederanno che la favola venga ripetuta, magari anche alla lettera, finché non sentiranno di averla completamente abitata. A quel punto vorranno passare ad altro e saranno diventati abbastanza adulti per quella storia, pronti a passare ad un’altra.
In questa posizione c’è il senso dell’achievement: l’atto di raggiungere qualcosa dopo un duro lavoro di cui parla Keats definendo la Capacità Negativa: “…quella capacità che un uomo possiede se sa perseverare nelle incertezze attraverso i misteri e i dubbi, senza lasciarsi andare ad un’agitata ricerca di fatti e ragioni.”
I bambini sono degli appassionati di achievement e, tranne in alcuni sporadici casi, naturalmente dotati di Capacità Negativa. Sono, insomma, degli esploratori: attratti dall’ignoto e dalla possibilità di scoprire e di comprendere, pronti ad affrontare un duro lavoro pur di esporsi a nuove esperienze e non ancora così adattati da “avere una risposta pronta per ogni situazione”.
Le risposte pronte sono invece il problema dell’adulto che ha collezionato un insieme di strumenti che, grossomodo, vanno bene per gestire ogni situazione che si presenta. Il vuoto è tenuto lontano da una costellazione di simboli che interpretano il mondo e lo rendono intellegibile finché… finché un qualche tipo di Perturbante non arriva a rompere l’equilibrio: qualcosa si fa largo fra la fitta maglia di spiegazioni che descrivono il mondo e… c’è bisogno di una nuova storia perché quelle finora raccontate non bastano a tener fuori il nemico.
La crisi che si crea quando ciò che conosciamo non basta più a “placare l’angosciosa estraneità minerale…” è un invito a disegnare ancora, un monito a non dare le solite risposte ma ad inventarne di nuove.
Invito spesso i miei pazienti ad osservare cosa c’era prima dei sintomi perché spesso i sintomi arrivano dopo che per lungo tempo ci si è barcamenati adottando le solite soluzioni e ignorando i segnali che, sotto forma di noia e di senso di vuoto, avvisavano dell’inefficacia della storia che… stavano raccontando. Il vuoto e la noia dovrebbero essere un invito a nuove descrizioni e uno stimolo a cercare nuovi raggiungimenti. Non “tanto per raggiungere qualcosa” ma per quel duro lavoro che dà senso alle pitture rupestri e ad ogni forma di arte da allora in poi. La Capacità Negativa che ne deriva è ciò che ci ha permesso di stare su quella soglia su cui le storie si formano: tra il Vuoto e l’abitare, in quello spazio in cui viene voglia di porsi nuove domande e di trovare nuove letture del mondo e di se stessi.
Occorre, per mantenere questa posizione, una certa consapevolezza e anche una certa dose di incoscienza: una non-prudenza tipica dei bambini che noi adulti abbiamo perduto e che non possiamo certo riconquistare regredendo ad una fanciullezza idealizzata. Serve, piuttosto, un certo amore per il vuoto e un desiderio di abitare spazi dai quali di solito vien voglia di scappare. Credo che l’abbia ben descritta un poeta questa strana affinità per il vuoto, questa tendenza a non rispondere subito. 
Dice:

Amo ciò che di tenace 
ancora 
sopravvive nei miei occhi,

nelle mie camere abbandonate

dove abita la luna,

e ragni di mia proprietà,

e distruzioni che mi sono care,

adoro il mio essere perduto,

la mia sostanza imperfetta.

Pablo Neruda

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